Paolo Virzì e il romanzo della realtà contemporanea (Federico Govoni)

I film di Paolo Virzì sono immediatamente riconoscibili per il tono e la vivacità narrativa, possiedono una profondità di pensiero e di analisi sociale che rendono evidente una forte autorialità appena nascosta dietro il velo dell’ironia. Ma ciò che fa amare e rende calde le sue storie per immagini, è l’autentica umanità del regista che sa voler bene ai personaggi, assai verosimili alla vita degli spettatori. L’empatia dell’autore, sempre capace di cogliere l’atmosfera, la mentalità generale del tempo e la psicologia, ricca di sfaccettature degli individui, permette, a chi guarda, una forte identificazione e il riconoscimento delle proprie emozioni. Paolo Virzì, pur attentissimo nel far appassionare al racconto perché, prima di tutto, bisogna sempre domandarsi come la storia andrà a finire, ha una forte vocazione pedagogica (impegno morale) che aiuta il pubblico a capire la realtà in cui vive e ad affermare i suoi diritti, spesso negati da chi detiene il potere.

Livorno

Tra gli elementi più caratteristici della biografia è inevitabile sottolineare la sua “livornesità” in quanto la cittadina toscana, con il suo porto e le lunghe coste, inquadrate nel film di Dino Risi Il sorpasso, il sole, il mare, il dialetto colorito, un certo senso indolente e leggero di affrontare la vita, ha inevitabilmente contribuito a forgiare il suo carattere da simpatico guascone. Ovosodo, La prima cosa bella e il documentario L’uomo che aveva picchiato la testa, testimoniano la fecondità dell’ispirazione che la città ha avuto su Paolo Virzì. Nonostante la sua proverbiale ironia, il regista ha però una vena nascosta di malinconica inquietudine, il suo animo conosce le tinte della drammaticità anche se, fino ad ora, non è ancora emersa creativamente in modo esplicito ma è rimasta nel sottotesto dei film o confusa con qualche risata. Probabilmente l’aver perso presto il babbo lo ha fatto crescere repentinamente e lo ha costretto a conoscere le difficoltà del lavoro, completando, in un bagno di umiltà, la preparazione liceale e le sue numerose letture.

Furio Scarpelli

Furio Scarpelli, uno dei più grandi sceneggiatori della Commedia all’italiana, è stato, per Paolo Virzì, come un secondo padre. L’incontro è avvenuto alla Scuola nazionale di cinema a Roma dove è stato ammesso al corso di sceneggiatura per poi diventare, presto, suo collaboratore in un rapporto basato su una totale sintonia culturale e politica.

Giacomo e Furio Scarpelli, Virzì, Elio Germano

A metà degli anni ’90 il cinema italiano aveva perso il valore della narrazione, prevalevano commedie centrate sulle virtù istrioniche degli attori, oltre ad andare di moda il cinema impegnato straniero. La riscoperta della tradizione della Commedia all’italiana, erede dell’analisi sociale del Neorealismo, ma in forma più divulgativa e popolare, fu, per Paolo Virzì, una controrivoluzione. Furio Scarpelli insegna al suo allievo prediletto, con il quale condivide anche la passione per il disegno di vignette e caricature, a prendere le distanze dal “cinemismo” cioè dall’idea di ridurre il cinema ad un aspetto puramente tecnico. Prima di tutto c’è il romanzo. Il Maestro, a lezione, spiega le basi della narrazione, gli archetipi narrativi su cui si costruiscono le storie, l’importanza di scrivere personaggi contradditori e non banali, quanto sia importante il tono cioè l’atmosfera in cui si svolge l’azione che si definisce con la precisione della parola, che le regole possono essere trasgredite, perciò sono più importanti l’evoluzione dei personaggi e la preparazione di pochi colpi di scena ma significativi, piuttosto che continue e banali sorprese, e molto altro.

Paolo Virzì, con intelligenza e passione, legge tutti i libri da cui Furio Scarpelli trae esempi: Dickens, Flaubert, Cechov, i classici francesi e russi, Calvino, Cassola, Fenoglio e poi ancora altri come Flaiano, Melville, Omero… Impara che le parole dello sceneggiatore, dopo un lungo lavoro di riscrittura e approfondimento, riescono a condizionare il regista che deve solo mettere in scena le immagini già tratteggiate. Furio Scarpelli, con il suo carisma, insegna che un vero autore deve tenere sotto controllo il proprio ego e deve spersonalizzarsi nei personaggi, dunque deve guardare il mondo ed essere in grado di raccontarlo per farlo capire agli spettatori. Infine, la regola più importante: bisogna saper amare il prossimo, sentimento che Paolo Virzì, come il maestro, possiede e riesce a comunicare con i suoi film.

Regista sociologo

Il regista livornese, attraverso sceneggiature simili a veri e propri romanzi, immerge la sua penna nel calamaio della realtà e racconta le vite di umili personaggi, poi va oltre e scopre le gerarchie, i pregiudizi, le regole morali e comportamentali che ordinano tutto il Mondo. Al vertice della piramide vi sono pochi potenti che impongono la loro ideologia dominante su una massa impotente ed in affanno. Negli anni ’90 l’inquietudine e il malessere esistenziale ispiravano film con trame sentimentali, che però rimanevano in superficie ai problemi, invece Paolo Virzì approfondisce e va oltre il sintomo; applicando il metodo che Furio Scarpelli aveva a sua volta appreso da Amidei, dopo ricerche “sul campo” di tipo quasi giornalistico, mette in scena storie da cui si deducono le cause degli affanni esistenziali.

Paolo Virzì ha uno sguardo da sociologo e un cuore socialista, sta dalla parte dei deboli, la sua visione del mondo emerge chiaramente dalle sue opere anche se ha il pregio di non cadere nel didascalico. Lo spettatore non ha mai la sensazione di assistere ad una lezione ma, come avviene per i grandi romanzi, sono la storia stessa e le vicende dei personaggi che fanno passare un messaggio nel sottotesto. Allora i suoi film, come quelli più riusciti della Commedia all’italiana, sono le migliori lenti con le quali si può osservare il costume e la Storia italiana in quanto cristallizzano nel visibile i comportamenti, le credenze, i valori significativi di un’epoca.

L’ironia

Nonostante i contenuti delle sue storie siano spesso drammatici, secondo il modello della Commedia all’italiana iniziata per convenzione con I soliti ignoti di Monicelli, l’ironia è lo strumento che permette di cambiare il punto di vista sulle manifestazioni del potere dopo averlo avvicinato, privandolo di quell’aura di timore che lo accompagna solitamente. Paolo Virzì alterna le lacrime al riso per dare un maggiore senso di verità e perché l’ironia rende consapevoli gli spettatori di verità prima nascoste: più l’ironia fa emergere contenuti repressi, più le risate sono intense, dolorose, liberatorie.

Temi fondamentali

“Raccontai le disavventure di un uomo incolpevole, inadeguato alla vita, coinvolto in affari più grandi di lui; il Cosmo non è a misura d’uomo che deve adattarsi ad esso con scarso risultato tranne i più privilegiati dal potere e dal mercato”… “La capacità dello scrittore di unire all’invenzione romanzesca il realismo della descrizione, cioè di sposare al divertimento del racconto la verità anche drammatica delle cose della vita come in Dickens”

Ovosodo

“Non vi vergognate? In principio leccapiedi e si finisce assassini. Guarda il bene che Napoleone mi ha fatto. A voi ragazzi le idee giuste si sono dette e ridette, è che avete la testa e il cuore di sasso. Ubbidite al comandante, che ubbidire è l’unica cosa che sapete fare, schiavi, fate quel che vi si ordina, animali, bestie!”

N (Io e Napoleone)

In questi brevi frammenti di dialoghi, sono depositate alcune chiavi di lettura di quel sottotesto che anima i film di Paolo Virzì. C’è una visione antropologica di contrapposizione tra l’individuo e la società che si può identificare con una dinamica di integrazione o non integrazione. Il critico Maurizio Grande ha spiegato bene come la Commedia all’italiana racconti le difficoltà del “nuovo” a farsi accettare da chi detiene il potere e vuole conservare le cose immutate. E’ un po’ il destino che tocca al personaggio in formazione quando cresce: dall’età spensierata e ricca di illusioni e speranze, deve fare i conti con la rigidità e la chiusura del mondo adulto. Questo schema si carica anche di valenze politiche in quanto il “nuovo”, spesso è un subalterno appartenente ad una classe popolare che lotta per entrare nel mondo borghese. Di solito l’esito è la sconfitta, cioè una non integrazione oppure, quando è un successo, è però parziale, per il compromesso che il personaggio è obbligato ad accettare rinunciando a parte delle sue aspirazioni di libertà. Mario Monicelli era solito mettere in scena storie di “poveracci” che, intenti a intraprendere imprese più grandi di loro, non essendo adeguati, erano destinati a fallire.

Nei film di Paolo Virzì, il pubblico assiste alla rappresentazione di come il Potere si ramifica perché è interiorizzato, come sistema, nelle diverse classi sociali secondo il fenomeno, prima ancora psicologico che politico, della servitù volontaria ben descritto da La Boetie. Purtroppo, i subalterni non sono solo vittime, non sono solo tiranneggiati da chi è più forte di loro, infatti, quando possono, invece di ribellarsi alle ingiustizie, finalmente, come analizza Foucault, esercitano con soddisfazione quei comportamenti che fino ad allora avevano invece subito. Il servilismo è una condizione apparentemente incomprensibile ma spiega come un leader riesca a soggiogare o meglio affascinare una grande massa di persone.

Paolo Virzì, descrive spesso dei personaggi colonizzati dai luoghi comuni, senza una capacità critica, in balia delle mode televisive. Forse la contrapposizione più interessante nei film del regista è tra chi è portatore di cultura e di pensiero critico e chi, invece, è dominato dalla subcultura del Grande Fratello o subisce la seduzione di un “altrove” che l’apparenza (mitologia) televisiva sembra offrire insieme alla soddisfazione del bisogno di protagonismo.

Aperture

La voice-over è spesso usata da Paolo Virzì perché dà un colore romanzesco alla storia, poi è un espediente narrativo classico, associato ad un punto di vista, che coinvolge direttamente lo spettatore.

Il suo cinema è principalmente di parola, rimanendo fedele alla scuola di Furio Scarpelli che, come lo psicanalista Hillman, era convinto che la narrazione fosse necessaria a dare senso all’esistenza rendendola comprensibile. La precisione dialettale completa in modo non macchiettista ma realistico la recitazione degli attori, veri protagonisti, insieme alla sceneggiatura, della fucina creativa del regista.

Nel tempo, Paolo Virzì ha recuperato anche la dimensione tecnica della fotografia e dell’utilizzo significante della macchina da presa, spingendosi oltre il limite che il genere può imporre o, ancora di più, le attese del pubblico. Infatti, il regista non dichiara mai di essere l’erede della Commedia all’italiana, per quanto ne accetti la nobiltà di discendenza; va oltre contaminandolo e cercando di esprimere la sua profonda vena drammatica.

I Film

La bella vita è il film d’esordio di Paolo Virzì ma è già un’opera matura e rappresentativa dell’autorialità del regista. Il visibile, cioè quello che è inquadrato dalla macchina da presa, conseguenza di una scelta ideologica, non ha solo una funzione descrittiva, ma è significante perché determina le scelte e l’orizzonte culturale dei protagonisti. L’ambiente è quello di una città di provincia dove un’acciaieria pulsa con i suoi altiforni giorno e notte inquinando il territorio e consumando, con la fatica del lavoro quotidiano, le vite degli operai. Con estremo realismo Paolo Virzì racconta l’abbrutimento culturale di questi uomini, pur animati da un forte spirito di solidarietà e senso di appartenenza di classe, che subiscono, senza avere i mezzi per difendersi, l’evoluzione mondiale dell’economia indirizzata verso forme di maggiore precariato e privatizzazione. Le relazioni famigliari si compromettono perché la mancanza del denaro logora gli affetti; il presentatore di una rete privata, esempio di una realtà, circondata da un alone di successo, diversa dalla squallida vita quotidiana, diventa l’amante della moglie di un operaio. Il regista inquadra il piccolo schermo perché denuncia come, specialmente dagli anni ’90 in poi, questo mezzo di comunicazione sia determinante per la vita politica e, ancora di più, nel condizionare il costume ed i valori degli Italiani. L’uso della voice-over e l’ironia suggellano un nuovo “romanzo popolare”.

Ferie d’agosto è ambientato nell’isola di Ventotene. Si contrappongono due schiere di personaggi rappresentativi della spaccatura (sinistra/destra) che il sistema maggioritario ha determinato nella politica italiana. Da una parte i progressisti, intellettuali rispettosi dell’ambiente però ripiegati su se stessi, dall’altra la borghesia imprenditoriale un po’ volgare che parla per luoghi comuni e non può stare senza la televisione ed il cellulare. Di nuovo Paolo Virzì identifica la TV come la causa dell’imbarbarimento sociale, infatti i due gruppi si confrontano replicando i modi e le parole a cui il pubblico è abituato quando segue i talk show. Colpisce la precisione della messa in scena assai realistica, come sempre basata sulla recitazione degli attori e sulle pagine della sceneggiatura, che acquista profondità grazie a ritratti psicologici realizzati con leggerezza ma in fondo drammatici.

Ovosodo è, forse, il film che ha caratterizzato di più il regista nella prima parte della sua carriera, non a caso c’è anche, nella sceneggiatura, la firma del maestro Furio Scarpelli. La storia è debitrice di forti rimandi letterari che la nobilitano, specialmente si fa riferimento ai romanzi Grandi speranze e David Copperfield di Dickens. Paolo Virzì è stato capace di rappresentare l’evoluzione esistenziale di un personaggio in formazione che, dall’età giovanile, pieno di speranze, entra nel mondo adulto e deve rinunciare a una parte dei suoi progetti. Oltre a essere una storia esemplare dell’avventura per integrarsi nella società e della inadeguatezza esistenziale, Ovosodo descrive bene il sentimento di incompiutezza e, dunque, di sofferenza dovuto alla mancanza della realizzazione delle proprie aspirazioni legate all’assenza di un lavoro stabile, a causa del precariato, che impedisce la programmazione del futuro.

Caterina va in città è ancora il racconto di due visioni del mondo (sinistra/destra) ma dal punto di vista innocente e pieno di stupore di una bambina. Il regista interpreta il proprio tempo ed aiuta gli spettatori a capire la realtà. Interessante la riflessione sviluppata da Paolo Virzì, per bocca di un personaggio, secondo il quale, ormai, le ideologie sono state superate e così, all’interno di un sistema democratico, ormai svuotato di sostanza, prosperano delle conventicole di potere basate su rapporti di conoscenza, in grado di alterare la meritocrazia e la legalità. Tema attuale, approfondito da Zagrebelsky nei suoi articoli sui “giri di potere” e democrazia.

N (Io e Napoleone) è un film in costume, molto raffinato e di grande impegno politico, che sviluppa una riflessione sul Potere analizzato nella relazione tra il capo e le masse. Napoleone, esempio dei leader a cui gli Italiani, nel corso della storia, hanno delegato le loro aspirazioni di felicità e di vita democratica, è una proiezione dei desideri del popolo che è complice, dunque, e non solo vittima, della sua tirannia. Paolo Virzì, come in tutte le sue opere, ha una vocazione pedagogica, si sente che vuole bene agli spettatori e cerca di renderli più consapevoli. La contrapposizione tra cultura e banalizzazione televisiva, qui si manifesta tra la propaganda del tiranno e lo spirito critico di un maestro elementare che, pur essendo la coscienza del popolo, viene poi fatto fucilare perché è l’unico che si ribella mentre la maggioranza subisce il fascino del potere e sceglie una servitù volontaria.

Tutta la vita davanti è tratto da un libro-inchiesta sul lavoro nei call center. Ancora una volta Paolo Virzì rimane aderente al reale ma contamina il genere della commedia con uno stile fiabesco, immagini oniriche e il musical. Tra gli episodi più significavi c’è la citazione del Mito della caverna di Platone. In modo intelligente viene mostrato il conflitto tra essere e apparire: la riflessione, per analogia, interpreta la differenza di realtà che passa tra la vita e la rappresentazione di questa alla televisione. La protagonista, una studentessa, portatrice, nel film, dello spirito critico, racconta, con lo scopo di educare una piccola bambina, come il gioco delle ombre sulle pareti della caverna non sia altro che una finzione che inganna gli uomini incatenati, in attesa di un filosofo che sveli la verità e finalmente li renda liberi.

La prima cosa bella, insieme ad altri film, è la prova dell’importanza del coefficiente di “livornesità” per il regista ma anche della sua sensibilità nel nascondersi dietro punti di vista femminili. Il “gallismo” maschile è una forma di prevaricazione e di inciviltà che oltrepassa il rapporto tra i sessi le cui dinamiche, peraltro, insieme a quelle famigliari, sono ben comprese e rappresentate da Paolo Virzì. L’autobiografismo del rapporto madre/figlio, però, è trasfigurato ed è fonte di ispirazione per raccontare l’evoluzione della condizione femminile che deve emanciparsi dallo stereotipo di Adriana in Io la conoscevo bene.

Fanno parte della filmografia anche Baci e abbracci, My name is Tanino, Tutti i santi giorni e il documentario L’uomo che aveva picchiato la testa.

Il capitale umano

Paolo Virzì dimostra, con questo film, la sua autorialità superando e approfondendo il canone della Commedia all’italiana che, nel cinema italiano, spesso, si riduce a un commedismo facilone e ripetitivo delle stesse formule senza il coraggio di affrontare, anche con toni cupi, la realtà. Pur non abbandonando mai il grande intrattenimento e il patto con il pubblico, il regista mette a fuoco con estrema lucidità la deriva morale contemporanea.

Nel rigore del racconto, l’incontro tra i personaggi e la descrizione delle loro incongruenze psicologiche, fanno emergere, in un tono plumbeo di realismo ironico, la conseguenza velleitaria e patetica dei sogni di ascesa sociale del volgare ma anche sordido e goffo agente immobiliare (Fabrizio Bentivoglio- Dino Ossola) e la meschinità dietro l’apparenza elegante, di un broker competitivo, fino ad un egocentrico infantilismo (Fabrizio Gifuni- Giovanni Bernaschi).

Della Commedia all’italiana rimangono lo spirito, l’impegno e la partecipazione umana verso i deboli e la grande lezione della narrazione cioè la scrittura di una trama avvincente in cui il messaggio emana dal senso complessivo delle vicende dei personaggi senza mai scadere nel didascalico.

Paolo Virzì ha individuato, nell’omonimo libro dello scrittore americano Stephen Amidon, una delle più acute rappresentazioni del disagio esistenziale provocato dal Capitalismo e dalle storture dell’economia globale finanziaria. Il romanzo, ambientato in America, è la fonte assai fedele della trasposizione cinematografica; la sceneggiatura intreccia tre punti di vista secondo lo stile di Guillermo Arriaga ed elegge, come ambiente adatto a mostrare la rarefazione dei sentimenti, soffocati dal mito del denaro, una piccola cittadina della ricca e produttiva Lombardia.

Ciò che omologa culture e geografie diverse è il calcolo in denaro del valore di una vita umana e dunque il riconoscimento delle diseguaglianze in termini di profitto.

L’élite messa in scena nel film ha l’eleganza formale degli aristocratici, gioca a tennis nel campo privato della lussuosa villa della famiglia Bernaschi che condivide i privilegi del potere con avvocati e colleghi investitori di un fondo azionario che produce ricchezza scommettendo sul fallimento dello Stato. Chi non appartiene a quel mondo esclusivo, ai limiti dell’illegalità, è indotto a provare invidia ed ammirazione perché il successo sembra dare senso alla vita mentre il lavoro onesto quotidiano risulta scorrere come un peso da sopportare in una nuova forma di servitù anonima.

Dino Ossola entra in contatto con il broker perché la figlia (Matilde Gioli- Serena), iscritta ad una esclusiva scuola privata, è fidanzata con il loro figlio (Guglielmo Pinelli- Massimiliano), oppresso dalle ambizioni e dalle aspettative di superiorità del padre. L’immobiliarista, che aspira ad una ricchezza facile, come gran parte degli Italiani, tipica rappresentazione dell’uomo comune, cialtrone e insidioso eppure sorridente, a volte anche premuroso nei confronti della compagna psicologa, incinta (Valeria Golino- Roberta), inizia a giocare a tennis con Giovanni Bernaschi e subito, confondendo un’occasione di interesse con amicizia, chiede di partecipare al fondo di investimento con una cifra al di sopra delle sue possibilità.

Intanto, la moglie del broker (Valeria Bruni Tedeschi- Carla), annoiata e assai poco felice per le sue giornate vuote e inconcludenti, distaccata dalla realtà, decide di occupare il suo tempo, in uno slancio di generosità, nel tentativo di recuperare il teatro abbandonato della sua città. Durante la preparazione del programma, conosce un professore universitario (Luigi Lo Cascio) con cui inizia un breve flirt colto e sensuale interrotto dal precipitare improvviso degli eventi famigliari. Il fondo di investimento accusa forti perdite e dunque il progetto del teatro viene abbandonato, nel completo disinteresse della cultura e della ricaduta positiva sulla collettività, a favore di una speculazione edilizia necessaria a trarre liquidità per coprire le perdite finanziarie. Il figlio dei Bernaschi, dopo la premiazione dello studente dell’anno, in cui era finalista ma non riesce a vincere, deludendo il desiderio del padre, torna a casa ubriaco da una festa dove è andato per annegare la sua infelicità. La mattina viene indagato dalla polizia per omicidio colposo perché un cameriere, presente alla cerimonia, è stato investito lungo la strada, senza essere soccorso.

L’intreccio geometrico della sceneggiatura, che ripercorre la storia tre volte, permettendo allo spettatore di approfondire la psicologia complessa dei personaggi e le loro fragilità sotto la maschera dei loro ruoli sociali, inevitabilmente, inizia a svelare la contrapposizione generazionale tra padri e figli e di genere tra universo maschile e femminile. Nell’atmosfera gelida, il cui freddo meteorologico è in sintonia con l’insensibilità di chi ha sostituito nel cuore la materialità delle cose alle relazioni e agli affetti, irrompe la spontaneità della figlia di Dino Ossola che conosce per caso e se ne innamora, un ragazzo disagiato, obbligato a frequentare i servizi sociali perché, per riconoscenza, si è assunto la colpa dello spaccio di sostanze stupefacenti, al posto dello zio che lo accudisce da quando è stato lasciato dai suoi genitori. La storia di marginalità di Luca (Giovanni Anzaldo) è, ne Il capitale umano, una metafora di quello che accade alla maggioranza della popolazione esclusa dai vertici dell’economia; testimonia la necessità ingiusta, nel sistema del Capitalismo, del sacrificio di molti, di cui si dimentica la dignità come esseri umani, costretti a subire la logica di un mondo diviso tra vincenti e perdenti. L’ambiente popolare di Luca, disordinato e degradato, stride al confronto con il lusso e lo sfarzo delle proprietà dei Bernaschi. Ma Paolo Virzì, nel film, fa solidarizzare e immedesimare con i ragazzi gli spettatori, è rivoluzionario rendendoli veri, unici portatori di valori sinceri come i loro sguardi: spesso nell’indigenza c’è il bene mentre nella ricchezza splende la miseria morale. Serena e Luca hanno accompagnato a casa Massimiliano; Luca è il vero e sfortunato colpevole della morte del ciclista. Il destino colpisce ancora gli ultimi, tuttavia Serena nasconde alla polizia la verità in quanto gli indizi sembrano accusare, senza dubbio, il figlio dei Bernaschi. L’immobiliarista, consapevole di essere sul lastrico per il calo imprevedibile delle azioni sulle quali aveva scommesso tutto, ormai disperato, tenta di riottenere indietro il denaro dal cinico broker rispetto al quale mostra tutta la sua inadeguatezza interrompendolo più volte nelle riunioni e comportandosi in modo grottesco. La vena nera della Commedia all’italiana affiora dolorosamente tra mezzi sorrisi contaminata dal genere del thriller. Quando Dino Ossola scopre una mail risolutiva, sul computer della figlia, disperato e senza alcun ritegno, ricatta la moglie di Giovanni Bernaschi, ottenendo molto denaro in cambio dell’informazione e della vita di Luca di cui nessuno, perché un emarginato, si interessa. Il finale, però, non rinnega la speranza: Serena, nonostante il povero ragazzo sia finito in carcere, lo va a trovare riconoscendo, pur nell’errore, il suo essere comunque un buono, dimensione rara in questo contesto globale dominato dall’interesse.

La rovina del Paese coincide con il successo privato dei Bernaschi e della loro élite. La rovina, nel film di Virzì, non è solo economica ma morale, civile e culturale. L’anima del film è livida come la solitudine e la crudeltà dietro le convenzioni eleganti dell’alta borghesia.

Colloquio e intervista: Stephen Amidon- Il capitale umano

(Torino Film Festival 2013)

Paolo Virzì

Stephen Amidon, secondo me, è uno dei maggiori narratori dell’America contemporanea: è l’erede dei Tom Wolfe, Don DeLillo, Truman Capote, è il fratello più giovane dei Jonathan Franzen, David Foster Wallace, di quella generazione di quarantenni che sta raccontando l’America e lo sta facendo con la potenza della scrittura di genere. Adopera il thriller, il noir per spalancare delle finestre sui caratteri delle persone, su che cos’è l’America oggi. Non è un caso che Amidon abbia vissuto a lungo fuori dagli Stati Uniti, abbia studiato anche in Italia, a Venezia, abbia vissuto a lungo anche in Inghilterra, a Londra, perchè il suo sguardo è di chi conosce profondamente un popolo, ma allo stesso tempo lo guarda come se non lo riconoscesse più e mi sembra anche inquietato, spaventato. Lui è uno di quelli che a me piace definire come page-turner cioè come quelli che fanno voltare pagina. Ho scoperto il suo romanzo grazie a Niccolò Ammaniti che me l’ha segnalato: stavo rileggendo Un uomo vero di Tom Wolfe e lui ha detto che se mi piaceva questo genere di narrativa c’era un giovane erede, forse anche più bravo, di nome Amidon. Io ho comprato questo libro, Il capitale umano, e non sono riuscito a staccare gli occhi dalle pagine finchè non ho finito, non ho saputo come era andata a finire, finchè non ho scoperto cosa era successo quella notte in una strada nel sobborgo del Connecticut dove la vicenda è ambientata.  La strada immaginaria era descritta così bene come se fosse vera: questa intuizione di verità mi ha fatto toccare il sapore di questo ambiente, la disperazione che c’è dietro la società americana nella sua lotta per lo status sociale. Mi ha toccato il cuore perchè mi ha ricordato tantissimo da vicino il nostro paese. E’ curioso come, da un romanzo così americano, noi possiamo avere immaginato di girare un film che, adesso che è finito, sento di poter dire che è italiano. Non voglio certo paragonarmi con il capostipe del neorealismo italiano, Luchino Visconti, che aveva girato Ossessione ispirandosi a Il postino suona sempre due volte di James Cain: aveva tirato fuori da un romanzo così americano un film profondamente italiano.

Come ho finito di leggere il romanzo, subito l’ho voluto rileggere in lingua originale per conoscere la lingua di questo bravissimo scrittore, così ho apprezzato la nuance, le sfumature di una capacità descrittiva dei caratteri psicologici dei personaggi che lo rende superiore a certi suoi maestri. Credo che Amidon sia più sottile, più europeo di Tom Wolfe perchè si sente che Tom Wolfe adombra i personaggi per giocare spesso alla costruzione di una trama, mentre Amidon, a volte, indugia nel raccontare il vuoto del loro animo. Si sente una lezione che arriva direttamente dal cinema e dalla letteratura esistenzialista europea, Antonioni, Resnais, mescolati con T. Capote. Sono corso a leggere anche Security e ho ordinato dall’America tutta la sua opera, specie le short stories.

E’ stato, da subito, un nostro sostenitore; ci ha aiutato ad avere i suoi diritti del romanzo, ci ha fatto agire liberamente perchè noi, inevitabilmente, abbiamo “sventrato” il testo, tagliato dei personaggi, traslato il contesto sociale. Quando gli abbiamo mandato la prima versione della stesura della sceneggiatura ci ha scritto lettere di affetto, ammirazione, incoraggiamento; il sostegno di una persona dalle qualità artistiche così speciali, mi ha dato grande coraggio. Per me è un grande orgoglio conoscerlo; credo che sia uno dei narratori che rimarrà nel tempo. Mi auguro che l’editoria italiana pubblichi la sua opera completa perchè i suoi romanzi meritano di essere letti, è uno dei pià grandi autori americani viventi.

Amidon

Ho visto tutti i film di Virzì, i primi sono stati La prima cosa bella e Caterina va in città, poi gli altri. Mi ha colpito il forte potere di attrazione che aveva la sua narrativa, la complessità del modo di affrontare le tematiche sociali e di come fosse in grado di individuare, di puntare sul personale, sulle debolezze, i difetti. Questa è la grande qualità di un grande artista: Virzì sa creare delle storie, cercare le unicità, puntare sulla debolezza, sull’unicità dei personaggi. Sono rimasto entusiasta.

Ho vissuto in Europa, ho una sensibilità europea, ho vissuto la cultura cinematigrafica degli anni ’60,’70, di Bonnie and Clyde a Star Wars  e Paolo Virzì, pur essendo un regista italianissimo, mi ricordava tutti i registi che conoscevo.

Cosa ne pensa dell’adattamento cinematografico del suo romanzo?

Amidon

Penso che il film sia molto fedele al libro perchè Paolo Virzì è riuscito veramente a farne una traduzione culturale eccellente, traducendo le emozioni e l’anima del testo.

Sono rimasto incantato, mi ha strabiliato e l’ho amato immediatamente, è qualcosa di straordinario: la storia l’avevo scritta io, tuttavia sembrava nuovo quello che avevo sotto gli occhi, l’ho trovato  molto vivo dal punto di vista umano, ho trovato una sceneggiatura ben strutturata. Il mio libro non è facile da adattare cinematograficamente perchè presenta molte prospettive diverse, molti punti di vista come nello stile di Robert Altman. Mi è piaciuta moltissimo l’interpretazione degli attori, quella di Valeria Bruni Tedeschi è eccellente. E’ molto ben girato. E’ un film italiano che ha rappresentato l’era di Berlusconi, quindi la corruzione, il momento dell’indebitamento, della crisi finanziaria che si può toccare con mano in questo paese. Mi ha fatto percepire i collegamenti con l’inizio dell’era Bush.

Come Virzì, descrive, nei suoi romanzi, le fragilità dei personaggi la cui vita viene trascinata nell’ordinario. E’ come se loro avessero qualcosa da fare nella vita ma lo ignorassero in virtù dei soldi e del potere. Il resto delle cose importanti, le relazioni umane, il rapporto con i figli, è trascurato. Scrittore e regista hanno dunque la stessa attitudine?

Amidon

Viviamo in un tempo di distrazione, dominato dal materialismo, dal capitale, dall’avidità: è come se questo facesse scivolare in secondo piano la nostra umanità. I personaggi de Il capitale umano hanno fame di sicurezza, di ricchezza, sono affamati di una vita che non possono avere e finiscono alla ricerca di ciò che non possono avere, tralasciando quello che potrebbero avere, per esempio, l’amore. Le uniche persone che capiscono cos’è l’amore, nel libro, sono quei giovani che non sono preoccupati di ciò che è importante per i loro genitori, che invece rischiano tutto per la ricchezza, o di altri loro coetanei che inseguono il successo.

Come si fa, per raccontare con distacco e lucidità, a mettere la giusta distanza fra chi, come lei, ha senso civico e la decadenza della società occidentale?

Amidon

Ho vissuto a Londra per 12 anni e credo che mi abbia aiutato. Io sono americano ma non credo al sogno americano, non ha senso. Vivo una buona vita, non sono cupo, come autore scrivo delle storie e cerco che queste raccontino la mia cultura: vedo che questa cultura è dominata dalla corruzione, dallo spreco. Penso a un paese che ha votato Bush e la guerra in Iraq oppure a Berlusconi o laThatcher. Non possiamo dire che tutto vada bene.

Perché uno dei temi ricorrenti nei suoi romanzi è la morte?

Amidon

Scrivo della borghesia americana e questa, a differenza delle società mediterranee, nega la morte. Nella costruzione del sogno americano, si costruisce un mondo dove non viene riconosciuta, ecco perchè l’amore per la ricchezza, il denaro, la giovinezza, il materialismo. Sono affascinato da questo come scrittore, cioè che un paese neghi questo fenomeno e non sia interessato a capire che cosa succede dopo.

La crisi del capitalismo avvenuta in America si riflette in Italia con le stesse caratteristiche?

Amidon

Credo che ci sia uno sfasamento temporale di 10 anni, ma che stia accadendo la stessa cosa: c’è gente che si indebita, ci sono problemi che vengono creati intorno alla sicurezza. La crisi viene barattata per sicurezza. Credo che non solo in Italia ma anche in Europa ci siano molti paralleli da fare.

Chi sono in questa situazione le vittime e i responsabili della crisi?

Amidon

Da un lato la risposta facile sarebbe dare la colpa ai banchieri e alla crisi finanziaria ma nel libro e nel film abbiamo esplorato anche una dimensione individuale, cioè il desiderio, da parte della borghesia, di vivere oltre i propri mezzi, di avere di più di quello che in realtà sarebbe servito.