2019 numero 19

Sommario

ABSTRACT

ROEG, CINEASTA LIBERO E SELVAGGIO di Francesco Saverio Marzaduri
Ritratto del cineasta inglese Nicolas Roeg, scomparso lo scorso novembre, autore capace d’imporre una visione cinematografica personalissima e senza eguali.

JOAQUIM PEDRO DE ANDRADE, UN CINEASTA GENEROSO E RIBELLE di Giovanni Ottone
Ritratto di un cineasta brasiliano autore di mediometraggi e film: una filmografia eccezionalmente ricca per il suo valore artistico, storico, politico e sociale.

LA DANZA DEI DESIDERI. UN RITRATTO DI SEBASTIAN LELIO di Roberto Lasagna
Dopo “Una donna fantastica” un’analisi del cinema di Sebastian Lelio, regista particolarmente attento al mondo femminile.

“IO NON SONO IMPARZIALE”. IL DIARIO CILENO DI NANNI MORETTI di Roberto Lasagna
La testimonianza e il racconto dei testimoni, con un film di ottanta minuti in cui Nanni Moretti, nell’adottare le modalità del documentario classico, racconta un’Italia in cui non solo la sinistra, ma anche altre forze politiche, si mostravano disposte ad aiutare i cileni in fuga.

TANTO CARO AL MIO CUORE: TIM BURTON ALLA RICERCA DELL’INFANZIA PERDUTA di Valentino Saccà
Tim Burton resterà sempre un bambino ostrica, come cita il titolo di una sua famosa raccolta di fiabe(“Morte malinconica del bambino ostrica”), un solitario alla ricerca di un’età perduta rinvenibile solo nel mondo della fantasia. Un regno in cui i morti sono ancora capaci di sognare ed emozionarsi, mentre ai vivi ha già smesso di battere il cuore.

IDRISSA OUÉDRAOGO: APPUNTI SU UN CINEMA (IN)VISIBILE di Francesco Saverio Marzaduri
Una breve analisi sul cinema dell’africano Idrissa Ouédraogo, prematuramente scomparso lo scorso anno.

DISTESE DI SABBIA, MAL D’AFRICA: LE SEDUZIONI DEL DESERTO NEL CINEMA COLONIALE DELL’ITALIA FASCISTA di Mario Galeotti
La politica coloniale è stata uno dei perni della propaganda fascista in materia di relazioni internazionali. Nella sua propaganda colonialista, il regime fu coadiuvato da un’intensa produzione di cinegiornali dell’Istituto Luce che fornivano un importante apporto nell’indottrinamento delle masse. Per quanto riguarda il cinema, tra gli anni Trenta e i primi anni Quaranta sono stati realizzati anche film di ambientazione coloniale che però, pur esaltando tematiche care al regime, non si possono considerare semplici film di propaganda: veicolano un messaggio allineato ai punti essenziali della politica coloniale fascista, ma alcuni di essi sono innanzitutto ottimi prodotti commerciali, diretti da grandi registi, arricchiti da un cast di attori eccellenti e, spesse volte, debitori della preziosa lezione del cinema hollywoodiano.

LA SCUOLA ITALIANA DEL CINEMA IL CENTRO SPERIMENTALE DI CINEMATOGRAFIA DALLA STORIA ALLA CRONACA (1930-2017) di Alfredo Baldi
“Il Centro Sperimentale di Cinematografia ha una storia lunga e complessa che si intreccia in modo inestricabile alla storia del cinema italiano e alla storia d’Italia. Nato per volontà del fascismo negli anni Trenta, è stato svaligiato dai nazisti durante la guerra, ha vissuto gli anni del dopoguerra e del boom, è stato protagonista della stagione fervente e caotica del ’68, ha condiviso tutte le crisi e tutte le rinascite del nostro cinema e della nostra società.”

CLINT EASTWOOD: I CONFLITTI DEGLI EROI COMUNI di Roberto Baldassarre
Nella variegata e articolata carriera registica di Clint Eastwood, i personaggi delle sue pellicole, molte volte interpretati da lui medesimo, si trovano sempre in un intricato conflitto (ambientale, relazionale, interiore) che li costringe a prendere delle sofferte decisioni. Nei cinque war-movies da lui diretti, differenti conflitti attanagliano i protagonisti, semplici americani comuni. A queste 5 pellicole di guerra si aggiungono tre postille “post-guerra”, in cui i protagonisti sono tormentati anch’essi dai conflitti.

INCONTRO CON KRZYSZTOF ZANUSSI di Roberto Baldassarre
Il regista polacco Krzysztof Zanussi parla del suo cinema e del suo forte legame con l’Italia.

NUOVO IMAIE INCONTRA I REGISTI – “I DIRITTI DEGLI ARTISTI”: INTERVISTA AL PRESIDENTE ANDREA MICCICHÈ di Maurizio Villani
Il Presidente del Nuovo Imaie illustra l’attività dell’Istituto che, tra l’altro, supporta con finanziamenti la produzione di cortometraggi di giovani registi italiani.

FILMMAKER ALLA RIBALTA: I FRATELLI COSSI di Paolo Micalizzi
Profilo dei registi pisani Andrea e Matteo Cossi, due gemelli con esperienze italiane ed estere

PERCORSI FORMATIVI AL SEDICICORTO INTERNATIONAL FILM FESTIVAL 2019 di Gianluca Castellini
Illustrazione di Cineprof, un percorso formativo per sensibilizzare giovani spettatori attraverso laboratori, proiezioni, meeting, conferenze, rassegne, dibattiti, progetti di scrittura.

UNA MONOGRAFIA DI PAOLO MICALIZZI SU GIORGIO FERRONI /CALVIN JACKSON PADGET di Maurizio Villani
Un libro di Paolo Micalizzi volto a riportare alla luce per una giusta riscoperta il regista Giorgio Ferroni che si è cimentato nel cinema di genere con horror, peplum e western spaghetti che firmava Calvin Jackson Padget.

8° RIVER TO RIVER FLORENCE INDIAN FILM FESTIVAL di Maria Pia Cinelli
Con l’edizione svoltasi dal 6 all’11 dicembre 2018 il festival fiorentino ha superato la boa della maggiore età, confermandosi un punto fermo per la diffusione della cinematografia e della cultura indiana in Italia.

CORTINAMETRAGGIO 2019: UN’ALTRA EDIZIONE DI QUALITÀ CON LA RIVELAZIONE DI NUOVI TALENTI ED OSPITI DI RILIEVO DEL CINEMA ITALIANO TRA CUI BARBARA BOUCHET di Paolo Micalizzi
Resoconto su un Festival che riscuote sempre più l’interesse di autori, operatori culturali e pubblico.

STORIE DI STRETTA ATTUALITA’ ED OMAGGIO A GILLO PONTECORVO A “LE VOCI DELL’INCHIESTA” 2019 di Paolo Micalizzi
Un evento culturale sul cinema del reale di tutto il mondo con omaggi a grandi autori del passato: quest’anno il regista Gillo Pontecorvo.

FERRARA FILM FESTIVAL di Maurizio Villani
Cronaca della quarta edizione di un Festival, nato in America e che si svolge nella città estense.

CINEMA ASIATICO AL FAR EAST FESTIVAL DI UDINE, GIUNTO ALLA XXI EDIZIONE di Paolo Micalizzi
Bilancio positivo di una manifestazione cinematografica molto seguita, relativa al cinema asiatico.

CAFARNAO: CAOS E MIRACOLI di Marco Incerti Zambelli
“Cafarnao”di Nadine Labaki, premiato a Cannes e candidato agli Oscar, è una vigorosa denuncia della condizioni insostenibili nelle quali versa l’infanzia nelle zone degradate di Beirut , ha raccolto numerose critiche negative, eppure ci sembra, pur con suoi limiti, un film “necessario”

BAGLIORI DI UN CREPUSCOLO CREED II E IL CORRIERE – THE MULE di Francesco Saverio Marzaduri
Il secondo episodio di “Creed”, riadattamento della serie “Rocky”, è un mix di luoghi canonici, ripetizioni, stereotipi arcinoti agli “aficionados” della saga. Se ci si abbandona al gioco, s’intuisce l’azzardo nella restituzione d’un “déjà vu” in un’era dove le battute a effetto non bastano a sopperire le tecniche del digitale postmoderno. La trentottesima fatica di Clint Eastwood, invece, non è un capolavoro né vuol esserlo: la sua riuscita risiede nella semplicità. Come se l’autore, prossimo al crepuscolo, riflettesse su sé stesso e sulla propria produzione con la lucidità dei decani, rivelando una capacità attoriale affinata dal tempo.

“IN QUESTO MONDO” di Anna Kauber di Tullio Masoni
Da quasi tutte le regioni italiane, da nord a sud e isole, l’esperienza di donne che dedicano la loro vita alla pastorizia. Un racconto della quotidianità e sul rapporto con gli animali, nella mutazione del paesaggio.

DUE FILM: “LA CADUTA DELL’IMPERO AMERICANO” di Denys Arcand e “UN’ALTRA VITA – MUG” di Malgorzata Szumowska di Paolo Vecchi
Recensione sugli ultimi film di Denys Arcand e Malgorzata Szumowska. Il primo è un noir che conclude una trilogia, mentre il secondo racconta la provincia polacca ai confini con la Germania, profondamente permeata di cattolicesimo.

IL LATO OSCURO DELLA FORZA:“CENSORED VOICES” DI MOR LOUSHY, CON AMOS OZ di Marcello Cella
Amos Oz e la regista Mor Loushy raccontano il lato oscuro della Guerra dei Sei Giorni del 1967 attraverso le testimonianze dei soldati israeliani di ritorno dal fronte e raro materiale di repertorio.

“DAS BOOT” di Luisa Ceretto
Con Das Boot Andreas Prochaska (regista televisivo che ha esordito sul grande schermo nel 2006 e parallelamente ha collaborato con Haneke come montatore per Funny Games, Code Inconnu) firma un sequel tratto da un celebre film di guerra. Nel cast Rick Okon, Vicky Krieps e Lizzy Caplan.

AUTORI NEW ENTRY
Tre nuovi autori di Carte di Cinema: Roberto Baldassarre, Mario Galeotti, Valentino Saccà.

CINEMA E CINEASTI INDIPENDENTI

ROEG, CINEASTA LIBERO E SELVAGGIO
di Francesco Saverio Marzaduri

Il mondo del cinema, nel 2018, è stato segnato da numerosi lutti, un paio dei quali al suo termine, particolarmente dolorosi e a poche ore di distanza. Di Bernardo Bertolucci s’è parlato e scritto più di altri: gli si sono dedicati tributi, “special”e rassegne su riviste, siti web e reti televisive. Per l’inglese Nicolas Roeg, nome di altrettanto rilievo, e al pari del maestro italiano ineludibile marchio di un decennio, non è stato così. Negli anni Settanta la produzione cinematografica era intrisa di una voglia di libertà creativa in linea col mutamento di tempi e mode, e ripagata da un pubblico ben disposto alla trasgressione; talvolta anzi, conseguenza della controcultura imperante, proprio la trasgressione fa sì che cineasti di diversa estrazione e impronta intreccino i rispettivi percorsi, sino a confluire sugli stessi binari. Alla stregua di Bertolucci – nella cui arte, un’origine poetica e una formazione letteraria classica influenzano lo sguardo sulla realtà – l’occhio di Roeg risponde con una leggiadria e morbidezza che trasformano il suo lavoro in uno strano “ufo”, avulso da qualsiasi corrente o scuola di pensiero.

Percorso strano, il suo: senza aver frequentato accademie o corsi di cinema, ancora giovanissimo assimila le prime tecniche di montaggio presso il Marylebone Studio in qualità di duplicatore; e ciò ancor prima d’essere impiegato come assistente operatore presso studi di proprietà Metro-Goldwyn-Mayer, compiere i primi importanti passi nella fotografia e ottenere collaborazioni al fianco di David Lean, per il quale lavora come operatore, e in seguito Roger Corman, François Truffaut, Richard Lester, John Schlesinger. Tutti nomi dissimili per forma e stile, nei quali però vi è la comune ricerca d’un cromatismo intercalato tra accese vampate (che tripudiano, scrive Giona A. Nazzaro, “in una danza di follia espressionista”) e glaciali sfumature, ora fredde ora scabre, in linea con l’umore del contesto. Uno sfarzoso eccesso di colore, ai limiti del disturbante, è il “fil rouge” d’una filmografia inclassificabile, apolide, estranea a qualunque futura contestualizzazione e paragonabile, forse, a quella degli altri due indomabili anarchici del cinema inglese: Ken Russell e Derek Jarman, coi quali non a caso, insieme ad altri, Roeg avrebbe firmato il musicale “Aria”. Un’esagerazione lisergica che non cessa lo sperimentalismo quand’anche la sua opera inizia a farsi ermetica e disomogenea, irricevibile perché fuori (dal) tempo e fuori registro. Ma nessuno può dire che anche negli ultimi prodotti – da “Mille pezzi di un delirio” a “Oscuri presagi”, passando per “Castaway, la ragazza Venerdì” – lo sguardo dell’autore non sia privo di un curioso, suadente “quid” fatto di indecifrabili rebus e crisi mistiche, che si pone a prescindere, indipendentemente dall’esito.

Se tutto, in Roeg, ha il sapore (e il colore) dell’eccesso, l’aggettivo che forse meglio lo definisce è “sinuoso”, giacché inevitabilmente lo spettatore è condotto in un persuasivo itinerario immaginifico, che lo dissuade e stordisce senza offrirgli la chiave per tornare indietro; e una volta trovata la via d’uscita, troppo tardi si comprende che nulla è come prima. Per tale motivo, con molta probabilità, la sua opera suona imprendibile: Roeg è un teorico visionario del “milieu” il cui cinema s’insinua pian piano a mo’ d’ipnotica ombra, limitandosi, (extra)diegetico come chiede la formula, a star sempre all’esterno della “vogue” per non esserne accalappiato. Non si spiegherebbe altrimenti l’utilizzo di uno dei “symbol” del decennio Sessanta, Mick Jagger, per la sua pellicola d’esordio, diretta a quattro mani con Donald Cammell: anomala miscela controcorrente tra industria della musica popolare e industria del crimine, il censuratissimo “Sadismo” è un’inquietante parabola su potere e persuasione (la “performance” del titolo originale) condotta ai vertici della follia sullo sfondo della trasgressione del citato decennio, nella quale sopravvivono le componenti della sottocultura precedente, immersa in un’atmosfera psichedelica e irta di caleidoscopiche invenzioni audiovisive. Se gran parte della lavorazione, indubbiamente, si deve a Cammell, alla sua frequentazione del sottobosco londinese e alla sua amicizia coi musicisti pop dell’epoca, innegabile è l’accumulo di immagini, ingrediente studiato per disturbare il pubblico e farsene complice, calandolo in un mare di sollecitazioni che si fa baccanale.

“L’uomo-che-cadde-sulla-Terra”-1976-

La stessa cosa si ripete sei anni dopo con “L’uomo che cadde sulla Terra”, dove prendendo spunto dal romanzo omonimo di Walter Tevis, con affine effetto di straniamento e allucinazioni visive, il corpo altrettanto androgino di un’altra rockstar, David Bowie, apolide alieno sceso sul pianeta destinato ad estinguersi dopo atroci guerre intestine, fa i conti con una prigione dorata. Nel tentativo di preparare sul nostro l’approdo dei pochi concittadini illuminati rimasti, i soli che possano salvare gli umani dall’autodistruzione, l’enigmatica creatura lentamente si conforma: incapace di restituire sentimenti di amore e odio, e ormai irreversibilmente umanizzato a seguito di terribili esperimenti atti a investigarne la natura extraterrestre, il protagonista vede sfumare la sua missione; tradito da chi credeva di aiutarlo, conduce la propria straordinaria intelligenza verso il baratro dell’alcolismo. La solitudine, i timori, le sconfitte dell’odierna civiltà – temi perlopiù riconducibili al disagio esistenziale realmente vissuto da Tevis – si dipanano attraverso un linguaggio fotografico perlopiù sobrio, che accompagna con colori e contrasti pregnanti i significati di dolore e speranza dell’azione e dei dialoghi: un’estetica fotografica ricercata che, complice la precedente professione “tecnica” di Roeg, s’amalgama con lo stile narrativo della sceneggiatura, rimanendo essenziale in una composizione paradossalmente invisibile. A prevalere sono le tonalità scure della tristezza, della paura, del mistero, nella misura in cui la passione erotica soggiace a colori stinti, quasi a ribadire l’ingombrante presagio di morte.

“L’inizio del cammino”, 1971

L’esatto contraltare di ciò che un lustro prima il cineasta racconta ne “L’inizio del cammino”, film che inaugura un’autonoma cinematografia australiana, mantenendo inalterato il connubio esistenziale innocenza-colpa, nel rapporto altrettanto dicotomico dell’uomo con una natura e una cultura prossime alla sparizione. La pellicola gioca la propria carta estetica attraverso la capacità dell’autore di riprodurre visivamente i cromatismi del deserto e dell’ambiente naturale, complice un memorabile uso dello “zoom” che svela la solitudine dei protagonisti immersi nel paesaggio: panorami d’incomparabile bellezza, abbracciati dall’obiettivo “macro”, seguiti da carrelli in avanti sino a primi piani su interpreti e animali, servendosi in qualche caso del “ralenti” e del cambio di direzione. La funzione decorativa non è mai extra-diegetica, e in tal senso l’aspetto più ideologico dell’opera risiede nella specularità tra l’ostile visione urbana e la composizione fotografica degli sfolgoranti paesaggi dell’“outback”. Uno sguardo raggiante e vitale, contrappuntato da un montaggio analogico mozzafiato di pura scuola formalista, scandiscono il viaggio di due ragazzini senza nome, una “teenager” e un bambino, attraverso lande ostili, sino a incrociarne il percorso con quello d’un giovane aborigeno impegnato nel “walkabout” del titolo originale: un pellegrinaggio iniziatico che, spiega una didascalia introduttiva, impone di mantenersi in vita per un periodo contando unicamente sulle proprie forze. Il parallelo natura-civiltà non s’arena alle opposte culture e abitudini, proseguendo anzi nel loro diverso concetto (il segmento del canguro squartato dall’aborigeno, alternato a quello di un macellaio che fa a pezzi un bovino, a evidenziare la differente violenza di chi uccide per sopravvivere da quella compiuta senza necessità). La meraviglia visiva del film, futuro modello ipertestuale per cineasti del calibro di Malick e non solo, lascia tuttora a bocca aperta, tale è il parossistico disagio che suscita nelle scene documentaristiche degli animali, sempre al limite d’una scabra crudezza. Ma, come altrove si verifica nell’opera di Roeg, il racconto non si esime da un sottile e neppure troppo celato erotismo, strettamente funzionale all’ideologia e all’estetica dell’operazione, ma ugualmente visto come parte dello “stato di natura” paragonato alla civiltà urbana. L’attrazione del ragazzo nero verso la ragazzina sfocia gradualmente in una tensione sensuale che sprigiona nell’inquietante scena in cui il giovane si pitta corpo e volto con disegni rituali e piume animali, effettuando una strana danza di corteggiamento; la ragazza non capisce, ha paura e si nasconde in una capanna, mentre l’aborigeno danza tutta notte, finché, esausto e non corrisposto, si toglie la vita. Il “walkabout” termina con un fallimento, e all’ombra ineludibile della morte ognuno smarrisce la propria innocenza, sfumata in quella terra di perduto idillio dove – parafrasando i versi di Housman che siglano il film – non si può tornare. E la nostalgica chiosa, che s’abbandona all’apatia della città, è offerta come l’onirico ricordo dell’unica volta in cui la civiltà sfugge a un’esistenza artificiale: inequivocabile segno che il viaggio iniziatico verso l’età adulta muta l’individuo in modo irreversibile.

Niente di più facile che il punto di vista di Roeg abbia il tempo per sperimentarsi nel suo rovescio, adottando la medesima visione per i colonizzatori e gli sfruttatori: apologo sul possesso e la rapacità umana, “Eureka” è una parabola shakespeariana per più d’un verso debitore di Stroheim e soprattutto di Welles: lo dimostra l’onanistico gioco di specchi e doppi, ricorrenze enigmatiche e divagazioni stravaganti, dove l’attrazione feticista per l’eccesso e le atmosfere claustrofobiche fluttuano come pesci nell’acqua rischiando il manierismo, finendo per spiazzare un pubblico non sempre condiscendente. Ugualmente inevitabile è l’incontro del cineasta, nei propri ipnotici dedali, con Joseph Conrad: il risultato, un “Cuore di tenebra” televisivo, mostra coraggio nel tentativo di riadattare la pagina scritta a prescindere da Coppola, seguendo con fedeltà l’itinerario del marinaio Marlow, e il suo conseguente calvario spirituale lungo il fiume Congo sulle tracce di Kurtz, il misterioso cacciatore d’avorio. Anche in questo caso la minima discrepanza tra popoli civilizzati e selvaggi, che avanza questioni su imperialismo e razzismo, si coniuga a un mutamento caratteriale da cui è impensabile tornare all’originario stato delle cose. E se in “Aria”, corale produzione episodica, Roeg sfoggia il proprio eccentrico estro visionario in un tripudio d’immagini, colori e suoni a più firme, nel sottovalutato “Chi ha paura delle streghe?”, complice la fantasia di Roald Dahl, si mira a colpire l’universo borghese facendone un’alcova di mostruose beghine, che tramuta l’infanzia (e l’innocenza) in sorci, ma che alla fine, per una volta, conosce la giusta punizione.  

“A Venezia… un dicembre rosso shocking”, 1973

Sinuosità d’immagini, sfociante in un erotismo talora sin troppo esplicito, accompagna altri due noti lavori dell’autore londinese, “A Venezia… un dicembre rosso shocking” e “Il lenzuolo viola”. Nel primo, trasposizione del racconto di Daphne du Maurier “Don’t Look Now” (ch’è anche il titolo originale del film), una Venezia da incubo hitchcockiano e memore di Polański, funge da sfondo alla tragedia di una coppia in crisi dopo la morte della figlioletta. Soprattutto le premonizioni di lui – in seguito all’incontro con due sinistre sorelle, una delle quali non vedente – prevalgono sul destino di entrambi, quanto basta perché la matassa s’ingarbugli, il cerchio si restringa e uno dei personaggi, intrappolato in una morsa, tardivamente non comprenda di esser protagonista di uno scherzo del Fato. Presenza-chiave di Roeg, la morte: che perennemente si respira lungo la narrazione, si fa accertato presagio di un labirinto senza sbocchi, zeppo di flash, riverberi, simulacri che qui più che nei prodotti successivi trovano un’equilibrata alchimia, esente da ridondanze autoreferenziali. A tutt’oggi, l’aspetto più affascinante dell’opera risulta l’atmosfera decadente che aleggia sulla finzione e trasmette un clima di palpabile disagio (famosi i travagli durante le riprese nella chiesa di San Nicolò dei Mendicoli, che quasi costarono la vita all’attore Donald Sutherland). Segno che una realtà “bigger than life” supera la fantasia, come mostra la celebre scena di sesso tra i due protagonisti – e Julie Christie è una presenza “roegiana” dai tempi delle collaborazioni coi già citati Truffaut, Schlesinger e Lester.

Variazione di “A Venezia…” – e anch’esso un thriller psicologico – “Il lenzuolo viola” colloca l’azione in una Vienna non meno da incubo, ostile a coloro che non ne abitano il guscio. L’ambientazione barocca e le atmosfere suadenti del giallo e del “noir” si mescolano e addensano intorno al ritratto dei personaggi, strumento di un’indagine che scava nei più remoti meandri della mente umana e della passione. Lo scontro tra caratteri antitetici e irriducibili – una passionale libertina e un morboso psicanalista – stempera una storia d’amore torbida e morbosa, ossessiva e distruttiva, sino a sprigionare le proiezioni patologiche della personalità maschile verso le derive dell’abiezione e della depravazione morale (e il film, senza esimersi da problemi di censura, è definito “a sick film made sick people for sick people”). Ininterrotto flashback, inframezzato da incessanti ritorni al presente, “Il lenzuolo viola” concepisce la propria misteriosa aura ricorrendo a una fotografia tesa a creare atmosfere soffuse e sinistre, ispirandosi alle suggestioni di Klimt e Schiele, i cui dipinti sono mostrati all’inizio del film, mentre i due protagonisti li ammirano sulle pareti di una galleria. Ma il tocco di Roeg, oltre che nella presenza di una star della musica quale Art Garfunkel, risalta nella tecnica narrativa del “cut-up”, che dispone il materiale narrativo in maniera scollegata e disgiuntiva, grazie alla quale le immagini, fortemente enigmatiche ed evocative, spargono indizi e disseminano tracce cui attribuire logica e significato solo a fine partita. E se poi il tempo è restio a capire, e all’occorrenza ridimensionare, le mosse sulla scacchiera restano la stesse. “Rien ne va plus”.

“Il lenzuolo viola”, 1980

JOAQUIM PEDRO DE ANDRADE, UN CINEASTA GENEROSO E RIBELLE
di Giovanni Ottone

Il brasiliano Joaquim Pedro de Andrade (1932 – 1988), chiamato affettuosamente Quincas dai suoi amici, apparteneva ad una famiglia della borghesia intellettuale carioca, di Rio de Janeiro. Trascorse l’infanzia attorniato da famosi artisti, scrittori e poeti e si interessò precocemente alla letteratura. Formatosi in fisica, seguì poi corsi sul cinema muto e partecipò all’attività dei cineclub di Rio de Janeiro dove  strinse solidi legami con un gruppo di futuri esponenti del movimento di avanguardia, e di rinnovamento, del cinema brasiliano denominato Cinema Novo: Paulo César Saraceni, Leon Hirszman, Carlos Diegues, Marcos Faria ed altri. Dopo un’esperienza come aiuto regista di Geraldo e Renato Santos Pereira per il film “Rebelião em Vila Rica” (1959), realizzò i primi cortometraggi “O Poeta do Castelo” eO MestredeApipucos”, dedicati a due grandi figure intellettuali brasiliane, Manuel Bandeira e Gilberto Freyre. Nel 1963 diresse un documentario “Garrincha, Alegria do Povo”, dedicato al famosissimo giocatore di football Manoel Francisco dos Santos, noto come Garrincha (“passerotto”), che ebbe un grande successo. In seguito al conseguimento di una borsa di studio effettuò un intenso periodo di studi a Parigi presso l’IDHEC (Institut de Hautes Études Cinématographiques). Nel 1965 scrisse e realizzò il suo primo lungometraggio di finzione “O padre e a moça”, un dramma romantico rurale. Nel 1969 diresse “Macunaíma”un’epopea – farsa tropicale, adattamento di un romanzo di Mário de Andrade, che costituì il suo più grande successo di critica e di pubblico.

Dal film“Macunaíma”

Successivamente realizzò opere diverse, in larga parte adattamenti di testi letterari brasiliani: “Os Inconfidentes” (1972), un dramma storico con affinità con il teatro di Bertold Brecht; “Guerra conjugal” (1975), una commedia satirica borghese;  il cortometraggio “ (1977), una geniale e surreale fantasia erotica; “O homen do Pau-Brasil” (1981), una commedia delirante sulla vita, le passioni e l’opera dello scrittore rivoluzionario modernista Oswald de Andrade. Nel 1988, al momento della sua morte, lasciò due sceneggiature inedite: “O imponderável Bento contra o crioulo voador” e “Casa Grande, Senzala  & Cia”, basata sull’omonima opera di Gilberto Freyre.

Alla base del suo cinema vi è lo sforzo di rielaborare un nuovo discorso classico in modo tale da  non cadere nell’accademismo. Quindi  cercò sempre di non applicare le medesime soluzioni narrative e stilistiche ai film realizzati nel corso degli anni. Si spostò da un campo all’altro dello spazio culturale brasiliano esplorandone diversi ambiti storici, politici, erotici, geografici, ecc. ed individuando le zone di contraddizione tra libertà e repressione. La stabilità delle referenze letterarie, punto di partenza per un rielaborazione critica e non per semplici trasposizioni, è utilizzata per assicurarsi il suddetto obiettivo dialettico, rifiutando canoni e regole dei generi che praticava e reinventandoli oltre le convenzioni. Il suo sguardo lirico, sensibile ed intelligente, delirante ed affatto sociologico e la sua ironia anarchica hanno evidenziato ed approfondito molteplici aspetti dell’essere brasiliano. Come ha affermato il regista Eduardo Escorel, suo collaboratore ed amico: “Joaquim era dotato di un acuto senso critico, temperato da una spiccata ironia. Era esigente con se stesso e generoso con gli altri. Pignolo ed ostinato, anelava ad un ideale di organizzazione, ma era anche distratto, alieno agli orari e ribelle alla routine”.

Commentiamo quindi brevemente i film di Joaquim Pedro de Andrade. I primi due cortometraggi, “O mestre de Apicucos” e “O poeta do Castelo”, offrono i ritratti rispettivamente del grande sociologo pernambucano Gilberto Freyre e del poeta Manuel Bandeira.

Due cortometraggi: “O mestre de Apicucos” e “O poeta do Castelo”

De Andrade ne documenta la vita quotidiana e i piccoli gesti, dell’uno nella sua bella casa alle porte di Recife e dell’altro nel suo piccolo appartamento e nelle strade di Castelo, il quartiere del centro di Rio. Si tratta di film semplici, ma emozionanti per la dialettica di immagini e parole tratte dalle riflessioni umane e dai testi dei due intellettuali. Il regista non dimostra la minima soggezione psicologica e sviluppa inquadrature millimetricamente definite. “Couro de gato” (1960) è uno strabiliante piccolo apologo che rappresenta la realtà sociale carioca, ironico e crudele, ritmicamente perfetto nelle sue location e nelle sue accelerazioni. La storia, sintesi tra fiction e documentario, si svolge alla vigilia del Carnevale. Un bambino di una favela ruba un gatto angora che gli piace molto ma finisce per venderlo a un fabbricante di tamburini che ne utilizzerà la pelle. Il cortometraggio divenne un episodio del film collettivo “Cinco vezes favela”(1962), di Marcos Farias, Miguel Borges, Carlos Diegues, Joaquim Pedro de Andrade e Leon Hirszman, che è considerato il film manifesto del movimento del Cinema Novo.

De Andrade è intimo, originale, creativo, innovativo e rigoroso e ciò emerge dal suo ritratto antiaccademico di un calciatore mito del Brasile. Nel 1963 realizzò appunto il mediometraggio documentario “Garrincha, alegria do povo”, un esempio di cinéma – vérité da cui emerge l’uomo al di là del campione sportivo, mentre i tifosi esprimono vari stati d’animo, dalla sofferenza all’euforia. “O padre e a moça”(1965), tratto da un romanzo di Carlos Drummond de Andrade, è ambientato nel Minas Gerais. Nel film la fede dà origine sia al desiderio che al senso di colpa. Oltre al tema, il rigore narrativo e la nettezza delle immagini rimandano a Robert Bresson. Il film, in bianco e nero, è impreziosito dalla fotografia di Mario Carneiro e fa pensare alla solennità dei Passos de la Paixão durante le celebrazioni della Pasqua. Quegli stessi Passos che Joaquim aveva partecipato a restaurare, costretto da suo padre, e che ricompariranno nel suo bellissimo documentario “O Alejadinho” (1978), dedicato al grande scultore mineiro dell’epoca barocca. “Brasília: contradiçõesn de uma cidade nova” (1967) è invece un documentario che offre un’acuta panoramica su una città interamente pianificata, simbolo dello sviluppo nazionale. A pochi anni dalla sua costruzione emergono le differenze sociali e culturali tra gli abitanti che vi si sono trasferiti da  altri stati e regioni. “Cinema Novo” (1967) è un breve documentario che descrive scelte estetiche e metodi di lavoro dei registi del movimento attraverso i loro film, mostrando scene del rodaggio di “El justicero” e di “Terra em transe”, del montaggio di “Opinião publica”, del doppiaggio di “Todas as mulheres do mundo” e del lancio commerciale di “A grande cidade”.

“Macunaíma” (1969), come già scrisse lo stesso autore: “è la storia di un brasiliano divorato dal Brasile”. De Andrade si riferisce alla famosa teoria dell’antropofagia, topos identitario del pensiero filosofico e politico brasiliano del secolo scorso. Il film è ispirato dal famoso romanzo omonimo dello scrittore modernista Mário de Andrade, pubblicato nel 1928, il cui protagonista è definito “un eroe senza alcun carattere”, nel senso di non avere alcun tratto caratteriale definito e specifico. Si tratta di una parodia metaforica che all’epoca, in Brasile, seppe rompere la resistenza del grande pubblico di fronte al cinema d’autore. Il film ha allargato l’orizzonte estetico del Cinema Novo, fondendo elementi di un certo cinema popolare nazionale con quelli del movimento tropicalista. Il risultato è una mescolanza riuscitissima di farsa truculenta, con una ripresa della chanchada, e di lucido inquadramento sociale. Il protagonista del film, l’attore brasiliano Grande Otelo, è un “eroe fantomatico”: si aggira in libertà nel passato e nel presente, nella foresta e in città, dalla terra al cielo, in sostanza esprime tutte le contraddizioni che si presentano nel Paese. Ancora una volta l’aspetto realmente rivoluzionario è la tecnica di ripresa, con l’uso della cinepresa con grande libertà di movimento e minimo tremore dell’immagine.

“Os Inconfidentes” è un dramma storico che ricostruisce la famosa congiura dei borghesi intellettuali e dei proprietari terrieri del Minas Gerais contro i rappresentanti della monarchia portoghese, nel XVIII secolo, denominata “Inconfidência Mineira”.

Un’immagine drammatica del film “Os Inconfidentes”

De Andrade contesta le versioni ufficiali di quell’episodio e rende moderna la saga adattando i dialoghi e la poesia di Cecília Meireles e di altri autori. Evidenzia la posizione debole e vile degli intellettuali di fronte alla sfida della pratica rivoluzionaria, mostrandone le ritrattazioni  e le ciniche autocritiche dopo il loro arresto. I personaggi sono inquadrati sistematicamente di profilo.  Ne risulta una relazione diretta con il pubblico e quindi tra il mito storico e la realtà politica contemporanea. “Guerra conjugal” (1975) è un adattamento dei racconti di Dalton Trevisan. A partire dal quotidiano di alcune coppie borghesi della città di Curitiba, il film illustra l’insofferenza e l’astio tra i coniugi e il cinismo degli amanti. Rivela, con magistrale finezza, l’assurda relazione che le persone impongono a se stesse. “Vereda tropical” (1977), un cortometraggio che adatta l’omonimo racconto di Pedro Maia Soares, è una fantasia libertaria che rivela, come dice lo stesso regista “la vocazione genitale dei legumi” e la espone con gentilezza impudica. “O homem do Pau-Brasil” (1981), che all’epoca fu stroncato da critica e pubblico, è una commedia provocatoria, radicalmente umorista e rigorosamente delirante. Descrive le passioni e le avventure sessuali e intellettuali dello scrittore modernista Oswald de Andrade, facendolo interpretare simultaneamente da un attore,Flavio Galvão, e da un’attrice, Itala Nandi. Ancora una volta Joaquim rilancia il mito dell’antropofagia quando Oswald-maschio è divorato da Oswald-femmina e nasce la mulher do pau-brasil, leader del surreale matriarcato antropofagico, regime politico del Paese.

 Il restauro della filmografia di De Andrade, proposto dal Ministério da Cultura brasiliano, con associazione dell’União Latina, patrocinato dalla Petrobras e prodotto da Filmes do Serro delle figlie di de Andrade, con realizzazione tecnica da parte di Teleimage, Trama e Cinemateca Brasileira, è stato un’ operazione esemplare di salvaguardia di un patrimonio di inestimabile valore. Tra l’altro è il primo progetto concluso, a livello mondiale, di restauro in alta definizione della composita filmografia completa di un autore. L’opera di de Andrade è molto varia nei suoi formati ed approcci (fiction e documentari, in bianco e nero e a colori) ed è eccezionalmente ricca per il suo valore artistico, storico, politico e sociale. I film versavano in condizioni diverse di degrado e la scelta dell’ équipe dei restauratori è stata quella di conservare le caratteristiche tecniche degli originali, ma privilegiando, con opzione etica ed estetica, la versione finale dell’autore e la sua concezione cinematografica. Il risultato è eccellente per l’alta qualità visiva e sonora delle copie. Dopo la presentazione in anteprima alla 63. Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia del 2006, i film sono approdati ad altri Festival in tutto il mondo e sono stati diffusi attraverso una distribuzione commerciale in sala e  anche in DVD, grazie ad un accordo con la Videofilmes dei fratelli Salles.

SAGGI

LA DANZA DEI DESIDERI: UN RITRATTO DI SEBASTIÁN LELIO
di Roberto Lasagna

Con “Una donna fantastica” Sebastián Lelio vince l’oscar ma soprattutto realizza un film intenso su Marina, donna transgender legata sentimentalmente a Orlando. Ma Orlando muore e Marina dovrà vedersela con i parenti del defunto e le ostilità della società in cui vive. Pathos e grande coinvolgimento in un film sulla maschera e sulle differenze, in un flusso di suggestioni che Lelio risolve in modi cinematograficamente avvolgenti, dando alla protagonista i contorni fantasmatici di un ambiente che trasuda di pregiudizi e rancori impedendo di credere alla libertà dei sentimenti.

Sebastian Lelio con l’Oscar vinto per il film “Una donna fantastica”

Di libertà del sentire si occupa anche “Gloria”, che vince a Berlino l’orso d’argento per la migliore attrice, Paulina Garcìa. E molta attesa accoglie un successivo film di Lelio, con cui il cineasta conferma la sua attenzione per il femminile, tra pathos e rivelazione della libertà sessuale. “Disobedience” è un film che si libera di un certo schematismo nell’impostazione grazie alle generose interpreti – Rachel Weisz e Rachel McAdams, la prima anche co-produttrice – che rendono i colori della narrazione saturi di una sintonia mentale e fisica. La (ri)scoperta di sé avviene, come sovente in Lelio, a suon di musica: in “Disobedience”, Ronit ed Esti, cresciute nello stesso quartiere di una comunità ebraica ortodossa, si ritrovano – la prima fuggita da quel mondo e divenuta una stimata fotografa, la seconda, sposata con Dovid ha represso i suoi sentimenti – a ricordare un’attrazione vissuta in passato e che ora riaffiora, evocata dall’ascolto di “Lovesong” dei Cure. Dopo “Gloria” e “Una donna fantastica”, Lelio conferma il suo discorso sull’emancipazione femminile con una produzione internazionale che probabilmente non è il suo film migliore ma che, nella seducente carica erotica che esprime e nella dialettica concreta, mette in chiaro un tema ricorrente dell’autore: le relazioni amorose, al di là degli esiti e degli sviluppi, fanno conoscere a chi le vive qualcosa di particolare e sconosciuto. E’ la relazione con l’aspetto nascosto di sé, con l’ombra e l’aspetto oscuro dell’altro che tanto ci avvince e spaventa. Anche Dovid al termine del film compie un percorso tortuoso, che lo porterà a prendere decisioni non scontate, che influenzeranno a loro volta le esperienze degli altri. L’amore che si scatena tra le due donne è allora il punto di partenza di un cambiamento, e in questo il cinema di Lelio mostra fisionomie di fascino e di frustrazione, di desideri che configgono con situazioni e schemi sociali in cui il microcosmo manifesta avversità e spirito di repressione. Gloria e la sua quotidianità riappaiono in “Gloria Bell”, rivisitazione americana della pellicola realizzata dallo stesso Sebastián Lelio nel 2013.

Julianne Moore in “Gloria Bell.”

Cinquantottenne divorziata con un buon lavoro e figli adulti persino troppo indipendenti, Gloria, che la sera va a ballare con amiche e conoscenti, è affamata di vita ma consumata dalla solitudine. Una figura sbiadita agli occhi degli altri, in cerca di attenzioni che le mancano. La figlia si innamora di un surfista venuto dalla Norvegia, che viene presentato a Gloria in una sequenza in cui, come in altre situazioni, non le viene dato spazio, mentre il tempo scorre veloce e sembra metterla in ombra. Quando Gloria incontra Arnold, anch’egli transfuga da un matrimonio finito, sembra esplodere la passione e con essa la speranza in un futuro insieme. Arnold è però separato in casa, con due figlie spregevoli che lo ricattano, ha subito un intervento chirurgico che lo ha messo alla prova. Tra Gloria e Arnold non funziona come potrebbe. Arnold non riesce a liberarsi dai vincoli familiari e non è ancora pronto per comprendere la condizione di Gloria, il cui matrimonio è finito da tempo anche se restano gli affetti. Come in “Disobedience”, e dopo “Una donna fantastica” (premiato con l’Oscar), il regista cileno prosegue il suo discorso sull’emancipazione femminile, di cui coglie, nell’appassionato ritratto di Gloria, gli stimoli e le frustrazioni, ora calati in un’ambientazione differente rispetto all’originale del 2003. Los Angeles sostituisce Santiago, e ciò permette al cineasta di sperimentare a livello espressivo, con luci suggestive che tuttavia restituiscono un luogo al contempo neutro e universale, con colori attraenti che regalano note immersive sottolineate soprattutto nelle parti in cui si palesa la routine “danzante” di Gloria e nella romantica luna di miele minacciata dall’ingerenza della famiglia di Arnold. Lelio conserva i tratti principali del precedente film, regalando alla vicenda una dimensione più elegante e internazionale che non cela il gusto raffinato per i dettagli, in un remake fortemente voluto da Juliane Moore che compare anche tra i produttori esecutivi. E dove, nel film del 2013, i dettagli passavano allo spettatore attraverso lo sguardo di Paulina Garcìa – che recava una più immediata caducità fisica al personaggio e restituiva la malinconia di fondo del suo personaggio nel suo sorriso forzato e tenero – in “Gloria Bell” l’interpretazione di Julian Moore sottolinea l’attualità della condizione di una protagonista che, come già nel film premiato con l’Oscar (“Una donna fantastica”), il regista vuole in alcuni momenti far assurgere ad emblema.

Daniela Vega protagonista del film “Una donna fantastica”

La versione di Juliane Moore è di notevole impatto, a tal punto che Lelio, nell’attingere energia dalla sua interpretazione, ha buon gioco mentre la segue come aveva fatto con Paulina Garcìa, accompagnandola – come nell’appassionante adesione alla vita di Daniela Vega – mentre naviga e danza in un racconto di sentimenti e frustrazione, per permettere di lasciar capire allo spettatore quello che lei vuole veramente. Tra intemperanze e incomprensioni che sono anche l’esito di disillusioni e di troppo investimento negli altri, Gloria comprende, con la sua grinta e il suo silenzioso coraggio, come possa essere importante “ballare da sola” senza perdere speranza nell’amore. Le sue fragilità non la condannano come sarebbe potuto accadere in passato a tante donne a cui il precedente “Gloria” faceva evidentemente appello. Il sottotetto politico del precedente “Gloria” calava l’energica donna nel Cile modernista sorto sulle ceneri della dittatura di Pinochet e Gloria è anche il nome di Gena Rowlands nel film omonimo di John Cassavetes. Questa volta Gloria danza in un contesto in cui la subordinazione del femminile è un costume che si vuole scongiurato, tanto che a un certo punto la donna, dinanzi alle fughe e alle assenze di Arnold che non dimostra il coraggio che occorrerebbe per liberarsi dal passato, in un gesto di rabbia, surreale e liberatorio, gli spara e lo imbratta con il fucile giocattolo, umiliandolo davanti alla casa in cui l’uomo si sente costretto a fare il servizievole servo delle ingrate figlie. “Kill Bill” non è passato invano e Gloria si rimette in auto, corre via ascoltando la musica che cadenza la solitudine ma non anche l’arrendevolezza; porta anzi con sé il senso, spaesante e folgorante, di una rivendicazione. Lelio ha identificato in Arnold/John Turturro il perfetto contraltare, in una prova che, ancor di più rispetto al predecessore Rodolfo/Sergio Hernàndez, vive di un’apparente imperturbabilità che all’inizio è intrigante e poi palesa difficoltà e immobilismo esistenziale, rendendo la relazione tra lui e Gloria un insinuante crescendo di trasalimenti dell’animo poi arenato ripetutamente in punti fermi e ritrosie. Ma il sentimento non è solo un fantasma, qui c’è e si sente, ad esempio nella sequenza di piani ravvicinati in cui Arnold legge la dolce poesia di Claudio Bertoni a Gloria che, come le succede sempre più spesso, si emoziona e piange. La tentazione di freddezza formale che era uno dei rischi di “Disobedience”, e la suggestione fantasmatica che circondava la camminata di Daniela Vega in Una donna fantastica, sono tratti che si dissolvono in Gloria Bell ed è coinvolgente l’esplorazione interiore che Lelio offre del personaggio, il rapporto con se stessa che nel film diventa quell’auto-scoperta in grado di motivare un remake, di dare corpo alla sua urgente attualizzazione sottolineando come l’incontro con l’altro, mentre può dar luce a aspetti sterili, può essere invece l’occasione per comprendersi e accettarsi.

Rachel Weisz e Rachel McAdams in una scena del film “Disobedience”

Fuori dallo schematismo che obbliga a guardare certi personaggi cinematografici come eroi o antieroi, Lelio ci invita a riflettere sul ristretto punto di vista che abbiamo di noi stessi (a Gloria viene diagnosticato il rischio di un restringimento del campo visivo durante la visita oculistica e Lelio è il regista che, come nei finali ripetuti di “Una donna fantastica” o nel bisogno stesso di fare un remake, ritorna sui suoi passi qualche volta non riuscendo a non essere un po’ troppo didascalico, forse per paura di non essere compreso a fondo). Il regista ci invita a guardare come, nel rapporto con gli altri, ci troviamo talvolta dinanzi a punti fermi che non vogliamo vedere. Gloria è però soltanto il personaggio “ultimo”, complesso e sfaccettato, del mondo femminile di Lelio, che ne restituisce i caratteri universali, quelle contraddizioni che esprimono l’umanità profonda dei desideri. Desiderio di auto-affermazione e ricerca di affetto, indipendenza sociale e bisogno di amore che si esprimono come un’ambivalenza non tenuta a bada e come distanza non colmata nelle situazioni opposte di Gloria e Arnold, che avrebbero bisogno forse di più tempo per elaborare e comprendersi. Il tema dell’emancipazione femminile emerge e si palesa nel ritrovarsi a danzare la canzone di Umberto Tozzi nella versione di Laura Branigan che, esattamente come nel film del 2013, avrebbe potuto dare origine a un momento kitsch e invece Lelio risolve in un canto di appagante sospensione. Sulla pista da ballo, Gloria trova la forza per ripartire, per rimettersi in gioco. Gli uomini, come diceva Arnold, amano giocare alla guerra e lui l’aveva persino portata a sparare con sé. Gloria invece preferisce mettere in circolo la speranza che la danza sia ancora propiziatoria. E’ anche un modo per restare in equilibrio tra la vita e la morte, di cui “Gloria Bell”, e il cinema di Lelio, raffigurano una riflessione che si esprime nel rapporto tra gli individui e i contesti, tra la solitudine delle protagoniste che troppe volte si trovano a poter contare soltanto sulle loro forze. La casa di Gloria, con il gatto magrissimo che appare come una figura pallidamente provvidenziale e l’inquilino disperato al piano di sopra di cui nessuno si cura, è espressione di un mondo in cui nessun personaggio sembra realmente in grado di prendersi cura di sé mentre cerca invano di provvedere agli altri. Gloria menziona la tesi scientifica per cui ogni corpo umano, con il rinnovamento cellulare, non ha più di dieci anni di età. E in questa disarmante disillusione, Gloria – e persino il suo ex-marito – vivono pensando che un domani potrebbe non esserci, e che forse vale la pena di rimettersi in piedi e di spronare chi, come Arnold, da solo non ce la fa. E di affidarsi, come avviene durante tutto il film, a quella musica che accompagna la vita quotidiana e dalla quale Gloria sceglie di lasciarsi attraversare e raccontare. Una melodia che è come quel sentimento amoroso che a volta ritorna.

“IO NON SONO IMPARZIALE”. IL DIARIO CILENO DI NANNI MORETTI
di Roberto Lasagna

Non bisognava essere militanti di “Lotta Continua” per esprimere solidarietà ai fuggitivi del 1973: i funzionari dell’ambasciata italiana che senza precise direttive da Roma decisero di accogliere e proteggere individui nei cui confronti venivano commesse tremende violazioni dei diritti umani, erano giovani borghesi adattati alla carriera diplomatica, gli stessi che nel resoconto di Moretti testimoniano la visita allo stadio dove gli uomini di Pinochet avevano radunato gli oppositori arrestati, umiliati dai militari senza freni. Nanni Moretti non ha messo da parte l’autobiografismo, ma il filtro con cui il regista di “Caro diario” affronta la realtà storica è modulato oggi attraverso una meditazione via via sempre più prosciugata di ridondanze; un’asciuttezza che si affida, come nel caso di “Santiago, Italia”, alla registrazione del racconto dei testimoni, con un film di ottanta minuti in cui il cineasta, nell’adottare le modalità del documentario classico, racconta un’Italia in cui non solo la sinistra, ma anche altre forze politiche, si mostravano disposte ad aiutare i cileni in fuga, dal Partito Comunista sino alla Democrazia cristiana e al Partito Repubblicano.

Nanni Moretti in un’immagine di “Santiago, Italia”

Questo cinema della testimonianza arriva in un momento particolarmente critico della scena politica italiana e il film di Moretti lascia, allo spettatore del 2019, il sapore di qualcosa che non c’è più. Il riferimento non è soltanto a quel cinema politico popolare di cui – partendo da “Missing” di Costa-Gravas via via verso i lavori interpretati da Gian Maria Volonté che appare anche in prima persona nel resoconto morettiano -, “Santiago, Italia” lascia riverberare echi accorati: il film di Moretti parla, in maniera evidente, di un’Italia in cui la coscienza antifascista era diffusa in maniera forte nella società, non soltanto nella sinistra. Dinanzi al racconto dei due ex militari, uno dei quali detenuto nel carcere di Punta Peuco, incapaci di riconoscere la gravità delle loro responsabilità, Moretti, che sino a quel momento ha fatto sentire allo spettatore unicamente la sua voce nelle domande agli intervistati, compare in scena in carne ed ossa definendosi “non imparziale”. E’ il Moretti che conosciamo attraverso i film più celebri, a palesarsi nel riferimento all’impossibilità di essere imparziali, perché fare cinema è anche dimostrare rigore e vigore, sgomento e passione, desiderio morale di fare qualcosa e di parlare del Cile ma anche, progressivamente, dell’Italia di oggi, molto diversa da quella di allora. Uno dei due diplomatici intervistati da Moretti nel film, parlando dei profughi, dice: “Scappavano come scappano oggi dall’Africa”. La testimonianza continua con le parole di diversi ex-profughi i quali, pur molto riconoscenti verso il paese che li ha accolti dando loro asilo, riconoscono come il paese oggi sia cambiato, socialmente e politicamente. Quella generosità così evidente nel racconto del traduttore Rodrigo Vergara, arrivato a Roma e subito accolto come operaio agricolo nell’“Emilia rossa”. “Santiago, Italia” ha l’indubbio compito di ricordare all’Italia ciò che rischia di non essere più: un paese in grado, politicamente e culturalmente, di tenere a bada gli istinti peggiori. Nel restituire l’urgenza di un sentire di solidarietà che si sta spegnendo, Moretti non rinuncia ai toni intimisti del suo cinema, firmando un documentario politico dove il materiale di repertorio è collocato con essenzialità, divampando nelle immagini del colpo di stato in Cile nel 1973, con i quattro capitoli che ne raccontano il prima, il durante e il poi. Dal triennio di Unitad Popolar del governo Allende, al golpe dell’11 settembre, alle persecuzioni e alle torture dei militari, per definire il ruolo dell’ambasciata italiana di Santiago che accoglie centinaia di rifugiati, traghettandoli in Italia, un paese che garantiva nuova vita e che oggi appare molto diverso rispetto ad allora. Ne sono testimoni i registi Patricio Guzmàn e Miguel Littìn, assieme al diplomatico Piero De Masi,l’operaio David Munoz, divenuto responsabile sindacale, e Marcia Scantlebury, che ricorda la violenza delle torture con un’ironia che non ci attenderemmo. Vedere questi volti, ascoltare questi ricordi, è un’esperienza di bellezza, di un sentire che infonde senso alla (smarrita) lotta politica. Il cineasta trova, nell’interazione con i personaggi a cui chiede di spiegare le proprie emozioni (il pianto per il ricordo del religioso coraggioso e solidale), un campo analitico e una distanza al contempo rispettosa e affettuosa, mettendosi da parte come già avvenuto nelle sue opere di fiction a cominciare a “Il caimano”, per portarsi, come nella prima immagine di spalle di “Santiago, Italia”, davanti alla vastità della città cilena e realizzare un incontro tra la storia pubblica e quella privata che cerca echi di altri racconti (come il finale a suon di musica, nella ricerca dell’armonia sociale che diventa suono di concreta bellezza più che vagheggiata utopia). Film sull’accoglienza, “Santiago, Italia” diventa progressivamente un racconto sul valore umano dell’ascolto, sorta di “Cario diario” distillato di una semplicità formale in grado di concedersi i tempi dell’attesa, perché l’ascolto ne ha bisogno; dove la nostalgia per il socialismo democratico come alternativa culturale condivisa si avvinghia a un sentimento per la giovinezza trascorsa capace di trasformarsi, nello spazio di un’intervista, in ebbrezza per i fulgori della convinzione politica.

Dal film “Caro diario”

“Santiago, Italia” non celebra nostalgicamente gli “italiani brava gente”, ma si scaglia contro posizioni populiste e sovraniste, le stesse che finiscono per nutrirsi di un nazionalismo becero, per le quali concetti come “migrante” o “profugo” assumono connotazioni strumentalmente negative, oltre il loro significato intrinseco e ogni regola di civiltà e tolleranza. I due ex militari che Moretti intervista sono espressione di una mentalità che ritroviamo oggi nel nostro paese: il primo nega le torture, il secondo afferma che il golpe abbia ristabilito la democrazia. Non si può restare imparziali dinanzi al golpe cileno del ’73, così come non si può restare indifferenti dinanzi a quello che accade quotidianamente in Mediterraneo o nell’Europa orientale. La nostalgia che nel film c’è, non è da cogliere astrattamente nel passato, ma (idealmente) nei sentimenti di fiducia che la voglia di rinnovamento e freschezza veicolati dall’affermazione del socialismo democratico di Allende portarono: sogno di cambiamento – fu il primo governo socialista democraticamente eletto della storia – la cui fine tragica rappresentò un trauma per milioni di persone. Moretti dice di aver capito perché ha girato “Santiago, Italia” quando Salvini è diventato ministro dell’interno. Se il parallelo con il Cile di allora può apparire programmatico, non lo è la presa di coscienza che scaturisce come proficua nella dialettica tra passato e presente che Moretti cerca con il suo film. Opera non riconciliata nei confronti delle sinistre di oggi il cui smarrimento l’autore continua a ribadire, rammentando, anche con le immagini del bombardamento del palazzo presidenziale dell’11 settembre del 1973 – dopo cui Allende ebbe appena il tempo di trasmettere alla radio un disperato discorso di addio prima di morire, – un contesto di inaudite violenze spesso dimenticate nell’indifferenza.

TANTO CARO AL MIO CUORE TIM BURTON ALLA RICERCA DELL’INFANZIA PERDUTA
di Valentino Saccà

Il “Dumbo” di Tim Burton si presenta come promessa della felicità(parafrasando Stendhal), nel tentativo quasi impossibile di restituire quel sogno d’infanzia che ogni spettatore conserva nel proprio cuore ripensando al classico animato del 1941. Ripensando e riguardando il modello disneyano anche attraverso il meraviglioso omaggio contenuto in “1941 –Allarme a Hollywood”(1979) di Spielberg, è possibile commuoversi insieme a Robert Stack e con lui tornare per un attimo bambini. La tenerezza è il sentimento più forte che sprigiona “Dumbo”, senza però mancare di umorismo(le elefantesse snob), senso epico dell’avventura(il montaggio del circo sotto la pioggia) e di invenzioni surrealiste(la celeberrima sequenza degli elefanti rosa). Burton da sempre popola il suo cinema di figure reiette e incomprese, ricercando attraverso loro il filo di un’infanzia perduta. Filo che spesso si annoda su sé stesso perdendo una logica del reale e mescolandosi così, senza soluzione di continuità, all’universo fantastico in cui tutto è possibile, anche tornare bambini.
Oggi siamo in pieno revisionismo disneyano, dove(al di là delle urgenze mercantili e speculative della Major) la tendenza a rifare i classici animati in live action, suona quasi come un’autentica ricerca del tempo perduto. Operazione romantica e rischiosa, e “Dumbo” è stata sicuramente la sfida più ardua in questo senso.
L’antropomorfismo dei pachidermi traslato in un film con attori perde ovviamente il gusto cartoonesco che aveva in origine, diventando una promiscua sovrapposizione tra digitale e zoologico.

Burton torna ai suoi elementi primari, il circo popolato da freaks, e come già accadeva nel capolavoro “Big Fish”(2003) omaggia Browning e Ophüls, Chaplin e Fellini, riutilizzando il corpo grottesco di Danny De Vito come tragico capocomico del carrozzone Max Medici.
“Dumbo” è un kolossal fantasmagorico, che rinuncia al CGI (La computer-generated imagery (termine mutuato dall’inglese che tradotto letteralmente in italiano significa “immagini generate al computer”) più nota con la sigla CGI, è un’applicazione nel campo della computer grafica) stucchevole di “Alice in Wonderland”(2010), preferendovi tonalità pastello e ombre dark, due facce della stessa medaglia, ovvero l’infanzia e la sua negazione adulta.
Ci sono anche sequenze riprese dal classico animato, come la celeberrima ninna nanna di mamma Jumbo, il numero con i clowns e il sogno etilico con gli elefanti rosa, rifatto con le bolle di sapone.
In tutto questo però manca quel tacito accordo tra realtà e fantasia che permette di porre in connessione i due mondi.
Nel 1948 la Disney realizza “Tanto caro al mio cuore”, uno dei suoi primi lavori a tecnica mista.
Qui assistiamo alla storia di un bambino e del suo agnellino nero. In questo caso il coté sentimentale è poeticamente immerso tra realtà e fantasia, grazie all’alternanza di riprese live action di un vero agnello, a quelle realizzate con tecnica animata.
Nel “Dumbo” burtoniano l’elefantino digitale incarna una doppiezza irrisolta fra i due mondi, abiurando nel finale la sua matrice cartoonesca in favore di una retorica animalista decisamente stonata.
In chiusura vediamo l’elefantino insieme alla madre allontanarsi nella foresta, liberi di raggiungere la colonia di elefanti. Burton fa scadere l’afflato magico-sentimentale in una chiusa zoologico-documentaria, che cancella totalmente il sogno di cartoonia e dell’infanzia eterna che vi abita all’interno. Ecco perché “Dumbo” live action non è la felicità ma solamente la sua pallida promessa.
Il piccolo pachiderma volante rappresenta per Burton un tentativo di ritorno alla sua poetica freak, che già si affacciava nell’esordio dietro la macchina da presa, con le avventure del clown Pee-wee Herman.
“Pee- wee’s Big Adventure” , uscito nel 1985, consolida la popolarità(tutta statunitense) del comico Paul Rubens e segna l’esordio registico di un giovane Tim Burton, il quale vantava già delle esperienze come animatore di casa Disney.
“Red e Toby – Nemiciamici”(1981) e “Taron e la pentola magica”(1985) sono il banco di prova per costruire quel mondo di esclusi, che nel primo caso resta confinato all’interno del coté sentimentale, mentre nel secondo anticipa le iconografie dark che diverranno poi uno degli elementi caratterizzanti della poetica burtoniana, già a partire da “Beetlejuice”(1988).
“Pee- wee’s Big Adventure” è un’opera anomala, uno dei Burton meno visti e citati, eppure ingloba in sé diversi motivi del suo cinema futuro, partendo proprio dalla figura di adulto-bambino del clown protagonista.
La storia inizia quando Pee-wee Herman perde la sua bicicletta(feticcio dell’infanzia) e per ritrovarla parte per un’avventura surreale sospesa tra umorismo demenziale e incantamento fiabesco, con qualche concessione all’horror, per poi concludersi in un finale metacinematografico.
Burton nel 1985 aveva già le idee chiare, e nonostante una mise en scène naif e un  linguaggio ancora acerbo, inizia a rappresentare i suoi reietti costretti a vivere in un mondo di fantasia, con la sofferenza di non poter mai crescere spiritualmente in un mondo incapace di accettarli e integrarli.
Pee-wee insegue a costo della propria vita la sua bicicletta, che rappresenta l’appiglio concreto al mondo dell’infanzia, dimensione onirica che solleva i personaggi da obblighi e responsabilità di ordine sociale.
Herman è un personaggio quasi asessuato, non ha una donna, ma a differenza dell’archetipo comico, il quale ricerca il sesso(bisogno primario del comico insieme alla fame), possiede una fisiologia astratta e impermeabile a certi bisogni terreni.

Con questo primo lungometraggio, in cui Burton non nasconde la propria ammirazione per John Waters(che ritroviamo nelle caricature grottesche e nei colori kitsch), dietro l’umorismo inizia a farsi largo un discorso profondamente amaro sulla solitudine, in cui spesso il mondo adulto in relazione a quello dei bambini risulta crudele e spersonalizzante.
Burton oltre al mondo dorato dell’infanzia, da sempre subisce il fascino per il regno dei morti, rappresentandolo come una dimensione a misura di bambino, abitata da esseri innocenti e malinconici, ma anche da creature dementi e colorate, in contrapposizione al mondo dei vivi che spesso viene restituito attraverso una galleria di caricature grigie, egoiste e meschine.
“Beetlejuice” è un fanta-horror-comico che porta avanti in modo esemplare questa dicotomia tra morti e vivi, parteggiando ovviamente per i primi e mettendo alla berlina i secondi.
Una coppia di giovani sposi (interpretata da Geena Davis e Alec Baldwin) morendo scopre che l’aldilà è molto più divertente e umano della vita terrena, incontrandosi con il bio-esorcista Beetlejuice, colui che si sbarazza dei vivi per lasciar tranquilli i morti.
Il talento poliedrico di Michael Keaton anima questo assurdo personaggio, uno spiritello malato di sesso, che risulta la perfetta antitesi di Pee-wee Herman.
In questo caso Burton ribalta il cliché, facendo del suo character comico un morto dipendente dai piaceri della carne e dai vizi terreni, creando una figura né buona né cattiva ma solamente demente. Mentre gli autentici villain della storia risultano i nuovi occupanti dell’appartamento della coppia ormai defunta.
Nel tratteggiare l’eccentrica famiglia, Burton ripercorre i moduli satirici e parossistici alla Waters, colorando di eccessi estetici e dialettici i suoi componenti.
Anche nell’utilizzo delle luci è molto marcata la differenza tra i due mondi, restituendo  un inferno dai colori pop e cartooneschi e una realtà dalle tinte grigie e funebri.
La riflessione sull’infanzia anche in questo caso è centrale, soprattutto per il rapporto tra una madre camp e la propria figlia(Winona Ryder), adolescente introversa e attratta dal macabro, dimensione ultraterrena che la allontana dai patetici e meschini parenti.
Questo rifugiarsi nel macabro, quale consolazione alle paturnie della vita, da parte dei solitari burtoniani è uno dei maggiori motivi di fascino all’interno degli stilemi del cineasta di Burbank, il quale attraverso il loro sguardo esplora la dimensione ultraterrena, in cui è possibile ricercare le radici di un’infanzia rimossa.
Burton è uno di loro e non lo nasconde, quasi ogni escluso dal cuore candido risulta il suo doppio, da “Edward mani di forbice”(1990) al Jack Skeletron di “Nightmare Before Christmas”(1993) fino a “Dumbo”, prolungamenti di un’infanzia malinconica e solitaria, dove solo la dimensione onirica della fantasia si presenta come sponda salvifica all’esistenza.
E poi c’è “Ed Wood”(1994), forse, la vetta registica raggiunta da Burton in più di trent’anni di carriera. L’idea di mettere in scena in un bianconero retrò e struggente, la vita, gli amori e soprattutto l’arte maledetta di Edward Davis Wood Jr, considerato da gran parte della critica il peggior regista della storia del cinema, ne ha fatto il suo capo d’opera assoluto.

Un altro reietto in cui Burton si riflette e su cui riflette la propria arte, soprattutto durante il suo primo periodo Disney in cui si scontrò con la Major, la quale non riconobbe le suo cinema malinconico, oscuro e a tratti inquietante, obbligandolo a plasmarsi sulle direttive edulcorate del disegno disneyano. “Ed Wood” è quindi leggibile come cartina al tornasole di tutta la poetica burtoniana e come dichiarazione massima, da parte dell’autore, di chiamarsi fuori dai giochi hollywoodisneyani, in favore di un’arte libera, talmente personale da rischiare a volte lo stile ombelicale, continuamente alla ricerca di un’infanzia perduta e galeotta del sogno di potersi fare corpo alieno, creatura immune ai mali del mondo, protetta dal proprio autismo umbratile e fanciullesco.
Tim Burton resterà sempre un bambino ostrica, come cita il titolo di una sua famosa raccolta di fiabe(“Morte malinconica del bambino ostrica”), un solitario alla ricerca di un’età perduta rinvenibile solo nel mondo della fantasia. Un regno in cui i morti sono ancora capaci di sognare ed emozionarsi, mentre ai vivi ha già smesso di battere il cuore.

IDRISSA OUÉDRAOGO: APPUNTI SU UN CINEMA (IN)VISIBILE
di Francesco Saverio Marzaduri

“Yaaba”, 1989

A un anno di distanza dalla prematura scomparsa di Idrissa Ouédraogo, eponima firma della filmografia africana, è lecito porre in risalto quella che, in apparenza, parrebbe una produzione elementare, dove i corpi attoriali attraversano lo schermo nel pieno d’uno spazio naturale che sembra sopraffarli, e si rivela invece un’attenta geometria scenica. I personaggi di film quali “Tilaï”, “Samba Traoré”, “Le cri du coeur”, e prima ancora “Yam Daabo” o “Yaaba”, non sono che minuscoli punti di unastrazione palpabile in cui la “mise-en-scène” è disposta in linea con unapparenza ingannevole. I piccoli episodi quotidiani, innescati da una casualità di pari passo con folklore e abitudini tradizionali, sono carpiti da un obiettivo alla costante ricerca d’un evento inatteso, in cui il Fato è aritmetico fattore. A far la differenza, consentendo all’evento di non tradursi in una sensazionale “bagarre”, è il nitore figurativo, d’una semplicità volta a stemperare l’evento sfumandolo in un nonnulla, e limmaginifico schema dispone che i partecipanti coinvolti a turno salternino rivestiti d’una presenza fantasmatica e quasi invisibile. Tutt’intorno, l’abisso di un’area polverosa e soleggiata, costante preda di ostilità: il sentimento è palpabile, e non è casuale che le (poche) occasioni d’amicizia abbiano luogo con creature enigmatiche, a volte infide, dalle quali dipende la restituzione della normalità.
Probabilmente è questo il segreto, non tanto e non solo dell’opera del “burkinabé” Ouédraogo quanto di gran parte della cinematografia africana, nella fattispecie rurale. E la ragione è presto spiegata, giacché la volontà di misurarsi con produzioni internazionali radicate nel tempo, in termini di processi produttivi prima che di esiti, non impedisce quell’essenzialità stilistica che ne costituisce il maggior pregio e il suo punto di progressiva estinzione. Sicché la difficoltà, a un tempo storico-sociale ed economica, è ineluttabile “pattern” perfettamente traducibile sugli spunti narrativi e le vicissitudini al centro dei citati titoli. Dice bene chi afferma che il cinema di Ouédraogo è un cinema “nomade” come il suo autore e, in fondo, come un potutti nella filmografia africana: salvo che il cineasta di Banfora risulta tra i pochi a innestare nella propria opera un “quid” teso a concedersi a nuove avventure dello sguardo, di volta in volta sensibile tra il lungometraggio e il corto, il documentario e il film episodico, a nuovi formati multimediali (la televisione, il digitale), alla contaminazione tra generi (la commedia “on the road”, il western-thriller), a tematiche delicate (dalla mutilazione genitale all’Hiv) fin lì ignorate dalla popolazione. Senza neppure chiamarsi fuori da operazioni collettive: suo è il quinto segmento di “11 settembre 2001”, di cui è protagonista una combriccola di ragazzini che crede di riconoscere Bin Laden per le vie di Ouagadougou e si confronta con una situazione più grande di loro che, per una volta, si conclude con un “happy end”. È facile leggere il mini-apologo come un desiderio di riscatto del Paese, trepidante di cogliere l’occasione di gloria: è la realtà a ricondurre sul binario d’una povertà quale autentico, insostituibile tesoro.
Sempre e comunque, a mo’ di finestra sul mondo, la visione dell’autore è attenta a una ben radicata espressione dell’esistenza, colta nella sua dimensione più naturale, e a una semplicità che nelle cose della vita, appunto, trae forza di suggestione e stimolo alla riflessione. Tra un lavoro di Ouédraogo e l’altro, si coglie la necessità d’individuare uno sguardo morale, elaborare una profonda riflessione sul senso di produrre immagini, sviluppare una coscienza di sguardo sempre più scarna, essenziale. La sua arte si erge a chiara testimonianza d’una ricerca di collocazione in uno spazio universale del cinema, imprescindibilmente da cliché culturali o da frontiere geografiche, non esente da un solco documentaristico alla Herzog, quando non da inaspettate confezioni scenografiche teatrali greco-shakespeariane. Il che non riduce per forza tale cinematografia nella gabbia di festival e rassegne, votate alla ricerca di distribuzioni attente al terzomondismo: a sciogliere i dubbi, contribuiscono le parole dello stesso cineasta (“L’unica civiltà che conta è quella dell’immagine”).

“Yam Daabo”, 1987

Scorrendo l’opera di Ouédraogo, e soffermandosi analiticamente sui molti titoli d’un percorso creativo prolifico, già appaiono veri e propri capitoli “morali” i cortometraggi degli esordi, i cui fotogrammi – come riprovano i lavori successivi – costituiscono l’attraversamento fisico d’uno spazio da riprendere con orizzontalità di sguardo, situandosi incessantemente dentro e mai “sopra”, distante dalle pulsazioni primarie di cuore, nervi, sangue e carne. Nel contempo, lungo un “fil rouge” che coagula i generi di volta in volta impiegati sino ad assembrarli in un “unicum”, ciò che l’occhio immortala trascende i limiti imposti per produrre nuove identità, approdando a una visione teorica, dove anche il tempo è ingrediente predisposto a multiformi mutamenti. Uno straniante montaggio raccorda immagini, luoghi, corpi, susseguendoli in un’estatica immobilità alla ricerca di un’attesa dove suoni, rumori, colori tripudiano incessanti. L’itinerario cinematografico devia costantemente, esiste oltre ogni precostituito paradigma narrativo, vive nelle ellissi, spazia in continue inversioni in cui si situano gli accadimenti che trasformano la realtà in favola, e in cui trovano riscontro gli sguardi magici su una vegetazione prossima a cambiare forma, come i personaggi (la “scelta” suggellata da uno dei migliori titoli di Ouédraogo).
Questo non significa che sentimenti e passioni, pulsioni adolescenziali e tragedie umane, memorie personali e collettive, trasposti evitando stereotipi e ripetizioni, non siano “topoi” che la macchina da presa dimentichi di calare in una predefinita dimensione. È coi gesti e gli sguardi che i personaggi superano gli ostacoli delle parole, laddove l’obiettivo sovente si mantiene distante dall’evento che si consuma. Non per niente, film come “A Karim Na Sala”, “Samba Traoré” e “Kini & Adams” s’incentrano su figure inquiete o giovani innamorati che solcano l’assunto nella vastità degli spazi in cui ripresi, entro una sfera ora fiabesca ora drammatica, senza che il realismo prevalga giocoforza sul risultato. Ambiente naturale e colori vengono restituiti da una classicità figurativa in cui artificio e finzione la fanno da padroni: conseguenza di un pellegrinaggio dinamico e moderno, sui modelli peraltro riconosciuti dall’autore di Rossellini, della Nouvelle Vague e dei Taviani di “Padre padrone”.
Pur sempre, la “vérité” è luogo canonico e al contempo risolutore (nel mediometraggio “Afrique, mon Afrique…” il protagonista, che lascia il suo villaggio per diventare un cantante, è un vero musicista). E in uno dei lavori conclusivi, il brevissimo “Les parias du Cinéma”, Ouédraogo in persona si rivolge allo spettatore per affrontare una questione verso la quale è lucidamente polemico: in cinque minuti di straordinaria intensità l’autore si dichiara, interponendo alle parole frammenti di film e palesando la propria “politique” nella concezione del riprendere, la totale adesione nel costruire un’inquadratura e, all’occorrenza, mettere in scena personaggi della finzione quando non sé stesso. Ci si accorge di ciò in alcuni epiloghi che si rincorrono e si rimandano come un denominatore comune: è vero che ogni inizio (ri)comincia da una fine, ma concepire un piano fisso, o il più complesso movimento di macchina, è sempre un problema di sguardo morale.

Les parias du Cinéma”, 1997

DISTESE DI SABBIA, MAL D’AFRICA:
LE SEDUZIONI DEL DESERTO NEL CINEMA COLONIALE DELL’ITALIA FASCISTA
di Mario Galeotti

La politica coloniale è stata uno dei perni della propaganda fascista in materia di relazioni internazionali. L’ambizione del regime a competere con gli imperialismi di Francia, Inghilterra, Germania, e l’aggressione all’Etiopia nel 1935 furono il punto di arrivo di un colonialismo (quello italiano) tardivo, anomalo e decisamente breve rispetto a quello delle altre nazioni europee, iniziato solo negli anni Ottanta dell’Ottocento con l’acquisizione dei porti di Assab e Massaua e la penetrazione in Eritrea. La guerra d’Etiopia si concluse nel maggio del 1936 con la proclamazione di un Impero fascista annunciato come l’erede dei fasti di Roma antica ma ch’era destinato a durare pochi anni, travolto dai contraccolpi della seconda guerra mondiale.
Nella sua propaganda colonialista, il regime fu coadiuvato da un’intensa produzione di cinegiornali dell’Istituto Luce che fornivano un importante apporto nell’indottrinamento delle masse. “Cronache dell’Africa educative”, “Cronache dell’Impero”, ”Figli d’Italia caduti in terra d’Africa”, “Libro e moschetto in Africa Orientale”, ”Il nostro esercito coloniale”, “Italia imperiale”, “Soldati d’Africa”, “La fondazione della nuova Addis Abeba”, “Rinascita in Libia” sono alcuni dei titoli proposti all’epoca con l’intento di nobilitare, agli occhi dell’opinione pubblica, la presenza italiana in Africa: una presenza cominciata con i governi post unitari e poi esaltata e proseguita dal fascismo.
Tra gli anni Trenta e i primi anni Quaranta sono stati realizzati anche film di ambientazione coloniale che però, pur esaltando tematiche care al regime, non si possono considerare semplici film di propaganda: veicolano un messaggio allineato ai punti essenziali della politica coloniale fascista, ma alcuni di essi sono innanzitutto ottimi prodotti commerciali, diretti da grandi registi, arricchiti da un cast di attori eccellenti e, spesse volte, debitori della preziosa lezione del cinema hollywoodiano.
Tra le pellicole più riuscite ricordiamo ““Lo squadrone bianco”” di Augusto Genina (1936), “Il Grande appello” di Mario Camerini (1936), “Luciano Serra pilota” di Goffredo Alessandrini (1938),” Sotto la croce del Sud” di Guido Brignone (1938), “Abuna Messias” (1939) e “Giarabub” (1942) di Alessandrini (1939), “Bengasi” di Genina (1942).

Amedeo Nazzari in “Luciano Serra pilota” – Dal film “Giarabub”

Già alla fine degli anni Venti era stato girato in Libia un interessante film muto, ““Kif Tebbi”” di Mario Camerini (1928), che racconta una travagliata storia d’amore sullo sfondo della guerra italo-turca, combattuta tra il settembre del 1911 e l’ottobre del 1912. Tratto da un romanzo a tema coloniale di Luciano Zuccoli, il film fu prodotto dalla A.D.I.A (Autori Direttori Italiani Associati), una sorta di cooperativa nata a Roma verso la fine del 1927 per iniziativa dello stesso Camerini e di Luciano Doria, Aldo De Benedetti, Roberto Roberti, Guglielmo Zorzi, Gabriellino D’Annunzio e con l’appoggio finanziario di Augusto Genina, che in quel periodo lavorava in Germania. Si trattò di un’iniziativa produttiva che rientrava, insieme alla Augustus di Alessandro Blasetti, nel tentativo di promuovere una rinascita dell’industria cinematografica italiana dopo la crisi degli anni Venti, prima che il regime cominciasse ad attuare una seria politica di interventi a favore del nostro cinema. I giudizi della critica furono tutti positivi. Impeccabile dal punto di vista tecnico e artistico, per quanto riguarda il tema coloniale “Kif Tebbi”, pur non avendo intenti esplicitamente propagandistici, propone uno schema ideologico largamente condiviso e che ritroveremo nelle successive pellicole a tema coloniale del periodo fascista: la contrapposizione tra il mondo occidentale, umano e progredito, e quello arabo o africano, arretrato e bisognoso di essere civilizzato. Un tema ricorrente nella politica coloniale italiana, prima e durante il fascismo, era proprio quello della presunta necessità delle popolazioni indigene di essere aiutate e guidate da un paese come l’Italia. I turchi, non a caso, nel film di Camerini sono particolarmente feroci, privi di scrupoli. Da una parte, quindi, c’è l’Italia, paese benevolo che si arroga il compito si farsi portatore di civiltà. Dall’altra l’impero ottomano, barbaro e feroce. In mezzo, una popolazione indigena che necessita di essere liberata dal giogo oppressivo dei turchi e di evolversi. Il protagonista Ismail ben Temsichet (Marcello Spada) è un giovane libico che, pur nutrendo un profondo rispetto per la propria terra e la propria gente, ha vissuto in Europa e si è occidentalizzato nei modi, nell’abbigliamento, nello stile di vita. Indossa giacca e cravatta, la sua casa è arredata con oggetti che non appartengono alla sua cultura: una foto della Tour Eiffel, una boccia di profumo, il grammofono. Ismail è attratto dalla cultura dell’Occidente. Ma in “Kif Tebbi” la macchina da presa si sofferma molto sul paesaggio libico e, grazie alla bella fotografia di Ferdinando Martini, riesce a restituirne con efficacia il fascino arcaico e le bellezze naturalistiche, alternando i campi lunghi delle immense distese di deserto a dettagli di piante e animali o quadri di vita locale nelle oasi. La lenta marcia dei cammelli sintetizza la fissità di uno scenario immobile, secolare, contrapposto allo sviluppo delle civiltà moderne ma che ha sempre esercitato un’irresistibile attrattiva sul visitatore europeo.

“Kif Tebbi”

Il misterioso richiamo del deserto emerge con maggiore chiarezza nel film “Lo squadrone bianco”, indubbiamente uno dei più suggestivi film coloniali del periodo, di notevole impatto visivo. “La morte nel combattimento è la fine più bella per chi ha anima di vero soldato. Il nostro gagliardetto, bagnato dal sangue del tenente Bettini, accompagnato dalle anime dei nostri eroi, salirà ancora più in alto nel cielo delle nostre glorie future”. Sono le parole pronunciate in apertura, nel corso della commemorazione del defunto tenente Bettini, che alla testa di un plotone sahariano di meharisti è caduto valorosamente in battaglia durante una spedizione contro i ribelli. La sua scomparsa servirà “come fulgido esempio ai vecchi e come nobile incitamento ai giovani che ancora attendono il battesimo del fuoco”. I Meharisti sono corpi militari coloniali su dromedario. Il teatro dell’azione è anche qui la Libia, e più precisamente la Tripolitania, su cui l’Italia aveva visto riconosciuta ufficialmente la propria sovranità nell’ottobre del 1912, alla fine della guerra italoturca, ma dove un’intensa opera di pacificazione tenne occupato il presidio italiano almeno fino alla fine degli anni Venti. Proprio la repressione dei ribelli in Libia fa da sfondo alle vicende del film, ma sarebbe troppo riduttivo considerare “Lo squadrone bianco” un’opera di propaganda: indubbiamente in linea con la politica fascista, si tratta piuttosto della storia di un uomo deluso che nel deserto ritrova se stesso e, coniugando temi propagandistici (esaltazione dell’amor di patria, legittimazione del colonialismo italiano) con intenti spettacolari, ci appare ancora a distanza di tanto tempo come un prodotto di ineccepibile qualità.
Tratto dal romanzo L’escadron blanc di Joseph Peyré e girato in gran parte nel vero deserto libico, “Lo squadrone bianco” vinse la Coppa Mussolini come miglior film alla Mostra di Venezia del 1936, pochi mesi dopo la fine della guerra d’Etiopia. Come si legge in didascalia, il film era dedicato “ai valorosi gruppi sahariani che al comando di S.A.R. il duca d’Aosta ricondussero la Libia sotto il segno di Roma”. La critica fu pressoché unanime negli entusiastici giudizi. Filippo Sacchi scrisse: “prendere un soggetto che per tre quarti si svolge nel deserto, dove non si vedono che dune, senza scene d’amore, senza baci, e cavarne un film attraente, appassionante, popolare era l’impossibile compito che Genina si è assunto e che è riuscito vittoriosamente a realizzare” («Il Corriere della
Sera», 22 agosto 1936).

Un’immagine del film “Lo squadrone bianco”

La rivista «Cinema» aggiunse che “Lo squadrone bianco” “è e rimarrà una splendida e poetica documentazione del valore guerriero e della bellezza dei nostri cavalieri del deserto” («Cinema», n. 55, 10 ottobre 1938). Il film fu accolto molto bene anche dal pubblico, sia in Italia che in altri paesi, tanto da diventare uno dei film più visti all’estero in quegli anni.
Per tutta la durata del film, il ricordo del tenente Bettini è sempre vivo. Lo spettatore non lo ha mai visto, ma la sua eroica impresa, testimoniata dalla sequenza delle esequie funebri, pesa enormemente su tutta la narrazione e soprattutto sul protagonista, il tenente Mario Ludovici (Antonio Centa). Ludovici, infatti, è giunto sotto il sole rovente dell’Africa non per seria vocazione coloniale, ma semplicemente nella speranza di seppellire nel deserto un’infelice storia d’amore. E’ una riproposizione del mito della Legione Straniera, lo storico corpo militare d’élite francese scelto non di rado da uomini che avevano bisogno di lasciarsi alle spalle una delusione sentimentale. “Nostra vita stare nel deserto. Nel deserto, uomo dimenticare tutto” gli dice El Fennek (Cesare Polacco), l’attendente destinatogli dal capitano Santelia (Fosco Giachetti). Ma ora, chiamato anche lui a contrastare i ribelli per riaffermare la sovranità italiana su quelle regioni, Mario si trova a dover ereditare il pesante fardello del valoroso predecessore, che si era distinto per coraggio e amor di patria.
Il film inizia con ambienti e situazioni da cinema dei telefoni bianchi, tra champagne e abiti da sera, con un montaggio parallelo che ci mostra, da una parte gli svaghi mondani di una ragazza oziosa e snob, dall’altra la folle corsa in automobile di un uomo ancora disposto a tutto pur di incontrare la donna che ama. Questa volta, però, la pazienza di Mario è messa a dura prova e dopo l’ennesima lite decide di abbandonare la volubile Cristiana (Fulvia Lanzi) e chiedere il trasferimento in Tripolitania. E’ disposto ad accettare senza riserve le avversità che lo attendono, le “parecchie centinaia di pietra, di sabbia, di sole, di fatiche”, pur di allontanarsi da un amore che lo sta consumando. Ma in valigia conserva una foto di Cristiana, a dimostrazione della sua incapacità (almeno per il momento) di lasciarsi definitivamente tutto alle spalle. Dalle atmosfere alto borghesi dei telefoni bianchi si passa presto al suggestivo mare di sabbia del deserto libico. Il nuovo scenario è introdotto proprio dalle immagini della commemorazione del tenente Bettini, con le lunghe e affusolate palme che sovrastano le file di meharisti convenuti a rendere omaggio alla memoria dell’eroe caduto in battaglia. Si sente una musica in sottofondo e a chi la definisce uno strazio, il capitano Donati (Olinto Cristina). risponde: “Ma non sente la poesia? Non sente la forza guerriera, l’epopea, l’Africa?”. E’ quella sensazione che comunemente si chiama “mal d’Africa”. Un articolo apparso sulla rivista «Cinema» aveva messo in evidenza la funzionalità di un paesaggio esotico nell’economia narrativa del film. “Ambienti poco noti e sconosciuti agiscono, su chi guarda, come fattori che si valgono della propria novità, come uno stimolo valido a rendere accettabile e attraente una situazione, un fatto, la concezione e lo svolgimento di un caso psicologico e mentale che, altrimenti, in ambiente normale (quello ove siamo abituati a vivere) risulterebbero comuni, troppo sfruttati”, “l’ambiente coi suoi aspetti diversi, si mescola alla vicenda, ne diventa parte, quando addirittura non le si sovrappone, raggiungendo il fine di attrarre su di sé la migliore attenzione” («Cinema», n. 55, 10 ottobre 1938).

“Lo squadrone bianco”

E difatti, in “Lo squadrone bianco”, restiamo rapiti dalla marcia armonica dei cammelli nel deserto che, ripresi dall’alto, creano l’effetto di una perfetta geometria, o dai tramonti con le sagome dei Meharisti e dei loro animali che procedono solennemente lungo la cresta delle dune.
Mario deve sostituire il tenente Bettini, ma tra lui e il suo superiore c’è scarsa sintonia. Il capitano Santelia lo accoglie freddamente, lo reputa inadeguato e con poco carattere, non all’altezza di eguagliare le qualità e i traguardi del compianto Bettini: sei anni di valoroso servizio in Africa, due medaglie d’argento. “Questa gente che si butta quaggiù come uno che si butta in acqua senza saper nuotare, questi tormentati da chissà che, io proprio non li digerisco”, così si sfoga Santelia con il collega Donati.
Quando Mario intraprende la sua prima spedizione contro i ribelli, la lunga ed estenuante marcia nel deserto rappresenta per lui, all’inizio, una sfida individuale, un percorso interiore di allontanamento dai fantasmi del passato. Infatti, al suo arrivo in Libia, il capitano Santelia gli aveva domandato se la sua richiesta di trasferimento fosse dovuta a passione coloniale ma Mario aveva risposto seccamente con un “no”. E’ comprensibile, quindi, che i rapporti tra i due fossero destinati ad essere fin da subito molto gelidi. Solo dopo una lenta maturazione spirituale, Mario comincia a sentire il richiamo della patria, a mettere da parte le motivazioni personali e a impegnare con dedizione tutte le proprie energie nella missione africana, unicamente per il bene dell’Italia. Significativa in questo senso è la sosta dello squadrone nel punto esatto in cui è avvenuta la battaglia che ha visto morire Bettini e dove si erge la croce che ne dà sepoltura. E’ l’unico confronto diretto che Mario può avere con il suo antesignano e alimenta in lui un senso di inferiorità – già acuito dal freddo atteggiamento di Santelia – e un desiderio di riscatto al servizio della nazione.

Le immagini della marcia nel deserto, lo abbiamo già detto, sono di grande effetto, uno dei momenti migliori del film dove si riesce a esprimere tutto il fascino di una terra vasta e misteriosa. Prima della partenza, la cinepresa passa in rassegna i volti grezzi dei meharisti che formano lo squadrone di Santelia, fedeli soldati indigeni mossi da un sentimento di devozione verso il popolo italiano che li ha colonizzati. Una volta iniziata la marcia, il gruppo procede lentamente nell’immensa distesa di sabbia, uomini e mehari sono uniti in un’intima reciprocità che li fa sembrare quasi una cosa sola. “Dal momento della partenza alla ricerca della banda di ribelli”, ha evidenziato Gian Piero Brunetta, “il film perde di vista il filo narrativo e libera una potente energia visiva: dai volti delle donne alle riprese delle tre file di cammelli che si avviano verso il deserto, dai piani generali ai primi piani, il regista punta soprattutto sui tempi morti della descrizione che muta di continuo angolazione, punto di vista, ritmo, illuminazione. Ora la squadra di cammelli occupa tutti i punti dell’immagine, ora si isola un solo animale al centro dell’inquadratura, ora la disposizione delle figure è colta lungo linee trasversali, ora la tempesta di sabbia sembra distruggere ogni disposizione geometrica” (Cent’anni di cinema italiano. Dalle origini alla seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 226). “Sabbia consumare uomini come consumare pietre” dice El Fennek. Sabbia e sole divorano le energie del plotone, ma soprattutto quelle dell’inesperto Mario. Dopo sei giorni e quattrocento chilometri percorsi, lo coglie una febbre altissima, ma non vuole assolutamente che il capitano lo sappia e si sforza di apparire il più possibile energico e intraprendente. In preda al delirio febbrile, si ritrova a vagare sul suo cammello nel bel mezzo di una tempesta di sabbia e solo il salvifico intervento di Santelia riesce a impedire una tragedia. Dopo il drammatico episodio, comincia a profilarsi un timido avvicinamento tra i due e nel corso della notte il capitano veglia sulle condizioni di salute di Mario.
Fonte di pericolo e causa di affaticamento, la sabbia è anche il luogo dove sotterrare simbolicamente il proprio passato. E’ nella sabbia che il protagonista seppellisce il portasigarette con dedica regalatogli da Cristiana, un gesto che è metafora dei propositi di Mario di cancellare per sempre il ricordo della donna.
Vediamo altre immagini dell’estenuante cammino, con i primi piani dei volti stanchi dei meharisti.
Si procede a piedi per risparmiare le energie degli animali. Qualcuno cade a terra sfinito. Segue l’incontro con i ribelli e l’infuriare dei combattimenti.
Al fortino non si hanno più notizie dello squadrone, mentre inatteso e scomodo è l’arrivo di un gruppo di turisti giunti con la crociera, tra cui anche Cristiana in nostalgica ricerca dell’amante.
Ritroviamo i personaggi ricchi e annoiati che avevamo visto nella prima parte del film e che qui appaiono decisamente fuori luogo. “Il deserto, signori miei, non esiste più, la civiltà l’ha ucciso!”, declama uno di essi con convinta presunzione. Ma lui, vacuo come il mondo altolocato a cui appartiene, non conosce nulla dell’Africa e del deserto.
Finalmente una ricognizione aerea riesce a individuare dall’alto lo squadrone e riferisce che, a quanto sembra, soltanto uno dei due ufficiali è sopravvissuto allo scontro armato con le tribù da domare. “Chi l’avrebbe immaginata questa storia dello squadrone perduto misteriosamente e che ritorna con un solo ufficiale? Sembra proprio un romanzo!” dice un turista. Tutti, anche Cristiana, sono convinti che a perdere la vita sia stato il giovane e inesperto Mario, ma si accorgeranno con stupore che a morire è stato il capitano Santelia (per mano di un nemico che quasi non si vede, perché il film preferisce concentrarsi sugli italiani) e che l’inaspettato eroismo di Mario ha determinato il buon esito della rischiosa impresa.
Le parole di Santelia in punto di morte sono state: “voglio rimanere qui, affidato a questa terra che ho tanto amato”. Mario, invece, è tornato da eroe e ha riacquistato fiducia in sé stesso. Ha vinto la partita iniziata nel momento in cui aveva deciso di farsi trasferire in Libia. “Come sei cambiato! Hai un altro viso, un altro sguardo !”, gli dice Cristiana e lui le risponde che l’uomo che lei conosceva non esiste più, è sepolto nella sabbia accanto a Santelia. Ora è un altro uomo e il suo posto è lì, in quell’Africa che, al di là della retorica con la quale il fascismo rivendicò il diritto dell’Italia ad avere il suo “posto al sole”, è sempre stata una “irresistibile seduttrice, capace di emanare un fascino inquietante, di suscitare indicibili ebbrezze, quel complesso di emozioni e sensazioni” definito “mal d’Africa” (Francesco Surdich, Miscellanea di storia delle esplorazioni, vol. V, Bozzi editore, Genova 1980, p. 21).

LA SCUOLA ITALIANA DEL CINEMA
Il Centro Sperimentale di Cinematografia dalla storia alla cronaca (1930-2017) 
di Alfredo Baldi

Sul Centro Sperimentale di Cinematografia non esisteva finora alcun testo storico-critico esaustivo per questo ho pensato di scrivere il libro “La scuola italiana del cinema” che ripercorre la storia del CSC dal 1930 al 2017. Molte sono state le pubblicazioni sul Centro, soprattutto in occasione delle varie ricorrenze più o meno decennali, come il libro sul Cinquantenario (Vivere il cinema, 1985), sui 60 anni (Vivere il cinema – 60 anni, 1995), infine in occasione dei 75 anni (1935-2010, Tre quarti di secolo, 2010). Ma mancava un’analisi che, oltre a ripercorrere le vicende del Centro dalle lontane origini a oggi, analizzasse anche le motivazioni storico-politiche della sua creazione e prendesse in esame l’evoluzione della sua metodologia di insegnamento del cinema.
L’importanza del Centro Sperimentale è dovuta a diversi motivi. Primo, perché dalle sue aule e dai teatri di posa sono usciti, in oltre ottanta anni di vita, migliaia di diplomati – italiani e stranieri – che sono andati ad arricchire le leve professionali e artistiche del cinema dei propri paesi. Secondo, perché è grazie al Centro che si è sviluppata – da parte di coloro che vi agivano – una feconda analisi sulla didattica del cinema, ancora in embrione negli anni Trenta del Novecento. Infine, perché il Centro può vantarsi di essere non solo la più antica scuola di cinema in Italia, ma addirittura la seconda nel mondo, dopo le scuole di Mosca e Leningrado istituite nel 1919.
Le origini del Centro vanno infatti individuate nella Scuola Nazionale di Cinematografia, fondata nel 1931 sotto gli auspici del regime fascista (era infatti finanziata dal Ministero delle Corporazioni), con sede presso la Regia Accademia di Santa Cecilia di Roma. La Scuola di Cinematografia, dove si insegnava solo la recitazione, mentre la regia sarà istituita soltanto nel terzo anno di vita, vivrà solo tre anni e con molte difficoltà, a causa dell’inevitabile inesperienza in materia di insegnamento del cinema di coloro che la dirigevano e vi insegnavano, ma anche per i finanziamenti insufficienti che riceveva.

1933: Alessandro Blasetti e gli allievi del SNC

Nel settembre 1934 il regime fascista, a cui era sempre più necessario creare e mantenere il consenso popolare, istituisce il Sottosegretariato per la Stampa e la Propaganda (divenuto poco dopo Ministero della Cultura Popolare) che ha competenza anche sul cinema, a capo del quale viene posto Galeazzo Ciano, genero di Mussolini. Ciano prende possesso della Scuola di Cinematografia e, con l’ausilio dei suoi collaboratori Luigi Freddi e Luigi Chiarini, la trasforma, il 13 aprile 1935, nel Centro Sperimentale di Cinematografia, ente di diritto privato alle dipendenze del Sottosegretariato. Chiarini è nominato commissario della nuova scuola e la dirigerà fino alla temporanea chiusura dell’8 settembre 1943, data dell’armistizio tra il Regno d’Italia e gli Alleati.

1935: Decreto istitutivo del CSC

Il Centro nel 1940 si trasferisce nella sede definitiva e attuale di Via Tuscolana – progettata a questo specifico scopo dall’architetto e scenografo Antonio Valente – costruita di fronte a Cinecittà. I corsi che vi si tengono sono non solo recitazione e regia, ma anche fotografia, scenografia, tecnica del suono e costume, cioè le più importanti professioni del cinema. I corsi sono biennali e ogni anno si apre un nuovo biennio, così che gli allievi del primo anno convivono e lavorano con quelli del secondo. Soltanto nel marzo 1942 al Centro viene riconosciuto lo status giuridico di ente di diritto pubblico, mentre fino a quel momento esso esisteva come semplice ente di fatto. La didattica del Centro si caratterizza per la felice integrazione tra teoria e pratica: gli allievi seguono un regolare e severo corso di studi teorici nelle varie discipline del cinema, ma devono anche svolgere numerose esercitazioni pratiche, di importanza e difficoltà crescenti con il prosieguo degli studi, che sfociano alla fine del secondo anno nel saggio finale del corso, il “saggio di diploma”, al quale ogni allievo partecipa secondo la propria specializzazione e che costituisce il metro di giudizio finale di ogni studente.
Numerosi sono gli allievi di quei primissimi anni che acquistano notorietà: basti citare tra i registi Gianni Puccini, Pietro Ingrao, Steno, Luigi Zampa, Pietro Germi, Michelangelo Antonioni, Giuseppe De Santis, tra gli attori Clara Calamai, Arnoldo Foà, Alida Valli, Andrea Checchi, Carla Del Poggio, Leopoldo Trieste e addirittura Achille Togliani. Sfortunatamente i saggi di diploma, e più in generale le realizzazioni in pellicola degli studenti di quegli anni, sono andati tutti perduti. Ne restano solo alcune foto di scena e di set, alcuni bozzetti opera degli allievi di costume, le descrizioni delle trame e i commenti nelle riviste di cinema dell’epoca.

Achille Togliani

Le attività del Centro si interrompono forzatamente con l’armistizio dell’8 settembre 1943, ma anche dopo la liberazione di Roma (4 giugno 1944) da parte degli eserciti alleati il CSC non può riprendere l’attività, poiché la sede è occupata dalle truppe alleate, e lo sarà fino al 1946. Finalmente, sotto la guida del commissario straordinario Umberto Barbaro, le lezioni riprendono, sia pure con molte difficoltà, all’inizio del 1947 e anche i teatri di posa, indispensabili per le esercitazioni degli allievi, vengono gradualmente ripristinati. Poco dopo però, a seguito del viaggio di Andreotti negli USA e della conseguente rottura del “patto di unità nazionale” tra DC e partiti di sinistra, il comunista Barbaro viene sostituito da Luigi Chiarini. Questi, scontato il “purgatorio” dovuto all’essere stato un alto dirigente del regime fascista, torna sulla scena come esponente della DC e, attraverso la scuola e la rivista del CSC «Bianco e Nero», fondata nel 1937, continua tenacemente a perseguire, come già faceva prima della guerra, il suo scopo di formare cineasti in grado di realizzare un “cinema d’arte”.
Un evento importante per la salvaguardia del cinema italiano, e per il CSC, è la nuova “legge cinema” del dicembre 1949 che riconosce la cineteca del Centro come “cineteca nazionale”, e quindi come cineteca di stato, e le affida il compito di ricevere in deposito legale le copie dei film di produzione italiana. L’Italia è la prima nazione a istituire il deposito legale delle copie dei film.  
Alla fine del 1950 anche Chiarini, che si è avvicinato troppo ai socialisti, viene estromesso e a dirigere il Centro è chiamato il democristiano Giuseppe Sala, legato a Giulio Andreotti, “dominus” del cinema dell’epoca. La direzione di Sala si distingue, tra l’altro, per la severa disciplina imposta agli allievi, ai quali, ad esempio, non è consentito passeggiare nel cortile con le allieve e che sono obbligati a seguire le funzioni religiose che si svolgono a scuola.
Sono molte in questo periodo le iniziative culturali rilevanti che assume il Centro, tra cui l’avvio della pubblicazione del Filmlexicon degli autori e delle opere, opera enciclopedica sul cinema mondiale in 10 volumi, una delle prime del genere, e l’inizio della distribuzione culturale ai circoli del cinema di un notevole catalogo di film italiani e stranieri. La Cineteca inizia inoltre a organizzare autonomamente, in una sala romana, proiezioni a carattere culturale dei propri film, attività questa che spesso si interromperà, per difficoltà finanziarie o logistiche, e periodicamente riprenderà, fino ai nostri giorni.
L’impostazione didattica in tutti questi anni rimane in sostanza stabile e simile a quella anteguerra, con un minimo di cinque sezioni e un massimo di sette (regia, recitazione, ottica, scenografia, costume, suono e produzione). Sono ammessi alla scuola anche allievi stranieri; infatti al Centro si forma, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, una buona parte del cinema latino-americano, di quello africano e di quello arabo.
Cresce tuttavia il malcontento degli studenti per la situazione stagnante della scuola, per la  disorganizzazione della didattica, per il tempo eccessivo dedicato agli insegnamenti teorici, per l’insufficiente preparazione di alcuni insegnanti e l’inesistenza di esercitazioni pratiche congiunte tra allievi delle varie sezioni. Gli studenti denunciano anche la burocratizzazione del Centro, i cui organi direttivi sono composti in maggioranza da rappresentanti dei ministeri e i cui docenti, a parte pochi di valore, sono scelti per meriti politici.
Poiché le loro proteste restano inascoltate, gli studenti nel 1967 occupano più volte il Centro, chiedendo un presalario generalizzato, l’equiparazione degli allievi stranieri agli italiani, la partecipazione degli studenti alla formulazione dei piani di studio e la presenza di un loro rappresentante nel consiglio di amministrazione. Finalmente nel febbraio 1968 il Ministero, per sbloccare la situazione, chiama ai vertici dell’ente personalità di indiscusso valore che godono di prestigio anche tra i giovani: commissario è nominato Roberto Rossellini, affiancato da Floris L. Ammannati e Fernaldo Di Giammatteo.
Nel ventennio compreso tra la riapertura postbellica dei corsi e la nomina di Rossellini molti sono gli allievi che, nonostante i problemi della scuola, riescono ad affermarsi nella professione. Tra i nomi più noti ricordo: Giulia Lazzarini, Domenico Modugno, Antonio Cifariello, Carla Gravina e Raffaella Carrà, tra gli attori; Nanni Loy, Francesco Maselli, Lucio Fulci, Folco Quilici, Gabriel Garcia Marquez, Umberto Lenzi, Liliana Cavani, Marco Bellocchio e Roberto Faenza, tra i registi; Pasqualino De Santis, Nestor Almendros, Luciano Tovoli e Vittorio Storaro, tra i direttori della fotografia; Mario Garbuglia per la scenografia.
Nel luglio 1969 Rossellini, che nel frattempo è stato nominato presidente, emana il suo primo bando di concorso nel quale mette in pratica le sue idee sul cinema: la scuola deve educare a un cinema non spettacolare, ma soprattutto formativo e scientifico. Di conseguenza nella formazione si devono privilegiare discipline quali la sociologia, la psicologia, la storia e l’economia, la cui conoscenza è essenziale, nella visione rosselliniana, per una cosciente partecipazione dell’uomo alla vita moderna. Le sezioni previste dal bando sono regia, ripresa, suono, produzione, scenografia e costume. Viene abolita la recitazione dal momento che gli attori, nell’interpretazione rosselliniana della missione del cinema, non sono indispensabili. La scuola è gestita democraticamente dagli allievi che scelgono i docenti e le materie di insegnamento. Il secondo bando di concorso di Rossellini, emanato nel 1972, è ancora più radicale. La formazione da parte della scuola ha, sì, lo scopo di formare al migliore uso del mezzo audiovisivo, ma questo ha perso per la via tutte le funzioni ludiche; l’unica attribuzione legittima che gli viene riconosciuta è contribuire al progresso dell’umanità attraverso il progresso della conoscenza.
Ma le posizioni di Rossellini, divenute troppo anticinematografiche, non sono gradite alle associazioni professionali del cinema e al ministero dello spettacolo. Nel settembre 1974 egli viene destituito e al suo posto è nominata una gestione commissariale. Dopo altri due anni di interruzione, necessari per riprendere le fila del progetto didattico, sbriciolatosi in quegli anni confusi, nel 1976 viene emanato un nuovo bando la cui impronta è chiaramente sociologica, in fondo di lontana derivazione rosselliniana. La stessa impronta sociologica, ma via via più stemperata, troviamo anche nei due bandi successivi, finché nel 1982 termina la gestione commissariale ed è nominato un consiglio di amministrazione, presieduto da Giovanni Grazzini.
La gestione grazziniana riprende la didattica sperimentata dei settori professionali tradizionali, reintroducendo il settore di recitazione e inaugurando i nuovi corsi di sceneggiatura, montaggio e cinema d’animazione. Viene rinnovato il gruppo dei docenti, nel quale sono chiamati professionisti di grande notorietà e di alta professionalità.
Nel luglio 1987, però, un violento incendio scoppiato per cause fortuite fa crollare il tetto del Teatro di posa n.1, il più grande del Centro, e danneggia gravemente anche i due teatri adiacenti, privando così la scuola, in un colpo solo, di tutti i auoi teatri di posa e mettendo in gravi difficoltà, per molti anni, la pratica della didattica.
Nel settembre 1988 il ministero nomina commissario Lina Wertmuller, assistita dai subcommissari Rocco Moccia e Caterina d’Amico. La nuova gestione commissariale procede al rinnovamento e all’aggiornamento delle dotazioni tecnologiche e a incrementare il numero delle esercitazioni, in video e in pellicola, svolte dagli allievi durante i due anni di corso, per conferire loro una maggior padronanza dei mezzi tecnici. Si iniziano anche a prevedere, a seguito di una modifica della legge istitutiva del Centro che permetteva bandi di concorso solo biennali, corsi della durata di tre anni, la cui istituzione era da tempo sentita necessaria. I primi corsi triennali sono Regia, Produzione, Cinema documentario e Cinema d’animazione.
Nel luglio 1994, a seguito della vittoria nelle elezioni politiche del centro-destra di Silvio Berlusconi, al posto di Lina Wertmuller è nominato come commissario Alfredo Bini, ma la sua gestione dura solo fino al successivo cambio di governo, a seguito del quale nel gennaio 1996 Orio Caldiron è nominato al vertice del CSC. Con la gestione di Caldiron tutti i corsi, eccetto Recitazione, diventano triennali.
Ma nel novembre 1997 un grande rivoluzione giuridica sconvolge la vita del Centro: esso viene trasformato, così come gli altri enti culturali, da ente pubblico in Fondazione privata, e il nome è modificato in “Scuola Nazionale di Cinema”. Tutto ciò provoca non poche difficoltà, nei primi anni, alla gestione dell’ente, sia perché i finanziamenti ministeriali non sono più automatici, ma vanno faticosamente conquistati anno per anno, sia perché il cambio di denominazione rende il Centro non più riconoscibile come la gloriosa istituzione dalla vita ultrasessantennale che ha formato generazioni di cineasti italiani e stranieri.
Nel febbraio 1998 presidente del Centro è nominato Lino Miccichè, alla testa di un consiglio direttivo di soli cinque membri, al posto delle pletoriche composizioni del passato. Miccichè dà un notevolissimo impulso alle attività: raddoppiano i dipendenti, si moltiplicano le pubblicazioni, si inizia a mettere a norma i magazzini delle pellicole infiammabili della Cineteca, procedendo altresì a una massiccia azione di restauri dei capolavori del cinema italiano che la breve vita della pellicola rischiava di far perdere. Ma soprattutto cambia il progetto didattico: a partire dal 2000 le sezioni diventano otto (fotografia, montaggio, produzione, recitazione, regia, sceneggiatura, scenografia-arredamento-costume, tecnica del suono), i corsi durano tre anni e ogni anno inizia un nuovo corso triennale; il tutto nell’ottica di un riconoscimento legale del diploma del Centro come diploma di laurea breve. Inizia anche la politica del decentramento di alcuni insegnamenti. Nel 2002 è inaugurata la sede Piemonte, dove si insegna Cinema d’animazione; nel 2005 a Milano si apre la sede Lombardia, destinata a Pubblicità e Cinema d’impresa; nel 2010 a Palermo si inaugura la sede Sicilia, con il corso di Documentario, infine nel 2012 si apre a L’Aquila la sede Abruzzo, con  Reportage audiovisivo. Dal gennaio 2017 ospita anche la Cineteca Fedic depositata con apposita convenzione dalla Federazione Italiana dei Cineclub.
Tra l’inizio della gestione Grazzini (1982) e la fine di quella Miccichè (2002) sono moltissimi gli allievi che acquisteranno notorietà; tra i più noti: per fotografia, Arnaldo Catinari, Fabio Zamarion e Vladan Radovic; per recitazione, Iaia Forte, Francesca Neri, Enrico Lo Verso, Irene Ferri, Stefania Rocca, Paola Minaccioni e Riccardo Scamarcio; per montaggio, Francesca Calvelli, Jacopo Quadri, Walter Fasano e Cristiano Travaglioli; per sceneggiatura, Paolo Virzì e Melania Mazzucco; per regia Gabriele Muccino, Gianni Zanasi, Fausto Brizzi e Francesco Munzi; per produzione Carlotta Calori, Francesca Cima e Nicola Giuliano.

I registi Gabriele Muccino e Claudio Giovannesi

Nel 2002 Micciché è sostituito alla presidenza da Francesco Alberoni che tra i suoi primi risultati riesce a ripristinare la vecchia gloriosa denominazione di “Centro Sperimentale di Cinematografia”. Prosegue, e si intensifica, la collaborazione con la RAI per la realizzazione dei saggi di diploma degli allievi. A Ivrea viene istituito, in collaborazione con la Regione Piemonte e società private, l’Archivio del cinema d’impresa, destinato raccogliere film a carattere documentario e promozionale provenienti dagli archivi di industrie, agenzie di pubblicità, enti di stato, università e privati.  Nel 2012 a Francesco Alberoni succede Stefano Rulli e a questi, nel 2016, Felice Laudadio. Un evento importante di questi anni per la didattica è stato la riapertura nel 2013, dopo lunghi lavori, del Teatro 1, andato a fuoco nel 1987. Il teatro è stato ristrutturato completamente e ora comprende, oltre a un teatro di posa di dimensioni medie, uffici, aule e magazzini per la scuola. Molti sono stati, anche in anni recenti, i problemi che il Centro ha dovuto affrontare e superare. Nel 1975, dopo una battaglia annosa, i sindacati riescono a ottenere che il Centro non venga soppresso come ente “inutile” e venga invece incluso tra gli enti pubblici (enti parastatali), nel settore degli enti culturali e di promozione artistica. Nel 2010 invece il Centro viene inserito da un decreto-legge tra gli enti da sopprimere perché “inutili”, ma la mobilitazione del mondo della cultura e dello stesso Presidente della Repubblica scongiurano l’evento. Per finire, un decreto-legge del luglio 2012 (la cosiddetta “spending review”) inserisce il Centro tra gli enti da sopprimere: la sua attività formativa verrebbe svolta dal Ministero dei Beni Culturali, mentre la Cineteca Nazionale verrebbe accorpata a Istituto Luce-Cinecittà. Ma in sede di conversione del decreto il Parlamento stralcia la posizione del Centro e così l’istituto è salvo ancora una volta. Si spera per sempre.

CLINT EASTWOOD: I CONFLITTI DEGLI EROI COMUNI
di Roberto Baldassarre

«Le storie di guerra erano molto popolari quando ero ragazzo, sono cresciuto con l’immagine di Robert Taylor in Bataan (di Tay Garnett, ndr), e tutti gli altri film dell’epoca. Erano storie memorabili. Il conflitto è la base del dramma e la guerra è il conflitto per antonomasia».[1] Così Clint Eastwood rispondeva a una delle domande, di una delle molte interviste, riguardo al suo 35º lungometraggio, “American Sniper”. E quasi quarant’anni prima aveva dichiarato: «Mi piacciono gli eroi di oggi, con le loro debolezze, la loro mancanza di rettitudine morale e il loro tocco di cinismo»[2].

Clint Eastwood, nato a San Francisco il 31 maggio del 1930, ha esordito come attore, per poi passare, dal 1971, anche dietro la macchina da presa e trasformarsi, lentamente, in uno degli autori fondamentali del cinema, rappresentando un cantore dell’America profonda. Eastwood ha una variegata carriera registica, essendosi accostato a diversi generi, e i personaggi delle sue pellicole, molte volte interpretati da lui medesimo, si trovano sempre in un intricato conflitto (d’ambiente, relazionale, interiore) che li costringe a prendere delle sofferte decisioni. In questa sua voglia di esplorare i generi, per raccontare diverse sfaccettature del suo Paese, si è confrontato anche con il war-movie, realizzando ben cinque pellicole su differenti guerre, che hanno al centro americani comuni in pieno conflitto: “Firefox” (“Firefox – Volpe di fuoco”, 1982) “Heartbreak Ridge” (“Gunny”, 1986), “Flags of Our Fathers” (idem, 2006), “Letters from Iwo Jima” (“Lettera da Iwo Jima”, 2006) e “American Sniper” (idem, 2014). A questi cinque lungometraggi dentro la guerra si aggiungono tre postille “post-guerra”: “Gran Torino” (idem, 2008), “The 15:17 to Paris” (“Ore 15:17 – attacco al treno”, 2018) e “The Mule” (“Il Corriere – The Mule”, 2018).  

“Firefox”, tratto dall’omonimo romanzo di Craig Thomas, era più che altro un classico thriller spionistico con accentuazioni fantascientifiche, che un film di guerra nel senso stretto. Pellicola realizzata per meri motivi alimentari, e frutto della Guerra fredda che ancora vigeva in quegli anni, ritornata aspra con la politica del Presidente Reagan e la sua idea che l’Unione Sovietica fosse l’“Impero del male”, “Firefox” è un’opera abbastanza mediocre. Quello che interessa, di quest’opera, è notare come la guerra – vera – appaia come un ricordo traumatico nei momenti di crisi del protagonista Mitchell Gant, interpretato da Clint Eastwood.

“Firefox”

Il personaggio della vicenda, ex pilota d’aviazione militare abilissimo, è un veterano del Vietnam che fu catturato dai guerriglieri vietcong. La sua memoria frustrata non si focalizza sull’internamento subito in guerra, ma sull’immagine del volto di una bambina vietnamita arsa viva dai bombardamenti del napalm. Clint Eastwood non ha approfondito maggiormente quest’aspetto della guerra del Vietnam, essendo il film di altra argomentazione, e nemmeno realizzato, a tutt’oggi, un film su questa sporca guerra, però è interessante notare che in questo retrivo film propagandistico Eastwood, con una sola immagine, ha posto l’accento particolarmente sulla violenza dei soldati yankee durante il Vietnam War. Mitchell Gant è indubbiamente un eroe nazionale (riesce a rubare lo spettacolare aereo Firefox), benché tormentato dalle sue debolezze (il trauma di non aver salvato la bambina), ma alla fine questo personaggio di pura finzione non riesce ad avere dei pur minimi tratti di verosimiglianza con la gente ordinaria presente in altre pellicole di Eastwood.  
“Heartbreak Ridge” fu scritto da James Carabatsos, un ex veterano del Vietnam, che l’anno seguente sceneggerà anche “Hamburger Hill” (“Hamburger Hill – Collina 937”, 1987) di John Irvin. Opera nata ancora sotto la politica ultra patriottica di Ronald Reagan, e pregna di questi umori conservatori, “Gunny” scontentò molti. Il corpo dei Marine, che appoggiò logisticamente il film, a risultato finale lo rifiutò, non ritenendolo utile per una campagna propagandistica di arruolamento. Anche la critica si divise: la parte americana lo bocciò, mentre quella europea lo apprezzò. Sul fronte degli incassi, invece, fu uno dei maggiori successi di Clint Eastwood. Per tre quarti della durata “Gunny” è una pellicola militaresca, con deviazioni private verso un conflittuale rapporto uomo-donna (Gunny vs l’ex moglie Aggie), e nella coda finale si trasforma in un film di guerra tout court. Il protagonista rappresenta il tipico militare coriaceo e patriottico, che sfoggia la sua meritata medaglia del congresso, ma è un eroe pieno di difetti e con pochissima morale, e nel film viene descritto, con l’interpretazione di Eastwood che amplifica questi aspetti, quasi come una parodia di suddetti personaggi. Il titolo originale fa riferimento alla sanguinosa battaglia di Heartbreak Ridge, combattuta dal 13 settembre al 15 ottobre del 1951, a cui partecipò anche il fittizio protagonista, e la pellicola si apre, durante i titoli di testa, appunto con immagini di repertorio della Guerra di Corea. La maggior parte delle scene sono ambientate nel campo di addestramento, in cui Thomas “Gunny” Highway sferza con un linguaggio coprolalico e sfiancanti addestramenti gli sfaticati marine. Queste scene anticipano, per certi versi, quelle in cui il Sergente Maggiore Hartman (R. Lee Ermey) “flagella” verbalmente le reclute in “Full Metal Jacket” (idem, 1987) di Stanley Kubrick. La differenza è che il personaggio di Gunny e le reclute sono più scanzonati, e fu proprio questo, cioè la “comicità” scatologica (e omofobica) dei dialoghi, l’elemento che incrementò il successo del film, e non l’argomento militaresco (o la riflessione sui conflitti di coppia).

“Gunny”

Non a caso il film è zeppo di battute sconce (da caserma) facili da memorizzare e ripetere a mo’ di citazione cinefila. Tra le molte battute, è illuminante quella proferita, durante un’esercitazione, dal caporale Fragetti (Vincent Irizarry): «Quando mi sono arruolato nei marines, mi credevo che si trattasse di ammazzare i nemici… che ne so, di saltare da un elicottero». Una visione distorta di un giovane che si è formato attraverso il cinema d’azione americano, che gli importa poco della propria patria e vuole esprimere solamente il suo machismo. Come si era scritto poc’anzi, nella parte finale il film si trasforma in un war-movie, e viene ricreata cinematograficamente una delle battaglie svoltasi sull’isola di Grenada durante l’operazione militare Urgent Fury. Questa manovra, svoltasi il 25 ottobre 1983, non fu ben accolta dall’ONU, e su molti fatti avvenuti durante questo attacco non ci sono molte informazioni corrette. “Gunny” rientra ampiamente nelle esternazioni rilasciate da Eastwood nelle due interviste (conflitto ed eroe comune imperfetto), però diviene un oggetto estraneo: patriottico ma allo stesso tempo beffardo verso queste rappresentazioni. Eastwood non muove critiche verso le guerre (Corea, Vietnam e Grenada), non le analizza e preferisce soltanto mostrarle nelle loro crudezze – e amenità –. Quello che gli interessa maggiormente è questo coriaceo eroe, specchio di una certa America profonda, che dietro i suoi difetti e conflitti nasconde una granitica etica: salvare i propri compagni.

Nel 2006, con il dittico “Flags of Our Fathers” e “Letters from Iwo Jima”, Clint Eastwood narra la Seconda Guerra Mondiale, focalizzandosi sulla furente battaglia di Iwo Jima (19 febbraio-26 marzo 1945) e rappresentandola e analizzandola da entrambi i fronti. Il tema che accomuna le due opere è quello che si nasconde dietro la lucente propaganda militare, che occulta la violenza e il dolore di chi ha partecipato ed è morto per una cieca idea patriottica del Potere. Ambedue le pellicole hanno avuto eccellenti recensioni e ottimi riscontri di pubblico, soprattutto la seconda. “Flags of Our Fathers”, tratto dall’omonimo romanzo di James Bradley e Ron Powers, e sceneggiato da Williams Broyles e Paul Haggis, è la visione della guerra da parte del contingente americano. Il perno di questa prima parte è la celeberrima fotografia che ritrae cinque marines che issano la bandiera americana sul monte Suribachi, dopo la battaglia.

Attraverso il flashback, scaturito dalle ricerche del figlio di uno dei protagonisti di quell’innalzamento, veniamo a scoprire che quell’atto propagandistico, spacciato come conferma della vittoria americana, fu scattata il quinto giorno sui quaranta totali. In pratica, era stato solamente un atto simbolico super pubblicizzato per dare coraggio e speranza a tutti i soldati e la gente comune rimasta in America. Con “Flags of Our Fathers” Eastwood prende una posizione ferma, e condanna la guerra e la mistificante propaganda che ruota intorno ad essa. Dietro uno stile registico classico (che prende spunto anche da un classico come “Bataan”), il regista mostra tutta la violenza che può avere una battaglia, con scene che rievocano quelle iniziali di “Saving Private Ryan” (“Salvate il soldato Ryan”, 1998) di Steven Spielberg. Uno dei soldati dice: «Quello che vediamo e facciamo in guerra, la crudeltà, è incredibile. Ma in qualche modo dobbiamo farcene una ragione e per fare questo occorre che la verità sia resa semplice e con pochissime parole.» Parole che descrivono bene tutti i personaggi di Eastwood che si ritrovano nel mezzo di una guerra, e devono prendere una decisione. “Flags of Our Fathers”, come rileva il titolo, è una storia piena di piccoli eroi comuni, gente andata in guerra per amor di patria o costretta dal Governo, e su questi personaggi ordinari catapultati dentro un sanguinoso conflitto, Eastwood non muove critiche, il disprezzo lo riversa solo per le gerarchie militari e lo Stato.  

“Letters from Iwo Jima” è il controcampo di “Flags of Our Fathers”, ed è tratto dal libro Picture Letters from Commander in Chief di Tadamichi Kuribayashi, e sceneggiato da Iris Yamashita e Paul Haggis. Come nella precedente opera, attraverso la rievocazione (lì una foto, qui delle lettere rinvenute sull’isola) Eastwood svela nuovamente le bugie della propaganda, e scandaglia questa battaglia dal punto di vista della gente comune che si è trovata a combattere questa guerra assurda.

A differenza di “Flags of Our Fathers”, però, la rievocazione di Iwo Jima diviene una “visione” prettamente privata, vista attraverso il Generale Kuribayashi (Distretto di Hanishina 7 luglio 1891 – Iwo Jima 26 marzo 1945). Il Generale, eroe decorato, viene inizialmente accolto come un militare dall’animo umano, per poi palesarsi come un patriota disposto a morire – e far immolare i suoi soldati – per amore della patria. Solo per un momento ha un sussulto di umanità: «Ho promesso a me stesso di combattere fino alla morte per la mia famiglia, ma pensare a loro mi rende difficile mantenere la promessa». Anche in questa parte Eastwood non lesina la violenza, mostrando quanto possibile la crudeltà della guerra.

“Gran Torino”, interpretato da Eastwood medesimo, e sceneggiato dal giovane Nick Schenk, rientra in questo gruppetto di pellicole war-movie perché il personaggio è un veterano della Guerra di Corea. Come “Heartbreak Ridge”, seppure la tematica sia seria, lo svolgimento avviene attraverso toni da commedia, come ad esempio le “scenette” coprolaliche dal barbiere italiano.

“Gran Torino”

Nel descrivere il personaggio, Eastwood lo ha così delineato: «Interpreto un tipo strano. Un vero razzista… Ma ha anche una redenzione. Questa famiglia asiatica si trasferisce nella casa accanto; lui ha combattuto nella guerra di Corea, nella fanteria, e guarda agli asiatici come a una massa indistinta. Ma loro lo aiutano nel momento del bisogno, perché lui non ha un rapporto con la sua famiglia»[3]. Kowalski è corroso da un profondo senso di colpa, cioè aver ucciso in guerra. Come dice al giovane Thao, prima di immolarsi come Cristo: «Vuoi sapere cosa si prova a uccidere un uomo? Beh, ci si sente di merda, se t’interessa. E ancora peggio a prendere una medaglia al valore per aver ucciso un poveraccio che voleva solo arrendersi e vivere. Esatto, un piccolo muso giallo spaventato come te, gli ho sparato dritto in faccia proprio con il fucile che avevi in mano poco fa. Non c’è giorno che passa senza che ci pensi». Kowalski, tipico personaggio comune dell’America profonda, è stato un eroe – a suo malgrado – per la patria, e diviene vero eroe sacrificandosi per della gente comune di un’etnia differente. A differenza di “Gunny” e del successivo cecchino Chris Kyle, ha un profondo ripensamento di quello che ha fatto in guerra. Gli onori patriottici adesso lo disgustano (la medaglia è gettata dentro un baule assieme ad altri cimeli). Il conflitto di Kowalski è con i fantasmi del passato.

“American Sniper” doveva essere diretto inizialmente da David O’Russell (regista di “Three Kings”, del 1999), poi passò nelle mani di Steven Spielberg e infine in quelle di Clint Eastwood. Tratto dall’omonima autobiografia Chris Kyle, la pellicola venne accolta con delle buone recensioni, raccogliendo anche un grandissimo successo di pubblico, ma allo stesso tempo aveva attirato su di sé diverse critiche negative (per la realizzazione) e giudizi ostili per com’era stata rappresentata la guerra in Iraq e descritto il protagonista, che ammantavano la pellicola di cieco patriottismo. Tali disapprovazioni erano dettate sia da una forte differenza con pellicole critiche come “Redacted” (idem, 2007) di Brian De Palma oppure “The Hurt Locker” (idem, 2008) e “Zero Dark Thirty” (idem, 2012) ambedue di Kathryn Bigelow, e sia dalla profonda differenza critica che Eastwood aveva attuato con il precedente dittico su Iwo Jima. Quello che traspare, e su cui si sono mossi i più aspri giudizi, è un atteggiamento reazionario e manicheo: americani buoni, musulmani cattivi. Oltre ciò, la sceneggiatura depura ulteriormente l’autobiografia di Kyle, trasformando il protagonista in un soldato modello ligio alla bandiera. Alcuni suoi commenti nel film rimangono sprezzanti, ma sono stati spazzati via i commenti più razzisti che erano presenti nel libro, come per esempio: «Non ho combattuto neppure una volta per gli iracheni. Degli iracheni non mi frega un cazzo!» oppure «Maledetti selvaggi», riferito ai mussulmani. Tolte queste opinioni, “American Sniper” è certamente un War-Movie, ma sarebbe meglio incasellarlo come un biopic, essendo incentrato sulla figura di Chris Kyle.

“American Sniper”

Questo ragazzone comune della profonda America, cresciuto con il motto Dio-Patria-Famiglia (e indottrinato dal padre che nel mondo esistono: pecore, lupi e cani da pastore), si è trasformato in un (super)eroe di guerra, rientrando in qui paladini carichi di difetti, con poca morale con rivoli di cinismo che tanto apprezza Eastwood. Oltre a ciò il copione di Jason Hall permetteva al regista di affrontare due tipi di conflitti: la guerra e la lotta interiore di Kyle. La rievocazione della guerra in Iraq viene mostrata, come nel precedente dittico, con molti episodi cruenti, seppure sono amplificati solo gli atti sanguinari dei mussulmani (ad esempio attraverso il personaggio de “il macellaio”) rispetto a quelli del contingente americano (tutti giusti e democratici). I conflitti interiori di Kyle sono esternati attraverso i suoi ritorni a casa, e dall’illuminante colloquio con lo psicologo: «[…]Io sono pronto a incontrare il Creatore e rispondere di ogni singolo sparo. La cosa che mi tormenta sono quelli che non ho salvato». Chris Kyle non ha nessun rimorso di aver ucciso delle persone, a differenza di Walter Kowalski, ma si trincera sul fatto di non aver salvato i suoi compagni, proprio come fa un cane da pastore con le sue pecore. La pellicola si chiude con le immagini vere del funerale di Kyle, che suggellano l’omaggio – per nulla critico – verso questa figura di eroe comune americano.

“The 15:17 to Paris”, tratto dal libro The 15:17 to Paris: The True Story of a Terrorist, a Train, and Three American Heroes scritto da Jeffrey E. Stern, Spencer Stone, Anthony Sadler, e Alek Skarlatos, e sceneggiato da Dorothy Blyskal, racconta di altri eroi comuni dell’America profonda. I tre giovani protagonisti sono amici di lunga data, due sono militari (Alek e Anthony) mentre il terzo, Spencer, si allena per diventare anche lui un soldato. Non è un war-movie, seppure ambientato in pieno periodo di conflitto terroristico, ma una pellicola rievocativa/commemorativa declinata nella forma di un action, che culmina nella ricostruzione del tentativo di attacco terroristico sul treno diretto a Parigi. Al suo interno, però, alcune caratteristiche di un film di guerra (scene di addestramento, qualche squarcio del contingente in Afghanistan, lo spettro del terrorismo). La pellicola ripercorre la vita di questi tre comuni individui, come accadeva già in “American Sniper”, che oltre a combattere i propri conflitti (dall’infanzia all’età adulta) si ritrovano in un “conflitto di guerra”, cioè la neutralizzazione di un attacco terroristico. Anche in questo caso le scene finali sono vere, e sono quelle delle onorificenze insignite da François Hollande ai giovani eroi. Quello che interessa maggiormente di questo film, però, è come la distanza tra la realtà e la finzione si sia assottigliata nel cinema di Eastwood, perché i personaggi del film sono interpretati dagli stessi tre ragazzi della vicenda reale. Questa pellicola, quindi, è come se andasse a chiudere un ideale trittico su i piccoli comuni eroi americani dei nostri giorni, cioè dopo American Sniper (che si chiude con le vere immagini del funerale di Kyle) e “Sully” (che durante i titoli di coda ci mostra il vero Sully con i passeggeri scampati alla tragedia)

“The Mule”, 38º lungometraggio di Clint Eastwood, è stato accolto entusiasticamente soprattutto per il ritorno davanti alla macchina da presa dell’autore. Tratto da una storia vera, cioè l’arresto del quasi novantenne Leo Sharp, che per sopravvivere si era trasformato in corriere della droga, è un biopic “romanzato”, avendo colto solo alcuni aspetti della vicenda reale e cambiando il nome del protagonista in Earl Stone. Sceneggiato da Nick Schenk, già autore dello script di “Gran Torino”,

“The Mule”

“The Mule” ne è quasi il corrispettivo, perché ambedue i protagonisti sono degli ex reduci della Guerra di Corea, entrambi sono stati insigniti con una decorazione al valore (Leo Sharp venne decorato con una medaglia di bronzo per il servizio reso nella Campagna d’Italia nella Seconda guerra mondiale), ma sono caratterialmente differenti. Earl Stone, a differenza di Kowalski, ha un carattere più spiritoso (le battute con i trafficanti di droga) e affettuoso (il suo delicato atteggiamento al capezzale della moglie morente). Il suo conflitto non è con l’oscuro passato della guerra (la Corea si legge solo sulla targa della sua macchina o tramite le sue visite al centro ricreativo di ex reduci), ma solamente con la moglie e la figlia, con cui non riesce a comunicare veramente. Seppure Stone cada – volontariamente – nelle spire dell’errore, trasformandosi in un corriere della droga, il suo agire è solo un modo per restare a galla, non avendo aiuti da parte dello stato dopo che gli era stata pignorata la rinomata attività di floricultore. Il personaggio di Earl Stone per Clint Eastwood, alla fine, è un piccolo eroe americano (una vera “pietra”), in particolar modo quando rischia la sua vita restando al capezzale della moglie mentre i trafficanti lo cercano per la mancata consegna di una grossa partita di droga. La guerra di Stone, e quindi di Clint Eastwood, è contro la realtà che lo circonda, con la mancanza di giuste politiche sociali per gli anziani, che non concedono altre soluzioni se non quella di prestarsi a un losco affare per sopravvivere. 


[1] Clint Eastwood in ‘L’inutile lezione della guerra’, intervista a cura di Luca Celada, in Il Manifesto, 18 dicembre 2014.

[2]  Clint Eastwood in ‘The Eastwood Direction’, intervista a cura di Richard Thompson e Tim Hunter, in Film Comment, a. XIV, n. 1, 1978,

[3] Clint Eastwood in ‘So Clint Eastwood is a racist (in Gran Torino) after all’, intervista a cura di Alex Billington, in First Showing, 10 ottobre 2008.

INTERVISTE

INCONTRO CON KRZYSZTOF ZANUSSI
di Roberto Baldassarre

In occasione di una retrospettiva dedicata al cinema polacco, al Festival Ciakpolska, abbiamo avuto l’occasione di incontrare il regista Krzysztof Zanussi, uno dei maggiori e pluripremiati autori polacchi. La retrospettiva era intitolata “Krzysztof Zanussi – Viaggio in Italia”, e (ri)presentava al pubblico sei opere che mostravano la qualità e la diversificazione del suo cinema, oltre a un forte legame con il nostro Paese. Tra queste c’era anche la sua ultima regia, “Corpo estraneo”, che veniva presentata in anteprima. Pellicola, tra l’altro, che ha subito duri attacchi da parte delle frange estremiste delle femministe.

L’ incontro è avvenuto in occasione di un confronto con gli studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia, dopo la proiezione de “La struttura del cristallo”, suo esordio nel lungometraggio cinematografico. Qui gli abbiamo posto alcune domande.
In una intervista rilasciata a Paolo D’Agostini nel lontano dicembre 1979, diceva che aveva realizzato “La struttura del cristallo” seguendo il suo gusto personale, non dando gran peso al pubblico. A quel tempo, cioè durante il suo esordio nel 1969, presagiva che sarebbe stato nel cinema un regista marginale? Ne è ancora convinto?

Si, però a quell’epoca c’era la possibilità di fare un cinema che non raccogliesse un’ampia audience. Anche oggi lo facciamo, però non abbiamo più il desiderio di allora, perché è difficilissimo trovare un qualsiasi pubblico oggi per un film un serio e originale. Oggi la situazione si è molto deteriorata, rispetto agli anni ’60, dove c’era un maggior interesse e c’era una vera concorrenza da parte della televisione. Inoltre, la società era molto più verticale di oggi.

Sempre restando intorno al su primo lungometraggio, giocando con il termine cristallo, a me sembra che il suo cinema, sia un po’ come il cristallo, cioè prezioso, resistente e fragile. Prezioso perché sempre ricercato; resistente nella struttura esterna, nel senso che è sempre un cinema forte, che lotta sempre; fragile, invece, al suo e il suo interno, nelle trame intimiste. Potrebbe essere d’accordo con questa definizione?

Sono d’accordo, con quasi tutte queste definizioni, perché mi lusinga se qualcuno mi caratterizza, e queste sono particolarmente una bella caratteristica, e spero che sia adeguata, perché non posso dire esserne convinto pienamente, perché sarei poco modesto.

Lei ha un forte legame con l’Italia, un legame che le proviene già dalle origini. Si è poi protratto attraverso diversi viaggi nel nostro paese e alla partecipazione a diversi Festival, iniziando con Bergamo, poi Pesaro e successivamente Venezia. Adesso, ad esempio, “Corpo estraneo” è una co-produzione italiana. Le chiedo, gentilmente, un’opinione sulla società italiana, se lei ha visto delle differenze in questi anni.

Per me l’Italia è soprattutto un riferimento culturale, perché l’Italia è un paese chiave, è un ponte con l’antichità.  Questo per me rimane un fattore molto importante, perché provengo da un paese che era un paese barbaro, che solamente da mille anni è divenuto cristiano. Quindi è naturale questo riferimento per qualsiasi europeo, perché l’Europa fa riferimento a l’Italia, non essendoci altro paese con una storia così lunga e che ha influito molto. Poi c’è un mio profondo sentimento personale, per la questione dei miei antenati. I polacchi si definiscono sempre per i latini del Nord, è la nostra ispirazione (sorride). Certi aspetti negativi, mi riferisco al casinismo italiano, ci da un po’ di coraggio, perché se l’Italia con tutti questo caos è capace di vivere così bene, ci auguriamo che anche noi possiamo sopravvivere bene.

Il Festival Ciakpolska ha permesso a noi, soprattutto a Roma, di vedere come la cinematografia polacca produce attivamente. Quest’anno, ad esempio, il Premio Oscar al miglior film straniero è andato a “Ida”. Lei che conosce profondamente la cinematografia del suo paese, ritiene che sia effettivamente così, viva e forte?

Credo che il cinema polacco prosperi da molti anni, cioè aiuta la nostra nazione. Le statistiche indicano alte frequentazioni dei cinema. In Polonia è prassi parlare male del cinema polacco, però gli spettatori frequentano le sale. Questo è importante… (sorride beffardo), perché la gente è curiosa di vedere i film nella nostra lingua, perché da noi non esiste il doppiaggio, e i film stranieri sono proiettati con sottotitoli. I nostri spettatori vogliono vedere i paesaggi polacchi, i problemi polacchi… ovviamente vedono soprattutto pellicole più commerciali, però anche i film abbastanza ambiziosi ottengono un certo successo, non siamo in crisi.

La vecchia generazione dei cineasti polacchi (Zanussi interviene dicendo con un sorriso molto allegro: “Noi dinosauri”) riesce ancora a stupire e soprattutto a colpire duro con i loro film. Tralasciando Polanski, in queste ultime stagioni abbiamo visto il ritorno di Wajda con “Walesa”, Skolimowski che ha meravigliato a Venezia, Zulawski che ha fatto “Cosmos”, e Lei che con “Corpo estraneo” ha scandalizzato la Polonia. Mi sembra che Voi “anziani” adesso sembrate molto più “giovani turchi” dei giovani cineasti di oggi. Questo essere rivoluzionari è dovuta anche al fatto del cambio politico che c’è stato in Polonia, di aver vissuto il cambio politico?

Credo che nell’età avanzata uno diventa o accademico o un ribelle, e conosciamo già tutti i pericoli e il prezzo che si devono pagare per la ribellione. Perché la ribellione ci permette anche un sentimento utile, perché conferma una reazione forte, e Wajda, che adesso ha quasi novant’anni, sta girando un film serio, problematico, duro, sullo stalinismo, su che cosa abbiamo vissuto tutti, però che non avevamo ancora giudicato per come doveva essere giudicato veramente. Così vedo che i miei colleghi hanno ancora molto da dire, e cercano, allo stesso tempo di provocare i nostri colleghi giovani, che seppure molti realizzano film di valore e importanti, ci sono altri che sono dei conformisti. Si, anche tra i giovani la percentuale dei conformisti è uguale a quella degli artisti di età avanzata.

Nel 1981 realizzò “Da un paese lontano”, un film su Giovanni Paolo II. Lo realizzò non solo perché proveniva dal suo paese, ma anche per un nuovo messaggio che portava al cattolicesimo. Adesso abbiamo Papa Francesco, che proviene ugualmente da un paese lontano, ed è ugualmente un Papa molto amato. Lei crede che sia riuscito ad andare anche oltre la vicinanza di Papa Giovanni? E per caso ha pensato di realizzarne un biopic?

Al momento nessuno me lo ha proposto, e un film biografico non è nelle mie corde, perché c’è sempre una grande limitazione, e si entra in concorrenza con il personaggio reale. Ho sofferto molto di non poter raccontare il vero Wojtyla, perché Wojtyla era sugli schermi dei televisori ogni settimana. Quindi questo limita molto l’artista, ed è molto più facile realizzare un film biografico su un personaggio defunto. Invece credo che Papa Francesco ha trovato un qualcosa di nuovo. Ha carisma nel comunicare con la gente, non in una maniera intellettuale, ma in maniera emotiva, molto diretta e semplice. Ovviamente, questo dovrebbe fare ogni Papa, cioè ricordare le origini del cristianesimo, e allontanarsi da quelle forme e strutture ecclesiastiche che oggi scandalizzano molti.  … E ci sono buoni motivi per scandalizzarsi.

Dal film “Da un paese lontano”

Lei ha esordito alla regia, come molti suoi colleghi, attraverso la realizzazione di film per la televisione. Oggi le opere per la televisione stanno sorpassando quelle cinematografiche in qualità, secondo molti critici. Penso soprattutto ai Serial americani. Cosa ne pensa?

Un momento, facciamo delle differenze, perché c’è un equivoco. I serial non possono portare nessun valore culturale profondo. Serial significa una storia senza fine, cioè sit-com o… tipo dei film che non hanno una fine. Invece un film in “pezzi”, che si realizza come un romanzo suddiviso in parecchi volumi, rimane una storia dal racconto chiuso e compiuto. È questo che ultimamente sta facendo l’HBO, in modo straordinario. Da più libertà ai suoi sceneggiatori, e crea qualcosa a mezza strada tra il commerciale e l’ambizioso. Questa è una grande speranza per il cinema. Io non vi parteciperei, ma guardo queste produzioni con grande interesse.

Sono passati 40 anni dalla morte di Pasolini, Lei ha un ricordo, un’opinione su di Lui? Se l’ha ispirata qualche volta…

Mi hanno molto impressionato la sua vita e le sue poesie, non solamente le pellicole, però non tutte mi sono piaciute, soprattutto le ultime. Era un uomo indipendente, originale, molto forte e rimarrà sempre nella cultura, non solo nel cinema. Sono pochi gli intellettuali che hanno rischiato tanto come ha rischiato Pasolini, che nel ’68 aveva coraggio di dire delle cose molto politiche.

Nel suo film “Cammini della notte” (“Wege in der Nacht”, 1979) un personaggio proponeva la tesi secondo cui la guerra è una liberazione perfetta. Una situazione nella quale si può essere finalmente spontanei senza più limiti, che significa aggressivi. In definitiva ammazzare tutti quelli che non ci piacciono?

Credo di si, perché ho creato questa provocazione intellettuale che risiede nel protagonista, ed è d’ispirazione nietzschiana. È un nietzianismo veramente pericoloso, che oggi si mostra anche negli atti di terrorismo. Ciò lo trovo molto pericoloso, però è legato a questo culto assurdo della libertà, senza responsabilità, e a un tipo di nichilismo che adesso è molto popolare. Quindi la reazione è quello che vediamo. Quando c’è il vuoto, il male realizza il suo giudizio.

In questi giorni Lei è presente a Roma per la retrospettiva che Ciakpolska gli dedica, e presenterà “Corpo estraneo” che è la sua ultima fatica. In Polonia non è stata ben accettata dalla censura, può parlarci del film?

Sono stato attaccato da una frangia di femministe estremiste, che dicevano che questo film non doveva essere girato. Hanno tentato di bloccare i fondi statali, dicendo che il protagonista, che nel mio film è un personaggio sofferente e negativo, doveva essere mostrato come frutto della cultura di oggi, perché è una persona completamente orientata alla carriera e non verso la famiglia. Che non ha scrupoli, e cioè è il peggiore di tutti gli uomini.

Qualche giorno fa ci sono stati gli attentati in Francia. Considerando il cinema come urna della memoria, vorrebbe citare una pellicola parigina che le pare ottima per ricordare la città?

Io tornerei ai film di René Clair. Sfortunatamente la sua memoria è stata “uccisa” dalla Nouvelle Vague. Questo non è giusto, perché io sono un ammiratore della Nouvelle Vague, ma anche di René Clair, con il suo populismo gentile, colto e delicato, con un’attenzione tenera verso l’uomo semplice, al parigino medio. Era stato un regista che voleva dare qualcosa al popolo, e questo è un merito. Per omaggiare Parigi in questo oscuro momento… scelgo “Sous les toits de Paris” (“Sotto i tetti di Parigi”, 1930), perché è un film che mi piacerebbe vedere in un momento così triste.

NUOVO IMAIE INCONTRA I REGISTI – “I DIRITTI DEGLI ARTISTI”:
INTERVISTA AL PRESIDENTE ANDREA MICCICHÈ 
di Maurizio Villani

Una delle iniziative collaterali, previste nel ricco programma di CORTINAMETRAGGIO 2019, è stato l’incontro, presso il Grand Hotel Savoia, intitolato NUOVO IMAIE INCONTRA I REGISTI – “I DIRITTI DEGLI ARTISTI”.

NUOVO IMAIE, acronimo di Istituto mutualistico artisti interpreti o esecutori, è un organismo di gestione collettiva che gestisce e tutela i diritti maturati dagli artisti, interpreti o esecutori del settore audiovisivo e musicale, amministrando e ripartendo il cosiddetto “equo compenso” dovuto ai suoi rappresentati per la pubblica diffusione, comunicazione, trasmissione e riutilizzazione delle registrazioni fonografiche da essi eseguite e delle opere cinematografiche o assimilate da essi interpretate.

L’Istituto, tra le molte sue competenze, è al fianco degli artisti anche nella realizzazione di progetti di produzioni e distribuzione di lungometraggi e cortometraggi, “grazie allo stanziamento di fondi per lo studio, la ricerca, la formazione, il sostegno professionale e la promozione, (…) contribuendo alla realizzazione di opere che diano nuova linfa al mercato musicale e audiovisivo e di conseguenza alla cultura del nostro paese”.

Protagonista dell’incontro cortinese è stato l’attuale presidente dell’Istituto, Andrea Miccichè, che nella conferenza illustrativa delle funzioni e delle finalità del NUOVO IMAIE ha, in particolare, dato conto delle opportunità di finanziamento cui possono accedere giovani registi per la produzione di cortometraggi.

Su questo argomento gli abbiamo rivolto alcune brevi domande.

ANDREA MICCICHÈ

Come prima domanda le chiedo se può riassumere in breve quali sono per l’anno in corso gli stanziamenti finanziari che NUOVO IMAIE ha deliberato per il settore cinema.

La disponibilità complessiva di fondi, messa a bilancio nel 2019 per sostenere la categoria, dare aiuti economici agli artisti in difficoltà e favorire la produzione cinematografica è stata di 5.000.000 euro. Di questi, 2.000.000 sono stati destinati al finanziamento della produzione di lungometraggi e cortometraggi. A ciò si aggiungono altri 2.500.000 euro, ottenuti da prestiti bancari e destinati a opere cinematografiche selezionate.

La domanda che le pongo riguarda le procedure più efficaci da seguire per ottenere i finanziamenti per la produzione di cortometraggi. Come ben comprende è un tema che interessa particolarmente i nostri soci FEDIC, interessati ad accedere a queste agevolazioni finanziarie per la realizzazione delle loro opere.

Quanto al sostegno specifico alla produzione di corti, ricordo agli interessati che quest’anno è stato deciso un finanziamento complessivo di 500.000 euro, da destinarsi a 25 cortometraggi per un contributo di 20.000 euro cadauno. È previsto anche un apporto più modesto, di 29.000 euro, parte dell’avanzo del Fondo “Nelle Tue mani 2018”, da destinare alla distribuzione degli stessi, in modo da aiutare gli autori dei cortometraggi a presentare le domande ai festival. Per poter accede a questi finanziamenti il primo consiglio che dò è quello di andare a consultare il nostro sito, laddove sono pubblicati tutti i bandi, quello del teatro, quello del lungo e del cortometraggio. (http://www.nuovoimaie.it/wp-content/uploads/2018/07/Bando-Art-7-video-cortometraggi.pdf). L’unica richiesta importante che facciamo è che i partecipanti al cortometraggio devono essere attori iscritti all’Istituto. Se, per caso, il richiedente non sapesse quali siano gli attori da poter scegliere, è sufficiente che vada a vedere l’elenco degli attori, pubblicato sul nostro sito. Tenga conto che gli artisti italiani iscritti da noi sono oltre 11.000, di cui 6.000 attori e 5.000 musicisti. Abbiamo i più importanti attori italiani, ma anche giovanissimi all’inizio di carriera.

Se gli attori che partecipano al cortometraggio non fossero iscritti a NUOVOIMAIE devono passare attraverso l’iscrizione.

Sì certo. Se non lo fossero c’è la possibilità di potersi iscrivere. La richiesta è che siano iscritti all’Istituto al momento della presentazione della domanda. Ma non ci si iscrive all’Istituto solo per richiedere finanziamenti, ma anche per poter accedere a tutti i servizi che l’Istituto riserva ai propri associati.

Nell’anno 2019 i termini per la presentazione delle domande è scaduto il 19 aprile, per cui sarà necessario seguire sul sito la pubblicazione del bando per il prossimo anno. L’anno scorso quante domande di contributi avete ricevuto, per capire la proporzione tre le richieste invitate e i finanziamenti concessi?

L’anno scorso c’era un bando diverso. I cortometraggi che ricevettero un finanziamento furono 316 e la somma elargita era di 8.000 euroa corto. Non ricordo esattamente il numero delle richieste pervenute: mi pare dalle 1000 alle 1200 per cui il rapporto è stato di uno a tre o di uno a quattro. Quest’anno ci sono delle maglie più strette, perché chiediamo che tutti gli attori siano iscritti all’Istituto. Mi aspetto un numero di corti inferiore a quelli dello scorso anno. Se le domande sono, come mi aspetto, da duecento a trecento, i corti destinatari dei finanziamenti sono 25, si capisce qual è il rapporto. Se dovessi fare una previsione, direi che mi aspetto un rapporto di uno a dieci o uno a quindici.

FEDIC, LE PERSONE E I FATTI

FILMMAKER ALLA RIBALTA: ANDREA E MATTEO COSSI
di Paolo Micalizzi

Matteo CossiAndrea Cossi

Siamo due fratelli gemelli nati a Pisa, classe 1986, autori poliedrici, produttori, registi cinematogra- fici e operatori di macchina da presa e del suono nonché montatori, sceneggiatori e scrittori, sound designers e compositori di canzoni e colonne sonore. Essere cresciuti in un luogo così magico come l’Italia, tra le meraviglie artistiche di una realtà che ha dato i natali a Leonardo da Vinci, Dante Ali- ghieri, Monteverdi e artisti della settima arte come Federico Fellini, Dante Ferretti e Anna Magnani, ci ha sicuramente aiutato e ispirato.
Sin da bambini amavamo creare storie e suoni. Essere gemelli, se da un lato ci ha aiutato a non sen- tirci mai soli, dall’altro ci ha sempre obbligato a interfacciarci con qualcun altro per spiegare i nostri giochi, le nostre idee e i nostri mondi fantastici. Con il passare del tempo ci siamo specializzati a “creare insieme”.
Da creare per gioco a creare per davvero è stato un salto relativamente breve, componendo musiche, scrivendo romanzi o girando film. La nostra innata curiosità ha poi fatto il resto, spingendoci a viaggiare e ad arricchire il nostro bagaglio di conoscenze.
Durante i nostri studi universitari, che erano soprattutto teorici, abbiamo frequentato il corso di re- gia della Scuola Nazionale di Cinema Indipendente a Firenze e conseguito una qualifica riconosciu- ta a livello europeo di operatore e montatore video.
Nel 2012, dopo la laurea in Discipline dello Spettacolo e della Comunicazione, abbiamo studiato alla New York Film Academy di New York, diplomandoci in Filmmaking e apprendendo le tecniche americane. Durante la permanenza negli Stati Uniti, abbiamo lavorato collaborando alla realizza- zione di progetti video e interviste a personaggi importanti.

Andrea Cossi e Matteo Cossi a New York City.

Negli ultimi tre anni abbiamo vissuto tra l’Italia e l’Inghilterra, allargando i nostri orizzonti nel campo della cinematografia, partecipando a molteplici progetti e ricoprendo altrettanti ruoli.
Fare film, come quasi tutte le cose, comporta un costante apprendimento e una continua specializ- zazione, pertanto ci teniamo sempre aggiornati seguendo corsi di alta formazione e viaggiando al- lʼestero. Abbiamo frequentato corsi in scuole come il Centro Sperimentale di Cinematografia, la Scuola di Alta Formazione per sceneggiatori cinetelevisivi in Italia e la National Film and Televi- sion School in Inghilterra.
Un consiglio che potremmo dare a chi inizia questo percorso è sicuramente quello di avere tanta pazienza e forza di volontà. A ciò si aggiunga un’enorme passione per il cinema, tale da supportarlo negli immancabili momenti di difficoltà.
Tra le caratteristiche che non possono mancare sono lʼavere fame di cultura e allo stesso tempo es- sere aperti mentalmente. Questo potrà permettere di spingersi oltre i propri limiti, di fare nuove esperienze e rafforzare le capacità comunicative e relazionali. Non dimentichiamoci mai che il cinema è soprattutto un prodotto altamente collaborativo.
Ultimo ma non meno importante, il consiglio di non farsi controllare dalla tecnologia e di non te- merla, ma al contrario vederla come uno strumento per esplorare nuove soluzioni creative e per vei- colare il proprio messaggio.
Non temere di sperimentare ci ha permesso di unire la tecnologia degli ultimi stabilizzatori di im- magini al sistema steady-cam e di realizzare parte delle riprese del cortometraggio Respira di Lasz- lo Barbo, opera che ha concorso ai Premi David di Donatello 2018.
Questo sistema di ripresa è lo stesso che abbiamo scelto per il video My way, my Triumph la cui re- gia è stata curata da Valentina Vincenzini e che abbiamo realizzato per la Brigata Bonnisti.

I due registi, Andrea Cossi e Matteo Cossi, al Forum FEDIC di Venezia 2018

Abbiamo potuto riprendere facilmente decine di moto Triumph a Roma e dintorni. Anche il video musicale Cederai alla luna, di cui abbiamo curato la regia e la direzione della foto- grafia e le cui riprese dovevano essere realizzate in una sola notte, ha usufruito di questa tecnologia. Si pensi che abbiamo usato steadycam, crane e teste remotate con una troupe composta da pochis- sime persone. La profonda comprensione dei tempi, della lista delle inquadrature e dei ruoli di pro- duzione ci ha permesso di finire il progetto nei tempi prestabiliti.
Altra collaborazione fruttuosa è stata quella con lʼANPAS per il cortometraggio Iʼm here, opera se- lezionata in diversi festival, che affronta il tema delicato del passaggio tra la vita e la morte. Le sce- ne hanno visto la partecipazione di medici, paramedici e volontari dellʼANPAS che, pur non essen- do attori professionisti, si sono prodigati per la buona riuscita del progetto.
Crediamo fortemente che lʼarte possa veicolare meglio di qualsiasi altro mezzo messaggi importan- ti, soprattutto tra i giovani. Lʼarte parla direttamente al subconscio di ognuno di noi, suscitando emozioni che possono smuovere lʼanimo di chi guarda.
Nel cinema, la fotografia, la letteratura e la musica si fondono per trasmettere un messaggio raccon- tando una storia. Quando in sala le luci si spengono e un fascio di luce si sprigiona dal proiettore, millenni di spettacolo si condensano insieme e il sogno di alcune persone va in scena diventando il sogno di molti.
Per noi esiste un solo cinema, ed è fatto di luce. Non basta solo catturarla, ma bisogna anche saper valorizzare le immagini attraverso il montaggio, il color grading e i suoni. Una sfida interessante è stata proprio quella di curare il color grading e il sound design nella serie TV Il cammino di

Ferro di Aron Chiti.

Matteo Cossi durante le riprese al Food & Wine Festival
Andrea Cossi – dietro le quinte durante le riprese su un set

Al momento abbiamo molti progetti in cantiere. E non parliamo solo di cortometraggi, ma anche di serie televisive, lungometraggi, spot e tanto altro ancora. In parallelo a questo teniamo corsi di cinema cercando di contemperare lʼesperienza del metodo americano con lʼeredità dei maestri del cinema italiano.
Infine siamo tra i responsabili della sezione Lungometraggi, Documentari e Serie Web allʼinterno della Giuria Ufficiale del Miami Independent Film Festival di Miami.
Il nostro sogno? Rendere il mondo un posto migliore, fotogramma dopo fotogramma.

Filmografia

2010 COLORI – 2012 A PROMISE IS A PROMISE – 2012 THE CHOICE – 2013 THE PITCH – 2013 THE PITCH RELOADED – 2014 COLORS – 2014 GIUSEPPE ROSSI: ALLENATORE PER UN GIORNO A NEW YORK – 2014 CAROLE FEUERMANN, SCULTRICE IPER-REALI- STA A NEW YORK – 2015 LA CITTÀ DEI MIRACOLI: LE TORRI PENDENTI DI PISA –

2015 PROMO WORLD JU-JITSU FEDERATION PMA ITALIA – 2015 Spot FIMBA: 14° CAM- PIONATO MONDIALE DI MAXIBASKETBALL – 2016 “LIFE”: NIVEA – 2016 WONDER- LAND – 2016 CEDERAI ALLA LUNA – 2017 IʼM HERE, IO SONO QUI – 2017 AN EVENING WITH IL VOLO – 2017 FOOD&WINE FESTIVAL – 2017-2018 IL PISANO PIÙ SCHIETTO.

Foto di scena durante le riprese di “I’M HERE – IO SONO QUI”

Inoltre:
2017 RESPIRA di Laszlo Barbo, registi di seconda unità.
2018 SIX UNDERGROUND di Michael Bay, assistenti alla regia.
2018 I MEDICI 3 di Christian Duguay, assistenti alla regia

Romanzi pubblicati:
JACK E IL SEGRETO DELLE ANTICHE RUNE-Edizioni Sagittario, 2005

PERCORSI FORMATIVI AL SEDICICORTO INTERNATIONAL FILM FESTIVAL 2019
di Gianluca Castellini

Sedicicorto International Film Festival è impegnato ormai da diversi anni nella creazione di percorsi didattici di educazione e alfabetizzazione cinematografica. Il percorso formativo prende il nome di Cineprof e si realizza attraverso laboratori, proiezioni, meeting, conferenze, rassegne, dibattiti, progetti di scrittura. Lo scopo è quello di sensibilizzare il più possibile i giovani spettatori e dotarli di strumenti per una maggior conoscenza del settore cinematografico allo scopo di ottenere una loro partecipazione attiva.
Nella volontà di perseguire questo intento formativo e di mantenere nel pubblico giovane l’interesse per il cinema, con una particolare attenzione al cortometraggio e alle sue dinamiche, il Sedicicorto International Film Festival organizza, nel corso della sua 16° edizione, che avrà luogo a Forlì dal 4 ottobre al 13 ottobre 2019, una sezione di proiezioni mattutine, che si svolgerà da lunedì 7 ottobre a venerdì 11 ottobre 2019: la sezione NO+D2, specificatamente indirizzata agli studenti delle scuole superiori presenti sul territorio forlivese.
Si tratta di una selezione di 20 cortometraggi  nazionali e internazionali, della durata di non più di due minuti. Tale durata è stata pensata per permettere ai ragazzi di seguire e fruire dei film presentati in modo non solo più veloce, ma anche più incisivo.
Le tematiche affrontate sono selezionate con cura per non intaccare la sensibilità dei ragazzi, ma che permettono di aprire un dibattito costruttivo tra loro, raccontando problematiche legate al mondo del lavoro, alle questioni migratorie, al razzismo, al bullismo, alla diversità e disabilità. Ciò nella volontà di unire alla conoscenza del mezzo cinematografico e del cortometraggio, anche la consapevolezza di un sistema diverso attraverso cui poter esprimere le loro preoccupazioni, i loro dubbi, cercando di dare risposte esaustive alle loro domande.
Il progetto, inoltre, prevede che siano gli studenti delle scuole superiori coinvolte ad esprimere un giudizio sui cortometraggi proposti, rivestendo il ruolo di giurati, il cui giudizio andrà a decretare il vincitore della sezione NO+D2 e l’assegnazione all’autore del cortometraggio indicato di un premio economico del valore di 500€.
Consci della possibile difficoltà per i ragazzi di poter esprimere un giudizio completo su un film senza avere i giusti ed adeguati allo scopo strumenti, ogni giornata di proiezione sarà anticipata da un incontro con dei professionisti del settore cinematografico, che forniranno loro le informazioni necessarie per comprendere appieno la visione dei cortometraggi che dovranno giudicare, analizzando anche gli aspetti più rilevanti che vanno a dare forma al settore cinematografico in generale.

Gli incontri del programma NO+D2 si svolgono presso l’Auditorium CariRomagna di v. Biondo n.16

Gli incontri, che non avranno una durata superiore ai 30 minuti, che proporremo alle scuole sono:

  • Lunedì 7 ottobre 2019 – Storia del cortometraggio. Come è nato e si è sviluppato nella storia della cinematografia. In che modo di distingue dal medio o lungo metraggio. Quali sono le principali sfide che gli autori che si occupano di questo particolare formato cinematografico devono affrontare nel raccontare le loro storie L’incontro sarà tenuto da Francesco Saverio Marzaduri, critico e storico del cinema (Cineforum e Carte di Cinema), nonché autore del saggio monografico Noul Val–Il nuovo cinema romeno 1989-2009, distribuito dalla casa editrice CLUEB nel 2012.
  • Martedì 9 ottobre 2019 – Scrivere una recensione cinematografica. Quale linguaggio usare nel fare una recensione cinematografica? Quali sono gli aspetti da evidenziare e attraverso cui modulare la visione del film? A parlarne sarà Alessandro De Simone, ufficio stampa del Sedicicorto International Film Festival (e altri importanti festival cinematografici, quali l’Ischia Film Festival e il Cartoons On The Bay di Torino) e critico cinematografico per importanti riviste di settore (Best Movie, Movieplayer.it, Wired.it, Rolling Stone…), nonché Direttore editoriale del blog di cinema Cinema Show Magazine.
  • Mercoledì 10 ottobre 2019 – Tecniche di animazione nel cortometraggio. Come si fa un cartone animato e quali sono le principali tecniche e abilità da mettere in campo. Ne parlerà con gli studenti  Claudio Tedaldi, Coordinatore dell’Atelier del Cartone Animato di Forlì, per cui, in collaborazione con l’Associazione Sedicicorto, organizza corsi, proiezioni, mostre e seminari e relatore in diverse manifestazioni pubbliche (IBTS, Digital culture, Cartoons on the Bay, Computer Space…) sui temi legati ad animazione, pedagogia e multimedia.
  • Giovedì 11 ottobre 2019 – Gianluca Castellini, Direttore Artistico del Sedicicorto International Film Festival, racconterà ai ragazzi quali siano le principali difficoltà che si presentano nell’organizzazione di un festival cinematografico, sottolineando le azioni da svolgere sia per quanto concerne la selezione dei film da presentare in concorso che le dinamiche legate all’ospitalità di ospiti e importanti personalità del settore cinematografico sia nazionali che internazionali.
  • Venerdì 12 ottobre 2019 – La critica cinematografica. Sua evoluzione nel corso degli anni e nuove sfide dettate dall’avvento delle piattaforme in streaming e dei social. Protagonista dell’incontro il giornalista e critico cinematografico Carlo Griseri, curatore cinematografico del Seeyousound International Music Festival, ideatore e curatore di Agenda Cinema Torino e vice-presidente e redattore del magazine di cinema online CinemaItaliano.
Nel 2018, 1400 studenti degli istituti scolastici forlivesi hanno partecipato a Sedicicorto International Film Festival

Inoltre, nell’ottica di voler unire alla conoscenza delle dinamiche cinematografiche anche un percorso di conoscenza del proprio territorio cittadino, nella giornata di domenica 6 ottobre 2019, verrà organizzata una visita guidata con un itinerario che porterà i ragazzi a conoscere il patrimonio perduto di storiche sale cinematografiche che hanno dato in passato lustro alla città di Forlì (Cinema Apollo, Cinema Italia, Cinema Mazzini), grazie al supporto della guida professionista Cecilia Marziliano. La scelta della forma breve per i film proposti si confà anche ad una loro maggiore abitudine a fruire del mezzo audiovisivo, dato che la durata di ogni mattinata di proiezione non supera un’ora e trenta minuti, vicina quindi, ad esempio a quella di un episodio di una serie tv, genere che, a differenza del mezzo cinematografico, dimostra di avere sul pubblico giovane una maggiore attrazione. La presenza di professionisti del settore che verranno a spiegare le dinamiche del proprio lavoro e la possibilità offerta ai ragazzi, grazie alla media partnership con “Il Resto del Carlino” di potersi cimentare nella redazione di brevi recensioni sui cortometraggi visionati, rende la sezione NO+D2 uno strumento formidabile di coinvolgimento di loro alfabetizzazione nella comprensione del fenomeno cinematografico.

UNA MONOGRAFIA DI PAOLO MICALIZZI SU GIORGIO FERRONI / CALVIN JACKSON PADGET
di Maurizio Villani

Con il volume Giorgio Ferroni /Calvin Jackson Padget, dai documentari e film di genere al western spaghetti Paolo Micalizzi intende riportare all’attenzione della critica e del pubblico la figura e l’opera del regista Giorgio Ferroni, un po’ dimenticato, nato a Perugia, ma legato al territorio ferrarese in quanto figlio di un importante magistrato di origine comacchiese. Il libro ricostruisce con acribia la carriera di Ferroni dagli anni Trenta agli anni Settanta del Novecento, sottolineando la sua attività di documentarista e quella di regista di lungometraggi. Agli esordi, Ferroni fu aiuto regista in vari film, a iniziare da “Al buio insieme” di Gennaro Righelli (1933). Seguì poi l’esordio come autore di documentari, attività in cui rivelò la sua bravura, divenendo collaboratore dell’Istituto Luce e direttore artistico della Incom. Tra gli oltre cinquanta documentari realizzati,  alcuni come “Pompei” (1936), “Criniere al vento” (1938) e “Armonie pucciniane” (1938), sono stati premiati alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Del dopoguerra è anche  “Vertigine bianca” sulle Olimpiadi invernali del 1956 di Cortina d’Ampezzo.Il passaggio alla regia dei lungometraggi avvenne nel 1940 con “L’ebbrezza del cielo”, cui fecero seguito due film con il noto comico Macario: “Il fanciullo del West” (1943), primo esempio di western comico italiano, e “Macario contro Zagomar” (1944), parodia dei film con il celebre Fantomas. Giorgio Ferroni fu poi il regista del primo film girato al “Cinevillaggio” di Venezia dove si era trasferito con altri valenti tecnici del cinema italiano, “Senza famiglia”. Nel 1946 girò “Pian delle Stelle, un film prodotto dall’Associazione partigiani di Padova sulla Resistenza nel Triveneto, alla sceneggiatura del quale partecipò anche Indro Montanelli. A partire dal 1960 Giorgio Ferroni si dedicò ai film di genere, dirigendo sia gli horror “Il mulino delle donne di pietra” e “La notte dei diavoli” (1972), oggi considerati dei veri “cult movie”, sia opere del genere mitologico Peplum come “La guerra di Troia” (1961) o ”Il colosso di Roma” (1964). Nell’era dei “western spaghetti”, Giorgio Ferroni, con lo pseudonimo di Calvin Jackson Padget, esordì nel genere con “Un dollaro bucato” (1965), lanciando Giuliano Gemma, con cui girò nel 1966 altri due western all’italiana: ”Per pochi dollari ancora” e “Wanted” (trilogia che sarà apprezzata da Quentin Tarantino).

Paolo Micalizzi dialoga con Giorgio Ferroni (vice direttore Ferrara Film Festival), pronipote del regista.

Il libro di Micalizzi, introdotto da un affettuoso ricordo del nipote del regista, avvocato Ugo Ferroni, presenta una completa filmografia di Giorgio Ferroni, corredata ad un’ampia antologia di testi critici e di giudizi del pubblico. Ne emerge il ritratto di una persona dal carattere colto e signorile e di un autore assai prolifico, dotato di una raffinata tecnica cinematografica e capace, anche se costretto spesso a lavorare con budget limitati, di raggiungere risultati estetici apprezzabili. Paolo Micalizzi, giornalista, critico e storico del cinema, ha collaborato a numerose riviste di cinema, tra cui Passo ridotto, Il Cineama­tore, Ciennepi e Cineclub (che ha diretto per tre anni). Ma anche, tra gli altri, Cinema International (di cui era corrispondente per l’Italia), SegnoCinema, CinemaSud, Giorna­le dello Spettacolo e Cinema d’Oggi. Dal 1969 è collaboratore, come critico cinemato­grafico, del quotidiano II Resto del Carlino con articoli sia per l’edizione ferrarese che per quella nazionale; è responsabile di una rubrica cinematografica sul settimanale La Voce di Ferrara ed è direttore responsabile della rivista online Carte di Cinema. È anche attivo come operatore culturale, organizzando, tra l’altro, per la FEDIC (Federazione Italiana dei Cineclub) il Premio FEDIC (dal 1993) e il Forum FEDIC (dal 1995) nell’ambito della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Alla FEDIC è iscritto dal 1960 come socio del Cineclub Ferrara nel quale ha anche svolto attività di filmmaker con due documentari. Ha allestito, a Ferrara, molte rassegne cinematografiche; dal 1993 al 2002, è stato Direttore Artistico di Valdarno Cinema FEDIC partecipando anche, per 4 anni, alla Direzione Artistica del Festival Internazionale FilmVideo: in entrambi i Festival è stato anche Responsabile dell’Ufficio Stampa. Ha un’esperienza trentennale di Responsabile Relazioni Pubbliche e Ufficio Stampa di una grande Azienda Industriale. Con questa ultima monografia su Giorgio Ferroni ha aggiunto un altro contributo alla sua pluriennale attività di ricerca sul cinema ferrarese, cui ha dedicato libri importanti, fra i quali La donna del fiume-Racconti e retroscena di un film padano, Terre della memoria-L’Emilia nel cinema di Gianfranco Mingozzi, Come nasce un film: La vela incantata, Florestano Vancini fra cinema e televisione e Florestano Vancini docu­mentarista alla ricerca della realtà italiana, Al di là e al di qua delle nuvole. Ferrara nel cinema, Antonio Sturla-ll pioniere del cinema ferrarese, Là dove scende il fiume. Il Po e il Cinema. Ma anche L’Orlando Furioso e il suo mondo nel cinema italiano; monografie su Ezio Pecora, Renzo Ragazzi, Fabio Pittorru, Massimo Sani. Per la sua rilevante attività giornalistica e culturale gli sono stati attribuiti, nella sua Ferrara, il Premio Camera di Commercio (1994) e II Premio Stampa alla carriera (2009), e alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia il Premio della Critica Indipendente (2017) e quello intitolato alla memoria del critico siciliano Gregorio Napoli (2018).

FESTIVAL ED EVENTI

18° RIVER TO RIVER FLORENCE INDIAN FILM FESTIVAL
di Maria Pia Cinelli

Unica manifestazione nostrana incentrata esclusivamente sul sub-continente indiano, il River to River Florence Indian Film Festival procede verso l’adultità forte di un percorso formativo di tutto rispetto, basato su una scelta editoriale mirata non solo a rivisitare nomi feticcio della cinefilia come Satyajit Ray, Guru Dutt o Raj Kapoor, ma altresì a portare dalle rive del Gange a quelle dell’Arno le tante sfumature di una cinematografia poliedrica, comprese quelle più connotate dalla tipicità locale, di non facile assimilazione per un pubblico altro. Fedele alla linea la 18a edizione (Firenze, 6-11 dicembre 2018) – la prima con il supporto della Bagri Foundation, associazione londinese tesa a promuovere arte e cultura asiatiche – ha presentato un programma in grado sia di tastare il polso dell’industria filmica più prolifica al mondo[1], sia a gettare uno sguardo sui vari aspetti di una società in evoluzione.
L’apertura e la chiusura della kermesse toscana sono state all’insegna del romance, con un Bollywood movie duro e puro come film di congedo, “Manmarziyaan” (“Husband material”), di Anurag Kashyap, fra i registi di maggior influenza negli studios e già membro della giuria di Venezia nel 2009, che mette in scena un classico triangolo sentimentale con matrimonio combinato amalgamando gli elementi tradizionali del filone dominante, inclusi canti e danze al ritmo di musica punjabi.

Abhishek Bachchan e Taapsee Pannu in “Manmarziyan” (“Husband material”)

Antico come la narrazione è anche il soggetto di “Sir” che ha inaugurato il festival, tuttavia la documentarista Rohena Gera qui al suo debutto nel lungometraggio di finzione[2] usa un profilo basso nel tratteggiare un storia di scoperta reciproca, attrazione e avvicinamento fra un rampollo della Mumbai bene e la giovane vedova al suo servizio, lavorando sulla psicologia dei personaggi e sulle restrizioni sociali, con la posizione femminile e il problema delle caste che traspaiono in filigrana. La pellicola, finanziata anche dalla Francia, è una delle co-produzioni che l’India sta mettendo in cantiere in un’ottica espansiva di mercato oltre i confini territoriali e i paesi della diaspora. Dopo un passaggio iniziale alla Semaine de la Critique 2018 in effetti “Sir” ha intrapreso la strada della distribuzione internazionale, Italia compresa.

Una scena di “Sir” con i protagonist Vivek Gomber e Tillotama Shome

Nel concorso ha trovato spazio il genere, a iniziare dalla commedia, sostenuta abitualmente da ottime performance attoriali e sceneggiature ben calibrate: “Fanney Khan” dell’esordiente Atul Manjrekar, satira sul mondo dello spettacolo[3] con accenti melò e favolistici, gira attorno alla star Anil Kapoor nei panni di un musicista mancato che investe le aspirazioni artistiche sulla figlia dalla voce strabiliante ma senza physique du rôle, mentre “Karwaan” (“The journey”) di Akarsh Khurana, dove uno scambio di bare intreccia i destini di tre giovani molto diversi fra loro, poggia sulla struttura collaudata del road movie e del gioco degli equivoci. Siamo invece dalle parti del thriller con “3 Storeys” di Arjun Mukerjee, opera prima ambientata in un tipico chawl[4] di Mumbai – topos ricorrente nel cinema indiano – che attraverso le vicende dei condomini segnate da menzogne, intrighi e misteri parla di solitudine, violenze familiari e amori giovanili contrastati. Accanto ai prodotti di maggior intrattenimento la sezione competitiva ha proposto pellicole calate nel reale e non così ligie agli standard commerciali. In maniera del tutto originale “T for Taj Mahal” di Kireet Khurana – regista noto per la sua collaborazione con varie associazioni umanitarie – focalizza il problema della mancanza di presidi scolastici nelle aree rurali con un protagonista illetterato che intende portare l’istruzione nel suo villaggio vicino ad Agra, sede del celebre mausoleo, e allo scopo mette su un piccolo ristorante di strada (dhaba) chiedendo agli avventori – perlopiù turisti in transito – ore di insegnamento anziché denaro. (A proposito del Taj Mahal è doveroso citare – negli eventi speciali – la proiezione del kolossal del muto “Shiraz” basato sugli eventi che portarono alla sua costruzione, girato nel 1928 dal tedesco Franz Osten e restaurato di recente dal British Film Institute National Archive).

La giovane Pihu Sand in “Fanney Khan” qui con Divya Dutta – Kalyanee Mulay, protagonista di “Nude” (“Chitra”), insieme a Chhaya Kadam

è stato senz’altro “Nude” (“Chitra”) di Ravi Jadhav, in lingua marathi. Già abbiamo avuto modo di osservare come il cinema marathi sia incline all’esplorazione di nuovi sentieri linguistici. Nella sua ultima fatica Jadhav, di certo il suo autore di punta, si prende più libertà del solito con la storia di una donna vessata e tradita dal marito che si trasferisce in città per dare un futuro al figlio e per mantenersi inizia a lavorare come modella di nudo per una scuola d’arte. Lo sfondo melodrammatico (nella terra di Tagore la madre sacrificale è un’incarnazione muliebre tipo del grande schermo, “Mother India”[5] insegna) in realtà è solo il canovaccio su cui imbastire una riflessione sul controllo del proprio corpo e il senso di autonomia come presa di coscienza femminile, sulle disuguaglianze economiche e le difficoltà dei ceti subalterni ma – in primo luogo – è un’opera che parla dell’arte, del suo significato e del suo ruolo nella società. Per l’ente censorio nazionale si trattava invece di un soggetto sconveniente già nel titolo, ragion per cui la sua diffusione interna era stata in un primo tempo bloccata.Nelle maglie della censura – in questo caso quella del Pakistan che gli ha rifiutato il nulla-osta – è incappato anche “Mulk”, film che tocca nervi scoperti dell’attualità. Ispirato liberamente a un fatto di cronaca il legal drama diretto da Anubhav Sinha narra le traversie di una famiglia medio-borghese della minoranza musulmana di Benares – città sacra dell’induismo – che dopo la morte del figlio cadetto in un atto terroristico in cui era coinvolto viene a sua volta accusata di complicità e in tribunale si avvale come difensore della moglie indù del primogenito. Centrato sulla figura carismatica del patriarca, anch’egli avvocato ora in pensione, non solo costretto a provare la fedeltà alla patria (‘patria’ è il significato del titolo) e l’innocenza sua e dei congiunti davanti al giudice, ma anche determinato a recuperare l’onore perso davanti al mondo, il film mostra come il clima di convivenza amichevole fra i due gruppi religiosi prenda in seguito al tragico evento la piega dell’islamofobia e del pregiudizio che eleva il credo a elemento unitario principe, con i mezzi di informazione a fomentare gli attriti. Girato a budget relativamente basso e ben supportato dalle interpretazioni di Rishi Kapoor e Taapsee Pannu – quest’ultima presente al festival – “Mulk” rappresenta un giro di boa nella carriera di Sinha[6] e lo avvicina al gruppo di registi di Bollywood per così dire ‘arrabbiati’, che pur agendo nell’ambito degli studios mantengono un legame stretto con le istanze socio-politiche. La sua scelta è stata premiata dal botteghino con una tenitura in cartellone di un mese e mezzo, segno dell’urgenza del tema per un paese che da decenni convive con il conflitto fra induismo e islam, causa di un milione di morti all’epoca della separazione del Pakistan e che in tempi di nazionalismo indù si sta di nuovo acutizzando. Dopo il fatidico 9/11, tuttavia, si respira ovunque un’aria di intolleranza e di paura, pertanto “Mulk” tocca le corde di molte platee, compreso il pubblico fiorentino che lo ha eletto miglior film di questa edizione. Direttamente o indirettamente religione e spiritualità hanno avuto una discreta presenza in programma, centrando in pieno il palmarès. A fianco del precedente, “Everything is upstream” di Martin Ponferrada – corto d’animazione sui sogni di alcuni monaci buddisti – si è laureato vincitore nel formato breve e la co-produzione indo-francese “Grandir au Ladakh” è risultato miglior documentario. Realizzato a quattro mani da Christiane Mordelet e dall’autoctono Stanzin Dorjai nella regione del Ladakh[7] a 4.300 metri di altitudine, il mediometraggio segue il percorso di crescita di una dodicenne in un contesto dal sapore arcaico. I soggiorni in collegio a 70 Km. di distanza si alternano a periodi trascorsi in famiglia fatti di lavoro agricolo e casalingo, il tutto segnato dall’apprendimento del buddismo tibetano, che include la partecipazione al “Gotchak”, sorprendente processione di tre giorni e due notti tra fiumi e monti innevati dove i pellegrini si prostrano a terra oltre 3.000 volte al giorno invocando armonia per l’intero universo.

Mithila Palkar, Dulquer Salman e Irrfan Khan, i tre attori di “Karwaan” (“The journey”) – Taapsee Pannu e Rishi Kapoor, interpreti principali di “Mulk”

Fra i documentari in concorso anche “Kalachakra: The Enlightenment”, prodotto dalla Francia con la regia di Natalie Fuchs che filma integralmente a Dharamsala la cerimonia del titolo (la Ruota del Tempo), la più alta iniziazione buddista officiata dallo stesso Dalai Lama, mentre negli eventi speciali è passato “Meditazione con i Beatles”, girato nel 1968 da Furio Colombo per la Rai, un reportage sulla celebre band in trasferta a Rishikesh sulla via della Meditazione Trascendentale del guru Maharishi Mahes Yogy, che ci ha riportato ad anni pieni di speranza, a un sogno di ‘peace and love’ ormai irrimediabilmente lontano.

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[1] Vengono realizzati da 1.500 a 2.000 film all’anno, con una previsione di crescita intorno al 10/11% annuo. L’India detiene il primato mondiale in termini di produzione, tuttavia scende di qualche posizione per quanto riguarda i profitti.

[2] Nel 2013 ha scritto e diretto il documentario “What’s Love Got To Do With It?” sui matrimoni combinati

[3]Si tratta di un rifacimento del film belga “Assolutamente famosi” (“Iedereen beroemd!” di Dominique Deruddere, 2000)

[4] Blocchi di appartamenti a basso costo per la classe lavoratrice, simili alle case di ringhiera nell’Italia settentrionale

[5] Di Mehboob Khan, 1957, prima produzione indiana candidata all’Oscar come miglior film in lingua straniera

[6] Considerato uno dei padri fondatori della regia televisiva e passato al cinema nel 2001, prima di “Mulk” ha al suo attivo commedie romantiche, thriller e un film di supereroi

[7] Il Ladakh, fra le catene dell’Himalaya e del Karakorum, è una divisione dello stato di Jammu e Kashmir, nell’India settentrionale, nominato ‘il piccolo Tibet’ per il gran numero di monasteri presenti

CORTINAMETRAGGIO 2019: UN’ALTRA EDIZIONE DI QUALITÀ
CON LA RIVELAZIONE DI NUOVI TALENTI ED OSPITI DI RILIEVO DEL CINEMA ITALIANO TRA CUI BARBARA BOUCHET
di Paolo Micalizzi

La XIV edizione di Cortinametraggio ha registrato un’affluenza record con 450 cortometraggi arrivati in selezione. Di essi, la Sezione Cortometraggi, diretta da Vincenzo Scuccimarra, ne ha Annoverato in Concorso 21: in  competizione commedie che gettano lo sguardo sulla realtà  quotidiana e i problemi che la caratterizzano e corti legati al tema dell’integrazione come espressione di una società che sempre più si fa multietnica. Ancora una volta si è visto che  ad accettare di esserne interpreti non si sottraggono nomi noti del nostro cinema: tanto per citarne alcuni, Giorgio Colangeli, Valentina Lodovini, Lino Guanciale, Sandra Ceccarelli.  Ad aggiudicarsi il titolo di “Miglior corto assoluto” è stato “La gita” di Salvatore Allocca, che ha vinto un premio in denaro . Ne è protagonista una giovane di 14 anni figlia di immigrati senegalesi, nata e cresciuta in Italia, a cui verrà negata di partecipare ad una gita scolastica all’estero, un’occasione per lei per manifestare i propri sentimenti ad un suo compagno di classe: un segnale di come, date le origini della famiglia, il suo inserimento nella società in cui vive sia difficile. La  giuria – tra cui figurano gli attori Ricky Tognazzi , Carolina Crescentini e Tosca D’Aquino – lo ha premiato perché “ è un film tenero in grado di farci riflettere che racconta la realtà da un punto di vista originale. Una chiave poetica per una storia attuale che non scivola mai nella retorica”. Il cortometraggio ha vinto, grazie ai due attori protagonisti, anche il Premio NuovoImaie  “ per la spontaneità dell’interpretazione, sempre credibili posati e ben lontani da ogni stereotipo”. Vince, inoltre, il Premio Migliori Dialoghi – Cinema Italiano.info perché trattasi di “un corto realistico, dialoghi credibili  come gli interpreti che riescono a far entrare nel mondo degli adolescenti” ed il Premio Anec-Fice “perché con il linguaggio del teen movie descrive con misura e un’ottima direzione dei giovani attori il disagio dei ragazzi senza cittadinanza”. Quest’ultimo premio darà modo al cortometraggio di essere distribuito in 450 sale cinematografiche d’essai. Una grande  possibilità per il cortometraggio di avere grande visibilità e per l’autore di ipotizzare un futuro nel cinema italiano. Tanti premi anche per “Pepitas” di Alessandro Sampaoli incentrato su un giovane che malgrado abbia superato i trent’anni vive ancora in casa con la mamma e la nonna, alla quale vuole nascondere la sua attività di Drag Queen.  Ma la nonna, pur non dandolo a vedere, sa tutto. Per il suo approccio al personaggio della nonna, il Premio del Pubblico è stato assegnato ad Ariella Reggio perché “ sincero ed elegante, che regala allo spettatore un’emozione autentica”. Aggiungendo anche: “Vorremmo tutti una nonna così”. A Pepitas” anche il Premio Rai Cinema Channel consistente nell’acquisto dei diritti Web, e il Premio Augustus Color e Miglior Corto Commedia che è stato consegnato dall’ospite d’onore del Festival Barbara Bouchet.

Come Miglior attore è stato premiato Lino Musella, interprete sia  in “Fino alla fine” di Giovanni Dota che in “Il perdono” di Marcello Cotugno: un’interprete molto convincente. Tra i premi principali  quello del Miglior Videoclip che è stato assegnato a “Nuddu Ca Veni” di  Giovanni Tomaselli, opera in cui i personaggi si muovono in  scenari onirici ed esoterici. E poi,  un workshop con il regista Daniele Luchetti, organizzato con la collaborazione del  CSC (Centro Sperimentale Cinematografia),  sul tema “Dirigere gli Attori” rivolto ad attori, attrici e registi e volto ad approfondire la propria preparazione nell’ambito del linguaggio cinematografico. Tanti ospiti, poi con Madrina Barbara Bouchet , presentazione di  libri tra cui il romanzo  di Isabel Russinova “La regina delle rose”(editore Armando Curcio), immersioni nella realtà virtuale incontro – dibattito sui diritti degli artisti, ma anche  escursus  sulle piste del Faloria per sciare o per  riscaldarsi al sole. Cultura e relax in un mix  che ha reso piacevole anche questa quattordicesima  edizione di  Cortinametraggio, diretta con eleganza, passione, capacità ed entusiasmo dall’attivissima  Maddalena Mayneri che si avvale della collaborazione di un efficiente Staff.

STORIE DI STRETTA ATTUALITA’ ED OMAGGIO A GILLO PONTECORVO A “LE VOCI DELL’INCHIESTA” 2019
di Paolo Micalizzi

Un evento culturale che fa conoscere sguardi originali e profondi sulle problematiche del mondo attuale attraverso  il cinema del reale,  “Le Voci dell’Inchiesta” di Pordenone che da dodici anni  propone  il meglio del documentario contemporaneo internazionale. In cinque giorni di programmazione, con le sale dell’Auditorium che hanno fatto registrare il tutto esaurito a ogni proiezione anche nelle fasce quotidiane che di solito sono meno partecipate, sono stati presentati anche 23 documentari in Concorso. All’unanimità ha conquistato il Premio della Giuria “The distant Barking of Dogs” di Simon  Lereng Wilmont, racconto per immagini di un anno di vita di un bambino ucraino, di dieci anni, al cospetto  di una guerra incombente che ha reso pressoché disabitato il suo paese. Un film che ha colpito la Giuria(Luca Bigazzi, Valentina Pedicini e Federico Rossin) per la sua  bellezza, un film “che parla di un conflitto attraverso gli occhi di un bambino, senza facili patetismi. Nella vicenda del piccolo Oleg è racchiusa una storia universale, una storia capace di parlare al cuore di tutti”. Premio del Pubblico per “Eldorado” di Markus Imhoff, un viaggio del regista tra i migranti d’oggi ricordando un’esperienza personale della sua famiglia, quando nel 1945 ebbe ad accogliere in Svizzera una bambina di 8 anni, mai più rivista, inserita in un piano provvisorio per i rifugiati. Un film che racconta una storia che si ripete oggi e che spinge all’accoglienza. La sua proiezione al Festival di Pordenone ha aperto  la strada delle sale cinematografiche italiane al documentario.

Dal documentario “The distant Barking of Dogs”.

A ”Le Voci dell’Inchiesta” è nato un nuovo riconoscimento, il Premio Young, assegnato da una giuria di giovanissimi. A vincerlo  è  stato a “América”, di Erick Stoll e Chase Whiteside, opera incentrata su  una nonna, América, ultranovantenne di cui il nipote Diego  dovrà prendersi cura per evitare che il padre sia incriminato per abbandono di genitore anziano dopo che lei è caduta dal letto. Diego, per questo, abbandona il circo in cui lavora e per evitare l’incriminazione del padre, assieme ai fratelli che aveva perso di vista da tempo, si  occupa della donna. L’incidente è stato voluto  dalla donna per riunire la famiglia? E’ la domanda che aleggia per tutto il film. I giovani lo hanno premiato perché “pur partendo da una storia estremamente intima, riesce a essere universale e a parlare a tutti, giovani compresi”. Tra le opere viste, “Gaza” di Garry Keane e Andrew McConnell, che racconta la quotidianità degli abitanti di Gaza, il tentativo di condurre una vita normale in un contesto di guerra perenne. Una situazione di cui non hanno ancora perduto la speranza. Ma anche “What  you gonna do  when the world is on fire” di Roberto Minervini, incentrato su una comunità afroamericana del Sud degli Stati Uniti che ogni giorno è in lotta per la giustizia, la dignità e la sopravvivenza.  Alla Mostra di Venezia era candidato per il “Leone d’Oro” e bene ha fatto “Le Voci dell’Inchiesta” a rilanciarlo. Omaggio del Festival al regista Gillo Pontecorvo con una Retrospettiva dei suoi documentari. Tra le opere proiettate, “Giovanna”(1956), un episodio del film “La rosa dei venti”, un progetto nato sotto la supervisione del grande Maestro Joris Ivens.

Gillo Pontecorvo

Giovanna è un’operaia di una fabbrica tessile di Prato che, malgrado sia contrastata dal marito, partecipa convinta all’occupazione della fabbrica in cui lavora per evitarne la chiusura voluta dal padrone. Un altro episodio di occupazione nella filmografia documentaristica di Gillo Pontecorvo è  al centro  di “Pane e zolfo”, anch’esso del 1956, che documenta la dura lotta dei lavoratori della miniera di zolfo di Cabernardi , nelle Marche, intrapresa contro la decisione di chiusura dell’impianto. Documentari di impegno politico e sociale, con al centro della narrazione l’uomo. Avviene anche in “La missione del Timiriazev”(1952), la nave inviata dai sovietici carica di viveri in aiuto alla popolazione del Polesine devastata dall’alluvione del Po, oppure “Cani dietro le sbarre” che coglie gli accalappiacani alle prese con i cani randagi della periferia, ma anche del centro, di Roma. Tra le altre opere di Gillo Pontecorvo viste a Pordenone  “Festa a Castelluccio”(1954), incentrato sulla Festa delle lenticchie, e “Udine”(1989), un ritratto poco noto della città friulana. Vi figurava anche “Ritorno ad Algeri”(1992), dove Gillo Pontecorvo ritorna con una piccola troupe, insieme al figlio Marco, sui luoghi dove nel 1966 girò il suo capolavoro “La battaglia di Algeri” ritrovando quell’estremismo politico che culminerà nelle stragi del 1997. Nell’occasione, il Festival pubblica un volumetto, a cura di Fabio Francione, con gli scritti di Gillo Pontecorvo, che riporta alla mente anche quell’Assise degli Autori di tutto il mondo avvenuto nel 1993 all’Hotel Des Bains del Lido di Venezia nell’ambito della Mostra del Cinema che fu evento importante che sancì , alla presenza di moltissimi autori tra cui Steven Spielberg, la nascita dell’Unione mondiale degli autori cinematografici e la creazione, nel 1994, dell’Alta corte per l’espressione cinematografica nell’audiovisivo. Una grande esperienza che chi c’era non può documentare, ed io, da critico cinematografico che seguiva la Mostra, ero tra quei privilegiati. Indimenticabile Gillo!

IL FERRARA FILM FESTIVAL 2019
di Maurizio Villani

Si è tenuta a Ferrara dal 23 al 31 marzo 2019 la quarta edizione del Ferrara Film Festival, organizzato e diretto da Maximilian Law. La manifestazione vuole essere “un ponte culturale ed economico tra gli Stati Uniti e Italia, essendo il primo festival di Cinema su territorio italiano organizzato direttamente da Los Angeles, dove è ubicata la sua sede. Questa caratteristica rende questo evento innovativo e unico nel suo genere”. Il Ferrara Film Festival si avvale della collaborazione del Comune di Ferrara, dell’ASCOM, dell’UNICEF Italia, dell’Ambasciata USA in Italia e dell’Archivio Vittorio Cini”. Il programma del festival prevedeva la proiezione di 43 film in concorso, sia lungometraggi, sia cortometraggi (suddivisi in sette sezione). Le proiezioni dei film sono state accompagnate da una serie di eventi collaterali, tra cui incontri con attori, registi e produttori. Al termine delle proiezioni, che hanno visto una crescente partecipazione di pubblico, ha avuto luogo, con la presenza di Valter Nudo, la cerimonia di premiazione, condotta da Maximilian Law e da Giorgio Ferroni, vicepresidente del Festival.

Un momento della cerimonia di premiazione. Al centro il direttore del Festival Maximilian Law, dietro di lui il vicepresidente Giorgio Ferroni.

La giuria, composta da Anna Ardizzoni, Anna Elena Pepe Giancarlo Iannotta, Jennifer Milan, Giorgio Bigoni, Vito Contento, ha assegnato Dragoni d’oro ai vincitori delle varie categorie. Per “il miglior lungometraggio USA” è stato premiato il film “Sol de medianioche”, del regista Douglas Pedro Sanchez, interpretato da Pedro Capò e Aris Mejias. È un thriller in cui il protagonista, Manolo, è un detective privato specializzato in casi di adulterio a Porto Rico. Mentre inizia a spiare una coppia di suoi amici, cerca nel frattempo di risolvere il mistero sull’omicidio del fratello gemello, di cui lui stesso è stato accusato in passato. Nella categoria “miglior lungometraggio world“ il premio della giuria è stato assegnato a “L’ultima notte”, film italiano di Francesco Barozzi, con Beatrice Schiros, Francesca Turrini e Giuseppe Sepe. Il film racconta la storia di Bea, una donna in crisi, che ritorna nella vecchia casa di famiglia dove i suoi due fratelli vivono in condizioni degradate condividendo le stesse ambigue inclinazioni. E un segreto oscuro, imprigionato nel profondo del cuore. Come “miglior documentario” ha vinto “Chi scriverà la nostra storia”, in cui la regista statunitense Roberta Grossman racconta come un gruppo segreto composto da giornalisti, ricercatori e capi della comunità, guidato dallo storico Emanuel Ringelblum, decise di combattere le menzogne e la propaganda nazista. Nella sezione “cortometraggi” la giuria ha assegnato due premi. “Miglio cortometraggio USA” è risultato “ME 3.769”, della regista Elaine Del Valle, interpretato da Samantha Lopez e Rodolfo Salas, la cui trama drammatica presenta il passaggio da bambina a adolescente di Elaine, che si trova in una situazione molto pericolosa da affrontare da sola. Il corto “In principio”, diretto dall’italiano Daniele Nicolosi e interpretato da Giorgio Colangeli e Giovanni Anzaldo ha vinto sia il premio per il “miglior cortometraggio world”, sia quello per il “miglior regista”. L’opera di Daniele Nicolosi è il racconto di un futuro non troppo lontano in cui un uomo vaga per la Terra, ormai desolata e decimata dalla guerra, in cerca della sua famiglia. Quando arriva in un paese del nord Italia, incontra un uomo misterioso che gli rivela delle cose straordinarie. I premi al “miglior film young Unicef” e alla “miglior colonna sonora” sono stati assegnati al cortometraggio statunitense “Safe zone”, opera di Jodie Livingston e Marco Bollinger, interpretato da Rachel Braunsch Weig e Marta Zoffoli. È la storia di Fatima e Nariman, due bambine Siriane ora rifugiate in un campo profughi, che raccontano gli orrori della guerra attraverso i loro occhi.

Due locandine di film premiati al Ferrara Film Festival 2019

Nella categoria “miglior film Emilia Romagna filmmakers” è risultato vincitore “Rwanda” di Riccardo Salvetti, con Marco Cortesi, Mara Moschini. Basato su una storia vera, il film racconta le vicissitudini di uno dei genocidi più terrificanti della storia dell’umanità, dove un milione di persone sono state uccise in Rwanda nel 1994, e il conseguente atto eroico di due persone nel cercare di salvare più vite innocenti possibili.

CINEMA ASIATICO AL FAR EAST FESTIVAL DI UDINE, GIUNTO ALLA XXI EDIZIONE
di Paolo Micalizzi

Ha chiuso con 60.000 spettatori, una cifra che lo pone tra le manifestazioni cinematografiche più seguite e non solo in Italia, la XXI edizione del Far East Festival di Udine. Bilancio positivo di un Festival che ha anche registrato oltre 1.600 accreditati( giornalisti, docenti, studenti, rappresentanti di altri festival) provenienti da oltre 20 paesi.  Vincitore del Concorso è stato il film “Still Human”(“Ancora umani”) di Chan Oliver Siu Kuen(Hong Kong) che racconta la storia di un uomo  paralizzato  e della sua badante filippina. Un film estremamente delicato che per i sentimenti espressi riesce a commuovere veramente. E’ interpretato da Anthony Wong, un mito del cinema asiatico dalla filmografia che spazia , negli ultimi trent’anni del cinema hongkonghese, in molti generi, dalla commedia al crime, dal fantasy allo splatter: una filmografia per la quale il Far East Film Festival nei giorni precedenti lo aveva premiato con il Gelso d’Oro alla carriera.  “Still Human” ha ricevuto sia il premio del pubblico che  degli accreditati Black Dragon. Al secondo  posto si è classificata la black comedy cinese “Dying To Survive”( Una voglia da morire di sopravvivere) di Wen Muye, un film tratto da una storia vera che nel 2018 ha avuto in patria  un grandissimo successo. Ne è protagonista Cheng Yong  che contattato da un malato si ritrova ad  essere a capo di una banda di contrabbandieri che importano illegalmente medicine aiutando cosi migliaia di pazienti a curarsi a prezzi contenuti. Una storia che dura fino a quando l’importatore del prodotto farmaceutico non si rivolge alla polizia. Terzo posto per “ Exstreme Job”(“Lavoro estremo”) di Lee Byoung  – heon(Corea del Sud) , un super blockbuster, il film più visto della storia del cinema coreano, in cui è protagonista un  detective che  per sorvegliare una gang che traffica in stupefacenti, si improvvisa ,insieme alla sua squadra, gestore di un ristorante. Quest’attività ha tanto successo che il locale diventa famoso. Ma la squadra non  perderà il suo obiettivo. Per le opere  prime si è aggiudicato il Gelso Bianco il film  giapponese “Melancholic” (“Malinconico”) di Tanaka Seiji, film dall’humor nero che racconta di un giovane che trova impiego in un bagno pubblico che è , a sua insaputa, anche il luogo scelto dalla yakuza per le esecuzioni. Quando il ragazzo lo scopre verrà assegnato al turno di notte che comprende anche lo smaltimento dei cadaveri.

Dal film “Still Human”

 Un premio anche dai lettori di Mymovies: lo ha ricevuto il  film giapponese “Fly me to the Saitama”(“Portami a Satana”) di Takeuchi Hideki, un’opera incentrata sulla guerra fra i quartieri. Tra i premi anche quello alla carriera alla diva cinese Yao Chen, attrice – attivista sulla condizione femminile e  sui diritti dei rifugiati. Ha anche presentato  il film “Lost, Found”(“Perduto, Trovato”) di  Lue Yue , di cui è interprete nel ruolo di una donna alla quale la badante, che vive una storia  molto drammatica, rapisce la bambina. Tra flashback e colpi di scena ne scaturisce uno sguardo impietoso sulla condizione della donna e sui rapporti di classe in Cina.  Molti altri gli eventi che hanno dato vita ad un festival  che si pone indubbiamente tra i più importanti del panorama italiano. Tra questi, un dibattito  su un tema di attualità, “Le Nuove Vie della Seta. Cina: minaccia o opportunità?”, una preziosa occasione pubblica per ragionare sui cambiamenti economici in atto nel continente asiatico e per approfondire lo stato attuale delle relazioni tra Italia e Cina: è stato preceduto dalla proiezione del nuovo documentario di Pio d’Emilia, inviato di Sky TG24, “La ferroVia della seta”. La prossima edizione si svolgerà dal 24 aprile al 2 maggio 2020.

OCCHIO CRITICO

CAFARNAO: CAOS E MIRACOLI
di Marco Incerti Zambelli

‘I 400 colpi’ è una rubrica in un utile settimanale di cinema e televisione, nella quale i collaboratori della rivista esprimono, con un sintetico voto, il loro giudizio sui film in programmazione. E’ curioso notare come “Cafarnao” di Nadine Labaki, premio dalla giuria e Fipresci  a Cannes, nomination all’Oscar ad ai maggiori premi internazionali, abbia raccolto una stragrande maggioranza di valutazioni negative, a tratti pessime, tranne due eccezioni, e una rapida carrellata on line conferma la non certo benevola accoglienza che la maggior parte della critica cinematografica italiana ha riservato all’opera. Tutt’altro che disprezzabile invece, la risposta del pubblico, con ottime teniture nel circuito d’essai (e clamorosi successi all’estero: strabilianti i 3 milioni di cinesi nella prima settimana). La  bella regista ( ed anche attrice, qui nella parte dell’avvocato) libanese è qui alle prese con il suo terzo film , dopo il pregevole esordio di “Caramel”, dolceamara commedia che racconta le confidenze e le vicende di cinque donne in centro estetico di Beirut, e la realizzazione di “E adesso dove andiamo?”, vicenda sempre al femminile, ma ambientato in uno sperduto villaggio libanese, segnato anch’esso da una sottile ma pungente ironia.

Con “Cafarnao” abbandona la leggerezza che accompagnava le opere precedenti per virare decisamente verso la potente denuncia delle tragiche condizioni nelle quali si trova la popolazione più povera della capitale libanese, tra immigrazioni clandestine e degrado sociale. Il titolo allude, infatti, nelle parole della stessa Autrice: ‘alla origine francese, “Capharnaüm” significa caos, è un termine usato nella letteratura francese con questo significato. E’ un villaggio biblico che è stato maledetto per essere troppo caotico, o qualcosa del genere’. La vicenda è quella di Zain, un dodicenne che proviene da una  famiglia disastrata incapace di proteggere la numerosa prole. Lo spunto iniziale del film, un curioso processo intentato dal ragazzo, che si trova in carcere, contro i genitori, accusati di “averlo messo al mondo”, cede ben presto spazio a lunghi flashback che tratteggiano l’odissea drammatica di Zain, che fugge dalla famiglia che ha “venduto” la amatissima sorellina come sposa bambina al figlio del padrone della casa nella quale vivono, il suo vagabondare nella città, l’incontro con una dolce immigrata clandestina Etiope che deve nascondere il neonato figlio, del quale diventerà amorevole custode all’arresto della donna, fino alla sanguinosa vendetta sullo stupratore della sorella. L’abilità di Labaki di lavorare con attori non professionisti, già dimostrata nei film precedenti, viene confermata in quest’opera: la efficacia nella regia di protagonisti letteralmente “presi dalla strada” conferisce al racconto una incisiva carica emotiva, rafforzando la impressione di realtà. D’altro canto, però, l’Autrice non è certo intimidita nell’utilizzare tutte la armi della retorica del racconto cinematografico per suscitare commozione e condivisione: macchina a mano per seguire da presso i personaggi, riprese con il drone, primi piani e slow motion, orchestrazione magniloquente e cori, fino ad un finale rasserenante.  E questo, paradossalmente, depotenzia, almeno in parte, la forza della narrazione, ed è probabilmente alla base delle perplessità di tanta critica. Rimane comunque indiscutibile la sincerità, l’urgenza  della regista nel volere mettere in scena la denuncia di una situazione drammatica ed inaccettabile, che, a partire da un contesto specifico si colora di una dimensione universale. Un film magari non perfetto, ma parere di chi scrive, necessario.

BAGLIORI DI UN CREPUSCOLO CREED II E IL CORRIERE – THE MULE
di Francesco Saverio Marzaduri

Creed II

Se potessi tornare indietro
Se potessi trovare il modo
Ritirerei queste parole che t’hanno ferito
Se potessi raggiungere le stelle
te le darei tutte
e poi mi ameresti
mi ameresti come facevi”

CHER, If I Could Turn Back Time

Rivedendo di recente “Dragon – La storia di Bruce Lee”, “biopic” datato 1993 e diretto da Rob Cohen, si comprende meglio il segmento introduttivo in cui la futura star del kung-fu, ancora bimbetto, fa la conoscenza con lo spettro del dragone indicato nel titolo: una divinità in veste di guerriero destinata a influenzarne il talento e a condizionarne l’esistenza, tara ereditaria di antichissima stirpe e scettro che permette al protagonista, cresciuto, di perpetuare la tradizione delle origini, consegnando il mito all’immortalità. Co-sceneggiato, co-prodotto e interpretato da quello Stallone che aveva lavorato col citato Cohen in “Daylight – Trappola nel tunnel”, il secondo episodio di “Creed”, palese riadattamento della serie “Rocky”, pare ruotare su uno spunto affine: chi conosce la saga del pugile di Philadelphia ben sa che nella quarta puntata – la più discutibile in termini di esito e messaggio ideologico – il bramoso Apollo sfidava il mastodontico Ivan Drago finendone ucciso. Sotto l’egida d’un cinema che da sempre fa del “mélo” il proprio strumento, ricattatorio ma vincente, è inevitabile che il rampollo di casa Creed, Adonis Johnson, scelga di affrontare il rampollo di casa Drago, spinto da orgoglio consanguineo e dalla volontà di vincere la sfida persa dal babbo. Nella pellicola di trentaquattro anni prima, però, Rocky riportava a casa la cintura di campione mondiale dei massimi in pieno fervore revanscista, nel pieno di un’epoca conflittuale in cui i rapporti fra Stati Uniti e URSS erano ancora caldi. È quasi un peccato che “Creed II” non replichi il colpaccio nell’era di Trump, forse perché troppi sarebbero gli avversari da abbattere, e una vittoria a stelle e strisce – benché prevedibile – sarebbe propaganda zozza. Si ripiega, dunque, su una voglia di vincere dettata da orgoglio afroamericano, accentuato dall’introduzione di un nuovo personaggio: il figlio del trainer di Apollo, “Little Duke” Evers, neo-allenatore di Adonis dopo il rifiuto di Rocky. E a ribadire il concetto pensa la recente interpretazione dello stesso Michael B. Jordan in “Black Panther”, diretto dall’autore del primo “Creed” e qui produttore esecutivo. Dalla parte dei russi, del resto, la situazione non è granché dissimile: il desiderio di Viktor di battere il rivale è animato da quella rabbia e quell’odio che accompagnano il genitore da tempo, poiché dopo la sconfitta – come dice un invecchiato Dolph Lundgren a Rocky incontrandolo nel suo ristorante – ha perduto stima, moglie, nomea. La ragione del giovane, più semplicemente, sta nel tentativo di riscatto agli occhi d’una madre assente e anaffettiva: vedere, per credere, la stucchevole scena della cena con gli oligarchi russi in cui, mentre Viktor riceve in omaggio i pantaloncini che furono del padre, rispunta un’algida (e plastificata) Brigitte Nielsen, nella realtà ex signora Stallone. Per sapere in che misura i rapporti tra generazioni contino in un conflitto che tempo, storia e mito hanno ormai archiviato, occorre attendere la resa dei conti finale. Contentiamoci di dire come l’ingrediente dell’amore paterno-filiale sia il “quid” teso a rinverdire la vicenda in un confronto col passato, il vero grande match con sé stessi e i propri trascorsi, e suoni come il primario obiettivo dell’intera operazione: sarà sufficiente ricordare la visita di Adonis alla tomba del padre, occasione per il protagonista di mostrare la bimba natagli nel frattempo, alternata a quella dell’anziano Rocky al figlio dopo anni, durante la quale conosce il nipotino. Senza contare che l’ambizione del giovane Creed deve vedersela col senso di responsabilità che il legame familiare, nella propria ineludibile caducità, gli impone: misto a dolore e vergogna, lo smarrimento di Adonis è restituito dal fotogramma in cui il suo corpo, sospeso tra il fondo della piscina e la superficie durante un’immersione, è contrappuntato dal suono alterato delle voci della madre e della fidanzata. Detto ciò, se squadra che vince non (si) cambia, non sarebbe onesto non affermare che questo nuovo episodio è una miscela di luoghi canonici, ripetizioni, stereotipi ampiamente noti agli “aficionados” della saga, tant’è che l’anonima firma di Steven Caple Jr. assembla situazioni di “Rocky IV” e altre puntate, obbligando l’ex campione di Philadelphia – va da sé – a cimentarsi nel ruolo di allenatore come già con Apollo. Lontani i tempi in cui messaggi edificanti (“Se io posso cambiare e voi potete cambiare, tutto il mondo può cambiare”) costituivano la chiave retorico-patriottarda d’un momento: se ci si abbandona al gioco, presto s’intuisce l’elementarità della morale; come pure l’azzardo nella restituzione d’un “déjà vu” (la preparazione in Messico in luogo di quello nella steppa) in cui si rimescola costantemente il mazzo, perfino in un’era dove le battute a effetto non bastano a sopperire le tecniche del digitale postmoderno. Un capitolo a parte meriterebbe il binomio sport-“show biz”, che Apollo dominava sulla falsariga di Muhammad Ali (come peraltro accentua un dialogo che omaggia lo storico “Rumble in the Jungle”), mentre la puntata in oggetto impiega il “rap” – altra nota espressione afroamericana – a mo’ d’accompagnamento sonoro, in luogo del desueto inno nazionale per l’entrata sul ring del Nostro, intonato dalla compagna non udente. E anche se la serie potrebbe chiudersi qui, ecco qualche nuovo innesto (la presunta sordità della neonata di Adonis) a suggerire che un terzo capitolo – riteniamoci avvisati – è dietro l’angolo.

Dolph Lundgren e Florian Munteanu

Il corriere – The Mule

          “Non m’interessa chi ha torto o ragione
Sul serio non voglio più litigare
Troppo parlare
Dormiamoci su stanotte
Sul serio non voglio più litigare
Stanca di tutti questi giochi”
TINA TURNER

Il tempo non si compra. Giunto alla trentottesima fatica e a metà strada tra “biopic” e “road movie” (generi, peraltro, a lui congeniali), Clint Eastwood fa i conti con l’esistenza e il passare degli anni, i sacrifici e gli egoismi d’una vita spesa per il lavoro anziché per la famiglia, e con una modernità che senza Internet non saprebbe a quale santo votarsi. Nel contempo il granitico attore-regista ridiscute il (ruolo del) suo cinema, sullo sfondo d’una produzione in cui la concezione di “mito” pare non aver più il margine di un tempo. Non a caso, dieci anni dopo “Gran Torino”, Clint torna ad essere interprete d’un suo prodotto, calandosi nel ruolo di un novantenne ex veterano del Secondo conflitto che accetta di far da corriere per il cartello di Sinaloa, e – complice l’aiuto dello stesso sceneggiatore Nick Schenk – ne cambia i nomi e ne traspone la vicenda, documentata dal giornalista Sam Dolnick. La storia è quella di un individuo non ancora inacidito col mondo, come invece Walt Kowalski o Gus Lobel, ma al pari del secondo sufficientemente arzillo per mettersi di nuovo in gioco. Sin dalle immagini d’apertura è presentato come un vecchietto tutt’altro che accigliato: ama i fiori, che coltiva con premura racchiudendovi la propria filosofia, si presenta a una “convention” di beneficenza e ritira il premio con l’aria filantropa e sorridente di quel James Stewart a cui più volte è paragonato, offre da bere agli avventori del bar. Tutti aspetti che la famiglia non tollera in quanto propri d’un carattere pericolosamente disinteressato, pronto a mandar a monte la partecipazione alle nozze della figlia (la vera Alison Eastwood), che decide di non parlargli più. E l’ex moglie malata, che pur lo ama ancora, non ne comprende l’ossessione per l’effimera bellezza di quei fiori che vivono poche ore e per i quali sacrifica tutto. In quei segmenti – reiterando la “vérité” del precedente “Ore 15:17 – Attacco al treno” ma restando nella finzione il cineasta sceglie di metter a nudo il lato più nascosto del proprio personaggio, prima di accentuarne contorni e sfumature lungo la tabella di marcia del nuovo incarico, per lui ignoto, di spacciatore. Il senso di un’avventura vecchio stampo per le strade della Georgia e del Nuovo Messico, dove la vicenda è ambientata, non avrebbe il medesimo effetto senza i lineamenti scavati e rugosi del protagonista, che canticchia Dean Martin al volante di un “pick-up” (Ford, naturalmente) ignaro di effettuare missioni rischiose o, nella seconda parte, essere pedinato dai “G-Men”. E, impipandosene delle raccomandazioni che i trafficanti gli intimano ogni volta, il vecchio imbocca vie alterne e non quelle previste, tarda la destinazione per consumare il miglior arrosto di maiale (e un “fast food” reca l’insegna “Gunny”), aiuta una coppia di colore rimasta in panne. Salva persino i due trafficanti incaricati di sorvegliarlo da uno sceriffo che li riconosce, “corrompendolo” con due fusti di popcorn al caramello. L’aspetto più insolito di “The Mule” risiede in una morbidezza di tratto che il buon Clint, dall’alto dei suoi 89, ha imparato a far proprio con l’acume e la saggezza di chi non ha niente da perdere, permettendosi di chiamare “negri” o “mangiafagioli” le etnie senza recare offese intenzionali; tanto più disarmante è la sua sincerità, quanto più chi agevola n’è impressionato, e addirittura l’imbolsito boss Andy Garcia, amante del tiro al piattello e prossimo a un’imboscata, accetta il suo modo di fare. Una figura disincantata, quella di Earl Stone, che può concedere a due “escort” di spogliarlo a un party sontuoso o rilasciarsi a qualche goffo passo di danza con l’analoga “nonchalance” di quando, a festa finita, consiglia a un narcotrafficante di togliersi da un mondo non adatto a lui. Ne scaturisce il quadro di un benefattore disposto a salvare chi si trova in difficoltà e a riscattare la propria attività in serra, fallita a causa degli acquisti su Internet, col denaro sospetto con cui al contempo prezzola le squillo in un motel, ricompra il “pick-up” e paga il banchetto nuziale della nipote, tentando così di riparare all’assenza permanente verso la famiglia. “Non c’era bisogno che t’arricchissi per essere riammesso”, gli sussurra al capezzale la coniuge morente, cui la rivelazione dell’uomo sulla nuova attività, da iniziale sgomento, sfuma in celia. È in questo divario sulla concezione di scelta individuale, che annovera pure il dissonante significato di “famiglia”, che risiede il tono elegiaco del film: la scelta di un’esistenza solitaria, votata all’egoismo, che contrappone chi si sente “qualcuno” in camera da letto a chi, in un “milieu” malavitoso, trova un nucleo domestico ed è incapace di (dichiarare) gesti d’amicizia. Ma non si può ignorare la realtà con l’identica calma con cui ribattere alle minacce armate: se si sceglie una parte, occorre andare sino in fondo, anche a costi estremi. Proprio tale indifferenza incuriosisce e affascina l’agente Bates (l’“american sniper” Bradley Cooper), il cui dimenticare l’anniversario di matrimonio, causa il lavoro, lo apparenta a Earl e si rivela durante un incontro casuale in un “café”, senza che il federale realizzi che il vecchio è il ricercato. Acciuffato Stone, la missione non ha nulla di eroico: se Walt sacrificava la vita in difesa dei “musi gialli” che prima esecrava, il caparbio “mulo” sceglie di pagare con un’incriminazione priva di mitologici orpelli e, dietro le sbarre, coltivare gli amati gigli, associati, secondo il linguaggio dei fiori, a sentimenti o caratteristiche positive. Opera-testamento – e chissà se ultima fatica – “The Mule” non è il capolavoro che ci si aspetterebbe dall’Eastwood regista, tanto meno vuol esserlo: il segreto della sua riuscita sta nella semplicità, traguardo raggiunto con costanza. Come se l’autore, vicino al crepuscolo, riflettesse su sé stesso e sulla propria produzione con la lucidità dei decani, rivelando una capacità attoriale di volta in volta affinata dal tempo, che adombra gli altri illustri nomi del cast. Per più d’un verso simile all’altrettanto recente “Old Man & the Gun”, di cui serba l’identico disincantato piglio “rétro” sull’America e la sua mitologia, il corriere di Eastwood non rincorre l’indomabilità e si arena a un ineludibile prezzo. Non è più un paese né un cinema per vecchi? Non è mai troppo tardi, insegna Clint: qualcuno da (continuare ad) amare.

Clint Eastwood

“IN QUESTO MONDO”  di Anna Kauber
di Tullio Masoni

Siamo sempre nel solito impaccio: è un documentario, il film di Anna Kauber, o invece si dovrebbe parlare di film-saggio, di reportage antropologico-naturalistico, o altro? Da una trentina d’anni, con l’irruzione delle tecnologie leggere, il moltiplicarsi di esperienze fondate sul video e il digitale, e di occasioni espositive specifiche (festival, eventi…) il termine documentario si rivela sempre più inadatto. Si qualificava distinguendosi dal film a soggetto, cioè di finzione, e propugnava resoconti specchiati di realtà, invece era spesso un esito di ricostruzione, preordinato e sottoposto alle stesse discipline del racconto. Niente di male, in questo; dobbiamo anzi al documentario cosiddetto un ruolo di esercitazione ed espressione linguistica proprie, di poetica e, non di rado, di apprendistato per autori che poi si sarebbero misurati con la finzione “ufficiale”. Insomma il documentario è stato in larga parte – e per fortuna, aggiungerei – “finto”. Anna Kauber è architetto del paesaggio e con “In questo mondo” (2018) narra le scelte esistenziali e di lavoro di donne dedite alla pastorizia. Il film tocca quasi tutte le regioni italiane – isole comprese – e, come prima suggestione, offre un ricco campionario di dialetti, accenti, lessico, e di carattere segnatamente femminile. Un mestiere che in osservanza alle “leggi patriarcali” è stato per secoli appannaggio del comando maschile, si presenta nell’esercizio di donne che, trattando gli animali, mettono una sensibilità di genere, o, se si preferisce, una laica ma sempre intensa inclinazione al materno.

Uomini se ne vedono, nel film, ma distanti, in campo medio o lungo: comprimari: «E’ un film con andamenti diversi – ha detto la cineasta – giocato con la presentazione e i ritorni di personaggi e storie differenti espresse in molteplici linguaggi e modi, del presente e del passato. Volti e paesaggi, animali e azioni, situazioni ambientali e meteorologiche, risate, imprecazioni si susseguono a ritmi alternati di aperture e chiusure, più incalzanti e poi rallentate, varie e tutte stimolanti, vuoi nella quiete che nel fluire più serrato delle narrazioni.»
Da queste parole si può intuire l’energia, addirittura l’esuberanza di cui la Kauber si serve. Il materno cui accennavo deve a un certo punto affrontare l’antico trauma della macellazione.
Come se la cavano le inusuali “pastore”? In parte aderendo a una fatalità di tradizione, in parte lasciando aperto il conflitto.Come ricordavo all’inizio la Kauber è architetto del paesaggio e ciò si avverte dalla cura con cui “inquadra” le storie – sia per l’insieme che per i dettagli – e dalla controllata sublimazione di un vivere che paesaggio è sempre, quindi pittura, fotografia d’arte.
La cineasta, poi, esalta come pochi la povertà dei mezzi di cui dispone; ossia l’uso ottimale di una piccola telecamera e di un equipaggiamento tecnico ridotto all’osso. La musica, impiegata con giusta misura, è di Valerio Camporini Faggioni, mentre una menzione particolare credo meriti il montaggio di Esmeralda Calabria (in collaborazione con Chiara Russo).
Quando si tratta di cinema indipendente è d’obbligo indicare chi ha scelto il rischio, cioè la produzione. Un riconoscimento va quindi a Solares Fondazione delle arti di Parma, che con Wenders, Kusturica, e Giuseppe Bertolucci,  solo per menzionare i primi che vengono in mente, si è più volte distinta non solo in Italia.

DUE FILM: “LA CADUTA DELL’IMPERO AMERICANO” di Denys Arcand e
“UN’ALTRA VITA – MUG” di Malgorzata Szumowska
di Paolo Vecchi

Pierre ha un dottorato in filosofia ma di mestiere fa il fattorino perché guadagna di più che come insegnante. Le sue convinzioni morali vengono messe alla prova quando, durante una consegna, si imbatte in due grosse borse colme di banconote rapinate in un negozio che serve da copertura a traffici illeciti. Decide di tenerle, ma si caccia in un mare di guai, perché sulle sue tracce, oltre alla polizia, si mettono i malavitosi ai quali appartiene il denaro. Per concludere la trilogia iniziata con “Il declino dell’impero americano” e proseguita con “Le invasioni barbariche”, il canadese francofono Denys Arcand ha scelto di cimentarsi con il noir, sia pure a modo suo. Nonostante l’eleganza della regìa, però, si capisce che non si trova molto a suo agio nel cinema di genere, dando a tratti l’impressione di subirlo come un peccato. Per salvarsi l’anima, sceglie l’ironia come controcanto alle sequenze più cruente e infarcisce la narrazione di citazioni filosofico-letterarie giustificate dagli studi del protagonista. Inoltre, attribuisce al film una dimensione etica che da un lato gli fa assumere una funzione quasi didattica, illustrando passo dopo passo i percorsi che la grande finanza utilizza per collocare capitali di provenienza dubbia nei paradisi fiscali offshore.

Dall’altro si spende a favore dei reietti della società, nel suo caso gli Inuit o Eschimesi che dir si voglia, smentendo la massima che il delitto non paga, a patto che venga riconvertito in un’opera di bene. L’ibrido ci sembra tuttavia non del tutto amalgamato, nonostante si riveda volentieri l’attore-feticcio del regista Rémy Girard nel ruolo di un ex galeotto molto particolare, si apprezzi l’eleganza di Alexandre Landry in quello di Pierre e si rimanga incantati dalla deliziosa Maripier Morin, la giovane prostituta-etera dal nome d’arte platonico – leopardiano di Aspasia.Gli stacchi musicali settecenteschi del film di Arcand appartengono a Michael Haydn, fratello minore di tanto Franz Joseph nonché autore di una Grande Messa Tedesca che in epoca preconciliare veniva cantata anche da noi, ovviamente con testo italiano. L’annotazione ci serve come aggancio a “Un’altra vita – Mug” di Malgorzata Szumowska, Orso d’Argento a Berlino. La Polonia raccontata dalla regista, quella della provincia ai confini con la Germania, è infatti ancora profondamente permeata di cattolicesimo.

Jacek è un giovane operaio lungocrinito che ama, in ordine sparso, la fidanzata, il cane e l’heavy metal. Lavora alla costruzione di una statua di Cristo destinata a superare in altezza quella sul Pan di Zucchero di Rio de Janeiro. Quando cade da un ponteggio dell’enorme monumento, dapprima è dato per morto, poi gli viene ricostruito il volto con un intervento chirurgico d’avanguardia. Il titolo originale del film è “Twarz”, cioè faccia, il suo tema principale quello della nuova identità, nella quale il protagonista, un po’ come in un horror, fatica a riconoscersi. Ma la sua “mostruosità” innesca anche una serie di altre conseguenze, in ambito familiare e sociale. La fidanzata lo lascia, il suo diventa un caso mediatico del quale si impossessa la televisione con le spregevoli modalità consuete, mentre la commissione che dovrebbe decidere sulla sua pensione di invalidità gliela nega, inanellando sofismi in qualche modo kafkiani. In questo quadro di generalizzato sfacelo etico si inserisce anche il clero, i cui membri oscillano tra la pruriginosa attenzione del parroco alle pratiche sessuali della ex ragazza di Jacek quando va a confessarsi e la compiaciuta e stolida megalomania delle alte gerarchie  davanti alla colossale statua. Come ha dichiarato la  regista, ci troviamo di fronte al ”cattolicesimo cieco, quello fatto di ipocrisia, aggressione, intolleranza e rifiuto nei confronti di tutto ciò che è nuovo”.  Non si salva praticamente nessuno, in questo film cupo e dalla narrazione tesa. Quasi ad attribuire pezze giustificative alla sua visione tutt’altro che ottimistica su come vanno le cose nel suo Paese, la Szumowska ha precisato nella stessa intervista che il trapianto sperimentale è stato effettuato in una clinica oncologica di Gliwice, l’enorme Cristo lo si può ammirare – si fa per dire – a Swiebodzin. Tutto vero, dunque, o perlomeno verosimile.    

DOCUMENTARI E DOCUMENTARISTI

Il lato oscuro della forza
“Censored voices” di Mor Loushy, con Amos Oz
di Marcello Cella

“Sento di aver detto la verità. Una verità in cui credo ancora oggi”
Amos Oz

Il 28 dicembre dello scorso moriva Amos Oz, uno dei più grandi scrittori israeliani di sempre, autore di grandi libri come, un titolo per tutti, “Una storia di amore e di tenebra”. Quello che molti non sanno è che Amos Oz ha lavorato molto anche con la televisione e il documentarismo, realizzando, partecipando o ispirando progetti che avevano però sempre come obiettivo, come testimonia tutta la sua opera letteraria, la ricerca della verità sulla storia del suo Paese, cercando anche di metterne in luce gli episodi più oscuri e controversi.

Amos Oz

Uno dei documentari più interessanti è quello realizzato dalla regista Mor Loushy nel 2015, “Censored Voices” (Voci censurate), costruito a partire dalle interviste audio, in gran parte inedite, che Amos Oz realizzò nel 1967 nei giorni successivi alla fine della Guerra dei Sei Giorni, in cui Israele sbaragliò gli eserciti egiziano, siriano e giordano conquistando Gerusalemme, Gaza, il Sinai e la costa orientale, una guerra che ancora oggi rappresenta un simbolo importante dell’orgoglio nazionale ebraico. Un gruppo di giovani dei kibbutz, guidati da Amos Oz, registrarono conversazioni intime e dirette, “senza rete”, con i soldati israeliani di ritorno dal campo di battaglia. Di questi dialoghi solo una minima parte furono pubblicati perché l’esercito israeliano censurò il materiale. E ascoltando i dialoghi che Oz sviluppa con i soldati appena tornati dal fronte non è difficile capire il perché. Infatti mentre scorrono le immagini del ritorno trionfale dei soldati dal fronte con la gente che applaude commossa o che passeggia sorridente nelle stradine della città vecchia di Gerusalemme, le parole dei soldati raccontano, man mano che le conversazioni scendono nella profondità del loro animo, un’altra verità. Una verità che in un primo tempo si presenta confusamente alla mente dei giovani militari, ma che poi viene messa a fuoco nella sua spietata evidenza.

Il documentario è strutturato sostanzialmente in tre parti. Mor Loushy racconta con una certa linearità gli avvenimenti che conducono alla Guerra dei Sei Giorni, il velocissimo svolgersi dell’azione militare e il dopo, il ritorno, l’esaltazione collettiva per la vittoria conquistata, la vita grama dei prigionieri arabi, utilizzando immagini e sequenze televisive inedite. Nella prima parte, quella più scanzonata, colpiscono l’ingenua quotidianità della popolazione israeliana condita da canzoni patriottiche o le corrispondenze plastificate di un giornalista americano della BBC, mentre sullo sfondo si preparano le nubi minacciose della guerra. Ma anche nell’imminenza dei tragici avvenimenti l’allegria un po’ svagata dei soldati e dei riservisti richiamati alle armi si impone come se si stesse assistendo ad una innocua scampagnata. Mentre l’alternarsi delle interviste di Amos Oz creano progressivamente crepe sempre più grandi nella narrazione costruita dalla propaganda governativa. Quello che traspare dalle testimonianze dei soldati è in un primo tempo un sentimento sempre più pervasivo di tristezza che appare sorprendente rispetto alla vulgata popolare che li descrive come eroi da venerare di un intero popolo.
“Siamo una generazione che non appartiene a nessun luogo”, afferma uno di loro. E poi un altro, più avanti: “Siamo condannati a vivere tra una guerra e l’altra?”. E poi ancora: “Sono cresciuto all’ombra della guerra. No, anzi, non nell’ombra, ma nella luce della guerra”. “Laggiù essere un eroe significava uccidere di più”. “Avevo l’impressione che non fossero nemmeno umani”.”Sono le persone ad avere valore, non le pietre”. Il tutto mentre, contemporaneamente allo svolgersi della conversazione scorrono immagini sempre più crude di villaggi completamente distrutti e disabitati dove si aggirano solo capre e cani randagi, corpi di soldati arabi morti bruciati lungo la strada o abbandonati nel deserto, carcasse di mezzi militari, i volti tesi e stravolti dalla tensione dei soldati israeliani, i loro sguardi disorientati che si sciolgono per un momento solo quando arrivano sulle rive del Mar Rosso. E poi il ritorno, i festeggiamenti, il Muro del pianto affollato di fedeli, ma anche gruppi di soldati seduti qua e là distrutti dalla fatica e scuri in volto, i volti disperati dei prigionieri arabi vestiti di stracci e gonfi per i maltrattamenti subiti, sui quali anche i soldati intervistati ammettono qualcosa. E’ evidente che le parole di Amos Oz e quelle dei suoi ex commilitoni (anche Oz aveva partecipato alla Guerra dei Sei Giorni in un’unità corazzata nel Sinai), così come le immagini di Mor Loushy, raccontano un altro aspetto di questa guerra, come probabilmente di tutte le guerre, il lato oscuro della forza, della violenza, dei nazionalismi, dei fanatismi. “Non c’è un conflitto tra chi ha e chi non ha. Il conflitto è tra fanatismo e tolleranza, fanatismo e pluralismo, fanatismo e pragmatismo”, dirà poi Amos Oz, secondo un pensiero che tornerà più volte nella sua opera, in particolare in un agile libretto intitolato “Contro il fanatismo” che meritoriamente Feltrinelli ha inserito nel cofanetto insieme al dvd di “Censored voices”.
C’è una domanda implicita che aleggia con insistenza sia nel documentario che nel libro di Oz: il fine giustifica i mezzi o la vita è un fine in sé?. Perché se dal punto di vista politico la Guerra dei Sei Giorni poteva avere una qualche logica nel contesto storico-politico di quel momento, e Oz non lo nasconde, nello stesso tempo lo scrittore israeliano si chiede con insistenza se questo possa giustificare qualsiasi azione, qualsiasi barbarie nel nome della difesa nazionale. “Mi sentivo straniero in una terra straniera. Non credo che la terra parli, pianga e chieda. Credo nelle persone, non nella terra. Nelle persone, non nei luoghi. (…) Gli arabi stavano vivendo quello che noi avevamo vissuto nella Seconda Guerra Mondiale. Questa era la tragedia. Mi identificavo con l’altro. Con il nemico”. Con chi evidentemente veniva ingiustamente scacciato dalla sua terra in nome di un’ideologia politica che non teneva in nessun conto i diritti umani di chi la subiva, come succedeva agli ebrei in Europa durante il nazismo, ma anche, secondo altre ideologie malate che non ritenevano gli ebrei degni di avere un luogo in cui vivere, dopo la fine della guerra. Come racconta con ironia amara lo stesso Oz. “A quel tempo l’Europa era tappezzata di graffiti: ebrei andatevene in Palestina. Quando, molti decenni dopo, mio padre tornò in Europa per un viaggio, la trovò coperta di altre scritte: ebrei fuori dalla Palestina”.

Amos Oz è profondamente consapevole, nella profondità della sua radicale riflessione umanistica, che la realtà dell’oppressione può facilmente trasformarsi nel suo contrario e gli oppressi di ieri diventare gli oppressori di oggi, secondo gli stessi meccanismi tipici di qualsiasi fanatismo nazionalistico. “Gli occupati possono diventare occupanti, gli oppressi oppressori, le vittime di ieri aggressori. Con quanta facilità i ruoli si ribaltano. (…) Nel conflitto fra ebrei israeliani e arabi palestinesi non ci sono “buoni” e “cattivi”. C’è una tragedia: il contrasto fra un diritto e l’altro”. E questo drammatico contrasto di due diritti uguali e contrari nel conflitto fra ebrei e palestinesi, come emerge anche nei dialoghi con i soldati israeliani non potrà, secondo Oz, che finire in un solo modo, in una soluzione di compromesso nel reciproco riconoscimento di due entità statuali distinte. Perché compromesso per Amos Oz non è una brutta parola, ma l’elemento che distingue la vita dalla morte. “Sono un gran fautore del compromesso. So che questa parola gode di una pessima reputazione nei circoli idealistici d’Europa, in particolare fra i giovani. Il compromesso è considerato come una mancanza di integrità, di dirittura morale, di consistenza, di onestà. Il compromesso puzza, è disonesto. Non nel mio vocabolario. Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte”. Un monito forte, da tenere a mente nell’epoca del ritorno trionfante dei nazionalismi e dei fanatismi.

Censored Voices
Regia: Mor Loushy con Amos Oz
Produzione: Israele/Germania
Anno: 2015
Durata: 84’

QUALITA’ IN SERIE

“DAS BOOT”
di Luisa Ceretto

Regia: Andrea Prochaska
Soggetto: dai romanzi Das Boot e Die Festung di Lothar-Günther Buchheim
Sceneggiatura: Tony Saint, Johannes W. Betz
Scenografia: Katerina Koutskà
Musiche: Matthias Weber
Costumi: Chattoune
Interpreti: Rick Okon (comandante Klauss Hoffmann) Vicky Krieps (Simone Strasser), Lizzy Caplan (Carla Monroe), Robert Stadlober (Heinrich Laudrup), Leonard Schleicher (Frank Strasser), Tom Wlaschiha (Hagen Forster), James D’Arcy (Philip Sinclair)…
Produzione: Bavaria Fiction, Sky Deutchland, Sonar Entertainment
Origine: Francia Germania, 2018

8 EPISODI:
1. NEUE VEGE  (L’INCARICO)
2. GEHEIME MISSIONEN (NUOVI ORDINI)
3. VERLUSTE (SPAZIO PER RESPIRARE)
4. ZWEIFEL (SCAMBIO DI PRIGIONIERI)
5. LOYALITÄT (AMMUTINAMENTO)
6. GEGEN DIE ZEIT (EROI)
7. VERDAMMT (LA TALPA)
8. ABRECHNUNG (SCOMODE VERITÀ)

Autunno 1942. Nel porto della Rochelle, situato nel sud ovest della Francia occupata, i nazisti hanno costruito una delle più rilevanti basi per sottomarini. Sono trascorsi nove mesi dalla distruzione dell’U-96 ma intanto sono in corso i preparativi del viaggio inaugurale del nuovo sommergibile U-612, affidato al giovane comandante Klaus Hoffmann.

Per un incidente occorso all’ultimo momento, Frank Strasser deve sostituire il marconista che si è infortunato e non riesce ad avvisare della sua partenza i suoi famigliari più stretti. Mentre lui e il suo equipaggio stanno ultimando i preparativi prima della missione, la situazione sulla terraferma è altrettanto movimentata. La sorella di Frank, Simone, è da poco giunta a La Rochelle dove è stata assegnata al comando della Marina Tedesca, in qualità di interprete e traduttrice, sfruttando, per così dire, la propria doppia nazionalità; nata in Alsazia, quando era tedesca, dopo il primo conflitto mondiale la città è divenuta francese. La giovane si troverà ben presto di fronte a una difficile scelta: continuare a servire la Germania, oppure unirsi alla Resistenza francese del luogo, guidata da Carla Monroe.Nel frattempo, una volta salpati col sottomarino, Hoffmann dovrà far fronte non solo al nemico esterno, ma anche al crescente malcontento alimentato dal comandante in seconda. Malcontento che avrà come estrema conseguenza un vero e proprio ammutinamento ed allontanamento dello stesso Hoffmann, il quale sarà costretto ad abbandonare la nave …
“Das Boot”  è il sequel di “U-Boot 96” che, uscito sui grandi schermi nel 1981, ha lanciato la carriera del regista tedesco Wolfgang Petersen, titolo che ad oggi resta uno dei maggiori successi non statunitensi a livello internazionale, con sei candidature agli Oscar, incluso regia e sceneggiatura. Futuro regista di “La Storia infinita”, “Air Force One”, “Troy”, Petersen incentra il suo film sull’equipaggio di un sottomarino tedesco durante il secondo conflitto mondiale, nelle acque profonde dell’Oceano atlantico. Basato sul romanzo “Das Boot” di Lothar-Günther Buchheim, “U-Boot 96” è da considerarsi come uno dei film più riusciti nella descrizione della vita di bordo all’interno di un sottomarino e a distanza di trentotto anni è ancora tra i titoli più efficaci, per la coerenza di un racconto epico e al contempo claustrofobico.

 La vicenda della serie “Das Boot”, co-produzione franco-tedesca, si svolge nel 1942, un anno dopo gli eventi della pellicola di Petersen. Composta di otto episodi di un’ora ciascuno, la serie si sviluppa lungo due filoni narrativi che si sovrappongono, senza mai intrecciarsi. Da una parte abbiamo le disavventure del sommergibile U-612 in missione in acque nemiche, dall’altra si entra nel vivo della guerra, nelle dinamiche di una città come La Rochelle occupata dai nazisti dove ogni azione da parte della Resistenza contro le forze nemiche si ripercuote necessariamente sulla popolazione francese. A fare da trait d’union tra le due parti, le figure dei fratelli Strasser, Frank, marconista della Kriegsmarine, assegnato, suo malgrado, all’U-Boot 612 e la sorella, Simone, interprete e traduttrice assegnata al comando della Marina Tedesca.

Due vicende che sul piano filmico impongono cifre stilistiche differenti, a partire dalla scelta dei luoghi. Due spazi, uno asfittico, claustrofobico come quello di un sommergibile, con inquadrature che riprendono cunicoli stretti, bui e umidi, dove i marinai sono costretti a coabitare – da questo punto di vista rappresenta un perfetto spaccato umano, una riflessione sulla paura del singolo di fronte al conflitto, sulla necessità di dover affrontare una guerra che, probabilmente, non appartiene a nessuno di quei marinai, nondimeno, sul libero arbitrio, sull’importanza e l’opportunità di ognuno di prendere una posizione -. E invece un altro su terraferma, che si compone di più luoghi, dai locali occupati dal Comando nazista, alla dimora di Simone, alle vie della Rochelle, dove il Terzo Reich, col benestare dei rappresentanti della Repubblica di Vichy piegata al volere hitleriano, semina violenza e terrore. Una scelta del tutto vincente anche sul piano della scrittura, per la capacità da parte degli sceneggiatori di evitare ogni sorta di sbilanciamento a scapito dell’una o dell’altra storia. “Das Boot” riesce infatti ottimamente a coniugare le esigenze del genere propriamente bellico (nelle scene che si svolgono all’interno del sottomarino) e insieme a raccontare l’eroismo dei singoli contro l’orrore nazista. Un particolare apprezzamento per l’eleganza e cura nella ricostruzione degli ambienti, illuminati da un’efficace fotografia dai toni plumbei che restituisce l’angosciosa atmosfera del periodo. Una serie dove protagonista è la Storia con le sue inevitabili conseguenze e ripercussioni sui destini dei singoli.

AUTORI NEW ENTRY

Roberto Baldassarre
Nato a Roma il 10 febbraio 1981, si è laureato in Musica e Spettacolo, presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, con la tesi: Le “Storie scellerate” di Sergio Citti dalla tradizione letteraria al cinema. Svolge l’attività di critico cinematografico dall’aprile 2010, scrivendo per riviste on-line e/o cartacee. La sua attenzione, oltre al cinema di Sergio Citti (sta terminando di scrivere una monografia/saggio di prossima pubblicazione) è rivolta particolarmente ai documentari sulla “Strategia della tensione” e al cinema brasiliano. Le riviste per cui ha collaborato o collabora sono: Point Blank (2010-2015); Recencinema (2013-2015); Cinema4stelle (2015-2017); Nocturno (2015-2017); Sentieri Selvaggi (2015); Cinecritica (2017-presente); Cineclandestino (2017-presente); Filmaker’s Magazine (2019-presente). È stato assistente di produzione presso la Contraseña Producción (Barcellona) nel 2013, ed è socio SNCCI dal luglio 2017.

Mario Galeotti
Nato nel 1974 a Sestri Levante, ha conseguito il dottorato di ricerca in «Le società europee e le Americhe in età contemporanea» presso l’Università degli Studi di Genova. Si occupa di storia del cinema e dello spettacolo e ha una lunga esperienza nel settore degli audiovisivi come operatore e montatore. In passato ha pubblicato numerosi articoli per Film D.O.C., il periodico di informazione cinematografica curato dall’AGIS Liguria, e per il mensile Medioevo edito da De Agostini-Rizzoli, dove ha curato per alcuni anni una rubrica sui rapporti tra il cinema e l’Età di Mezzo. Attualmente ha avviato collaborazioni con le testate on line Inside The Show e Carte di Cinema, con il quadrimestrale di cinema e visioni Fata Morgana e con la rivista scientifica Storia e Memoria. E’ autore di diverse monografie: Dino l’amico italiano. Vita e carriera di Dean Martin (Falsopiano 2017), Immagini e presenze americane nel cinema italiano (Europa Edizioni, 2018), Grande Tony. Little Tony, storia matta di un cuore rock (Arcana, 2018), Lo squadrone bianco. Il cinema coloniale italiano negli anni del fascismo, (La Tigulliana, Santa Margherita Ligure 2019). Di prossima pubblicazione, con Falsopiano, il libro Peter Cushing e i mostri dell’inferno.

Valentino Saccà
È giornalista-pubblicista e critico cinematografico, scrive di cinema e tiene corsi e laboratori sul linguaggio del cinema e dell’audiovisivo presso biblioteche, scuole e centri culturali.
E’ stato selezionatore per il Sedicicorto International Film Festival e collaboratore al Festival Adelio Ferrero. Ha pubblicato una monografia sul cinema di Renato Pozzetto per la collana Cineteca di Caino (Edizioni Il Foglio Letterario) e ha scritto saggi per monografie collettive su Sergio Martino, Aldo Lado e Sergio Sollima. Ha scritto di cinema per Inland – Bietti Heterotopia, Fata Morgana, FilmTv. Ha collaborato con Piero Di Domenico per Ermitage Cinema ed è consulente cinematografico per il Festival Arte e Fede di Orvieto.
Sempre a Orvieto ha condotto trasmissioni come Cine60, Cine70 e TeleTiascolto (da lui ideate) a Radio Orvieto Web, intervistando anche lo sceneggiatore Dardano Sacchetti. Ha scritto di cinema e letteratura su riviste locali come Arnolfo e TuttOrvieto Magazine.
E’ vice presidente del Cineclub locale ARCI Armata Brancaleone di Orvieto.

CREDITS

Carte di Cinema 19

Sede c/o FEDIC dott.ssa Antonella Citi, Via E.Toti, 7 – Montecatini Terme (PT)
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Carte di Cinema è edito dalla FEDIC -Federazione Italiana dei Cineclub
Direttore responsabile: Paolo Micalizzi  (E-mail: paolomicalizzi@gmail.com)
Direttore editoriale: Lorenzo Caravello
Redazione: Maurizio Villani
Progetto grafico e impaginazione: Lorenzo Bianchi Ballano

Hanno collaborato al numero 19 della rivista online: Roberto Baldassarre, Alfredo Baldi, Gianluca Castellini, Marcello Cella, Luisa Ceretto, Maria Pia Cinelli, Mario Galeotti, Roberto Lasagna, Francesco Saverio Marzaduri, Tullio Masoni, Paolo Micalizzi, Giovanni Ottone, Valentino Saccà, Paolo Vecchi, Maurizio Villani, Marco I. Zambelli.