2019 numero 18

Sommario

ABSTRACT

UNO SGUARDO SUL CINEMA FILIPPINO di Francesco Saverio Marzaduri
Panoramica su una tra le produzioni cinematografiche più interessanti, e meritevoli di riscoperta, del secolo: come insegna la sua storia, qualcosa che va oltre la semplice dimensione festivaliera.

CAROL  REED: UN GRANDE MAESTRO DELLA SUSPENCE di Giovanni Ottone
Ritratto di Sir Carol Reed, regista inglese dalla prestigiosa carriera in film drammatici e pieni di suspence

CINEMA E LAVORO: STHÉPHANE BRISÉ, IL NUOVO VOLTO DELL’IMPEGNO di Roberto Lasagna
Il metodo di Brisé è un lavoro rigoroso con interpreti che, a fianco del prediletto Vincent Lindon, sono veri protagonisti della realtà, come i sindacalisti neIn guerra o i dipendenti del supermercato in La legge del mercato.

LA PAZZA STORIA DI UN PICCOLO UOMO. IL CINEMA DI MEL BROOKS di Riccardo Poma
Mel Brooks è da molti considerato uno dei più grandi registi comici americani del dopoguerra. Pur spesso accolto da giudizi contrastanti, il suo cinema è senza ombra di dubbio uno dei precursori – nonché, secondo molti, uno dei più riusciti esponenti – di quello che oggi chiamiamo, talvolta a sproposito, umorismo demenziale. Ovvero, il carattere comico delle gag viene esasperato a tal punto da rinunciare al realismo (tipico della commedia) e approdare alla farsa che è, per definizione, surreale.

TOPOLINO VISTO DA GIACOMO DEBENEDETTI. ESERCIZI DI CRITICA CINEMATOGRAFICA di Maurizio Villani
In occasione del novantesimo anniversario della prima proiezione di un corto sonoro di Topolino (“Steamboat Willie”, 1928) – l’articolo prende in esame un saggio di Giacomo Debenedetti che, nei primi anni trenta, riflette sulla figura di Topolino e sulle implicazioni teoriche che l’avvento del sonoro comporta per il linguaggio cinematografico.

RENATO POZZETTO E LA COMMEDIA DEGLI ANNI 90 – L’ALTRA FACCIA DEL COMICO BAMBINO di Valentino Saccà
Pozzetto e gli Anni 90 – Mutazioni e variazioni di una maschera comica

FILMMAKER ALLA RIBALTA: MATTEO PALMIERI di Roberto Merlino
Ritratto di un filmaker-attore, tra cinema e teatro.

RIVIERE IN CORTO di Francesco Presta
Resoconto del Festival che si svolge in Calabria e pubblicazione di un elaborato sui cortometraggi in Concorso scritta da una classe del Liceo Scientifico di Scalea (Cs)

CINEMA E ALTERNANZA SCUOLA LAVORO  AL CINECLUB FEDIC CAGLIARI di Pio Bruno
Resoconto di una collaborazione tra il Cineclub FEDIC Cagliari e alcuni Istituti della Scuola Secondaria di II grado. Un incontro, quello tra gli studenti e il cinema amatoriale, che sembra funzionare: tre film realizzati in due anni ed ora arrivano anche i premi e i riconoscimenti

SUCCESSO A FORLÌ DELLA PRIMA EDIZIONE DI ITALIA FILM FEDIC di Paolo Micalizzi
Cronaca di un Festival FEDIC a Forlì con larga partecipazione di Soci FEDIC

VENEZIA 75. OPINIONE CONDIVISA: LA MIGLIORE MOSTRA DEGLI ULTIMI ANNI di Paolo Micalizzi
Una 75.ma Mostra con Sezioni aperte a film di genere che hanno consentito un rapido giro del mondo cinematografico, con Omaggi a icone della memoria, con Eventi collaterali in cui anche la FEDIC era presente.

I CLASSICI E IL FUTURO DEL CINEMA di Vittorio Boarini
Una Venezia classici che ha coperto l’arco temporale 1920 – 1988, particolarmente ricca e suggestiva; ricca per il numero di opere e qualità, suggestiva per il rapporto con Venezia Virtual Reality che fa si che la memoria del passato può sembrare la condizione per meglio comprendere il futuro.

CORTO FICTION 18, CON PASSIONE, UMILTÀ E COERENZA di Paolo Micalizzi
Una Festival all’insegna de “Il Bello, il Gusto e l’Utile del Cortometraggio”, giunto alla 18.ma edizione.

SEDICICORTO INTERNATIONAL FILM FESTIVAL, TRA NOVITÀ E FUTURE PROSPETTIVE di Francesco Saverio Marzaduri
Panoramica sulla XV edizione del Sedicicorto International Film Festival, tra appuntamenti e molteplici attività.

TRA CINEFILIA, ARTE E PENSIERO CRITICO: FESTIVAL ADELIO FERRERO – CINEMA E CRITICA 2018 di Valentino Saccà
Pensare il cinema, guardarlo e (r)icostruirlo criticamente – Tirando le fila del Festival Adelio Ferrero 2018

SEMPLICI SVOLTE DEL DESTINO di Marco Incerti Zambelli
“On Chesil Beach” e “ Il verdetto”, tratti da due recenti romanzi di Ian McEwan e da lui sceneggiati, ripropongono quel senso di inquietudine che attraversa da sempre l’opera dello scrittore inglese.

AMERICA VS. AMERICA: BLACKKKLANSMAN E FAHRENHEIT 11/9 di Francesco Saverio Marzaduri
Il ventitreesimo lungometraggio di Spike Lee è un sonoro schiaffo all’“endorsement” trumpiano, in cui il “climax” nixoniano che funge da sfondo, senza scalfire la volontà di sfottere il Sistema a stelle e strisce, è allegorico riverbero di quello attuale e pone la Storia come invito retrodatato a intendere quel che va inteso. Nel suo decimo lavoro, invece, Michael Moore continua a dare il buon esempio e ci ricorda che il concetto di “democrazia” è un sogno ancora da inseguire.

COLD  WAR di Tullio Masoni
Per 25 anni Zula e Viktor – lei cantante tradizionale, lui pianista – si incontrano e si lasciano fra la nativa Polonia, Berlino, Parigi…Una storia di amore e infelicità sullo sfondo della “guerra fredda” (con le sue barriere), della memoria culturale, e di un irriducibile “male di appartenenza”.

LONDON & CO …. di Paolo Vecchi
“Senza lasciare traccia” si inserisce in quella corrente filosofica peculiarmente americana che ha come numi tutelari Emerson e Thoreau, che vede nel ritorno alla natura uno strumento salvifico rispetto alle gabbie del sociale, ma anche London, per l’idea che la natura ha delle leggi più ferree di quelle del consorzio umano.
Anche i sei capitoli della “Ballata di Buster Scruggs” possiedono una loro risonanza letteraria, ora picaresca come in Harte, ora con le striature orrorifiche di Bierce, ma dichiaratamente a London si rifà il quarto episodio, “The Gold Canyon”, in cui la natura si chiude su se stessa al canto del cercatore d’oro, cedendo il passo allo stravolgimento e alla violenza portati dall’uomo, per poi ricomporsi ineluttabilmente alla sua partenza.

STEFANO SAVONA ESPLORATORE DEI MARGINI DELLA VITA di Marcello Cella
Una riflessione sulla cinematografia del documentarista Stefano Savona

KIDDING di Giancarlo Zappoli
Analisi della Seria televisiva su Mr. Pickles.

PANORAMA LIBRI a cura di Paolo Micalizzi
Segnalazione – recensione di libri di Alberto Pesce e di Gian Piero Calasso, sulla Calabria nel cinema e sulla Storia, in immagini, della Mostra di Venezia.


CINEMA E CINEASTI INDIPENDENTI

UNO SGUARDO SUL CINEMA FILIPPINO
di Francesco Saverio Marzaduri

Non c’è da stupirsi se anche la produzione cinematografica filippina, come quelle di altri paesi, diventa oggetto di discussione quando un suo titolo, o un suo autore, s’impongono inaspettatamente in qualche rassegna, presentando assai più d’un semplice motivo d’interesse. A maggior ragione quando tale produzione denota aspetti minimali, frutto di realtà intimiste, che l’occhio sensibile della cinepresa – non esente talvolta da virtuosismi d’“essai” o da felici guizzi autoriali – consegna a un pubblico non edotto in materia ma avido di novità. Come spiegare, altrimenti, la vittoria di Lav Diaz alla 73° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, conseguendo per primo il Leone d’oro col monumentale affresco in bianco e nero “The Woman Who Left – La donna che se n’è andata”? E pazienza se la confezione “indie”, acquistata dalle applicazioni multimediali per consentirne l’anteprima festivaliera, abbia reso impossibile la sua distribuzione nei circuiti di sala. Nel mettere in scena il calvario e la redenzione della protagonista, pregiudicata per trent’anni a causa di un delitto mai commesso, l’autore regala quasi quattro ore di esistenza morale rilasciandosi al senso d’attesa, senza indugiare su una dilatazione di tempi ch’è riverbero di un’umana esistenza carpita in ogni sua casualità. Fattori, questi, di non facile divulgazione, che costituiscono assoluta novità nella specifica produzione nazionale, ma proprio per questo coraggiosi e innovativi.

“The Woman Who Left – La donna che se n’è andata”, 2016

Diaz non è però il solo autore di rilievo della cinematografia filippina: il modello archetipico della sua opera è il compianto Lino Brocka, la cui prolifica carriera – che annovera più di quaranta lavori – lo ha fatto definire in patria il “miglior regista di sempre”. E non sorprende che al pari del maestro – in un paio di occasioni, nell’arco di un lustro, candidato a Cannes dov’è stato pure membro di giuria – Diaz sia un “habitué” di eventi e rassegne, con opere quali “Death in the Land of Encantos” e “Melancholia”, la cui sterminata lunghezza raggiunge perfino le dodici ore, attraverso un elaborato impiego delle unità di azione e un persistente uso del piano-sequenza, facendone uno degli autori di punta dell’ultimo decennio. L’ultima fatica, “The Season of the Devil”, ritorna a un genere già molto amato nel suo Paese, il musical; e nel dedicarlo alle vittime della dittatura di Marcos e al periodo in cui fu in vigore la legge marziale, che permise a bande armate di spadroneggiare nel nome di un’ipotetica “Nuova Società”, Diaz chiarisce la sua opposizione ad ogni regressione autoritaria. La musica, che fa del film un’autentica “rock opera”, funge da nuova forma espressiva permettendo al cineasta di cimentarsi anche come autore di trentatré brani inseriti in colonna. Tuttavia, come detto, la produzione delle Filippine non s’esaurisce qui; tanto che Renato Loriga, con il proprio recente volume “Autohystoria – Visioni coloniali del nuovo cinema filippino”, colma finalmente la vasta lacuna nel panorama editoriale su tale cinematografia, non solo delineandone la storia dalle origini ad oggi ma affrontandone aspetti critici e interpretazioni teoriche. Un’indagine sulla storia, il colonialismo, la costruzione dell’identità nazionale, che esamina la fitta rete di relazioni interdipendenti tra registi e produttori, settori della critica e dei festival, pirateria digitale e mondo accademico, analizzata e discussa con gli strumenti della teoria post-coloniale. Scoprendo così come, fin dagli esordi, l’intero processo produttivo e distributivo filippino fossero occhiutamente sorvegliati da Hollywood, che ne gestiva il mercato modificando le opere di talenti emergenti, quelli più legati alle tradizioni popolari e al folklore, presentandoli in confezione occidentale, così da renderle digeribili a un pubblico internazionale non avvezzo (né particolarmente interessato) alla cultura filippina. L’esito di tali ibridazioni trovò la propria dimensione nel musical, appunto, e nella commedia, nel fantasy, in apologhi avventurosi spesso ispirati a leggende locali, e soprattutto nel “mélo”, prediletto dagli autori e da un pubblico sensibile alla rappresentazione di conflitti e sentimenti estremi. E nel rispondere al serrato controllo delle “major”, giovani “film makers” insorsero, dando vita a una nuova produzione rigidamente in lingua locale e a target popolare. Il “Bakya” – nome che trae origine dagli zoccoli di legno calzati dai filippini prima del sandalo di gomma, simboleggianti la povertà della nazione – include opere che principalmente attingono al teatro “Senakulo”, devota e rispettosa raffigurazione della passione di Cristo in linea con l’iconografia ispanica, e alla “Sarsuwela”, adattamento locale della spagnola “zarzuela”, genere lirico e drammatico che miscela ballo, canto e dialogo. Il primo a seguire tale linea produttiva, José Nepomuceno, è anche considerato l’iniziatore del cinema filippino in lingua “tagalog”, con “Country Maiden” – che con un geniale “escamotage” riesce a evadere il problema del muto – e con “Manananggal”, che coniuga il genere orrifico alle creature della tradizione folkloristica locale (benché tale horror simil-vampiresco sia poi andato perduto come gran parte della filmografia prebellica). Si ricorda il corale “Noli me tangere”, di accurata ambientazione ottocentesca, ispirato a un romanzo storico di Rizal che ricostruisce il periodo della dominazione spagnola; e a Nepomuceno s’accredita il primo film filippino sonoro, “Punyal na ginto”. Assai vicino ai gusti hollywoodiani è l’attore-regista Vicente Salumbides, ammiratore della “sophisticated comedy”, che dopo varie esperienze da comparsa su set americani esordisce con “Miracles of Love” rivoluzionando il linguaggio cinematografico in voga, grazie all’introduzione del montaggio alternato o all’innovativo impiego del primo piano.

“Gengis Khan”, 1950

A guerra conclusa la produzione rifiorisce quasi subito, tornando in breve tempo al ritmo frenetico degli inizi, prediligendo i generi usuali cui affiancare saghe locali, o bibliche, e opere in costume di gusto hollywoodiano. Com’è accaduto per altri paesi del Sud-Est asiatico, le vicende storico-coloniali contribuiscono a rendere la storia del cinema filippino complessa e stratificata, ma va segnalata la difficoltà di ricostruirne la nascita e i primi sviluppi a causa della scarsa disponibilità di fonti. Di quasi quattrocento pellicole girate tra il ’19 e il ’44 se ne sono salvate solo tre; intere stagioni e grandi successi della produzione filippina si possono ricostruire unicamente sulla base di poche conservate “affiches”. Da sempre, nelle Filippine, il cinema rappresenta una parte importante dell’esistenza quotidiana e della cultura degli abitanti, e il suo sviluppo procede costantemente e dialetticamente entro i citati poli delle tradizioni popolari e dei codici occidentali. A quel periodo, infatti, risale il primo fortunato tentativo di valicare i confini nazionali, alla ricerca di una notorietà che renda giustizia alla sua ricchezza espressiva: col biografico “Gengis Khan”, datato 1950, l’autore Lou Salvador Jr. mescola con buon equilibrio cultura popolare e suggestioni del cinema occidentale, conquistando attenzione alla Mostra del Cinema di Venezia e aprendo la strada percorsa, più tardi, dal menzionato Brocka. Nello stesso periodo, l’interprete-produttore Manuel Conde sarebbe passato alla regia guadagnandosi il soprannome di “De Mille filippino”, per i suoi prodotti spettacolari. Se solido mestiere e profonda consapevolezza caratterizzano anche le filmografie di Lamberto V. Avellana e Gerardo de León, nomi la cui sterminata filmografia comprende una settantina di titoli ciascuna, non meno rilevante è Eddie Romero, cineasta completo la cui opera si sviluppa in un periodo difficile, che assiste al crollo del “system” e all’origine d’una severa censura. Se alcune sue fatiche sono attente all’introspezione psicologica o alla rigorosa denuncia, da “Ganito Kami Noon, Paano Kayo Ngayon?” a “Banta ng Kahapon”, il sodalizio con Roger Corman innerva la produzione del Paese di un’aura prettamente a stelle e strisce, come testimoniano gli “exploitation” girati negli States, come “Donne in catene”, allegoria “sui generis” della dominazione coloniale subita dal Paese.

“Tinimbang ka ngunit kulang”, 1974

Verso gli anni Settanta si sviluppa una forte contestazione contro l’“establishment” politico-culturale, grazie a prodotti che riescono sapientemente a forzare i limiti imposti dalla censura: da Giappone e Cina giungono modelli d’un cinema che affida alla violenza e all’erotismo il compito di esprimere una discutibile critica alla politica e alla società. Molte pellicole mostrano anche una ricostruzione del tragico periodo che vide l’isola sotto l’influenza del dominio spagnolo e americano, martoriata da colonialismi, repressioni cruente e dittature. Un Paese che affronta catastrofi naturali, invasioni, crisi politico-economiche, governi autoritari e leggi marziali, conflitti interni e rivoluzioni, e ancora pressioni e destabilizzazioni prima di arrivare affannosamente a una stabilità e a una democrazia ch’è oggetto di odierne, pesanti rivisitazioni. La “bagarre”, va da sé, influenza la cinematografia nazionale e s’arriva alla creazione di un immaginario storico-politico condotto da cineasti che, pur differenti a livello di approccio e sguardo filmico, sono accomunati da notevole sensibilità nell’inscenare le tristi vicende di un Paese affascinante e antico per cultura e folklore. Il cinema è un importante strumento di espressione e rinascita: un mezzo culturale e linguistico fondamentale per riportare e trasformare in immagini la Storia attraverso una profonda analisi geopolitica, in grado pure di sviscerare il rapporto esistenziale, e non solo, che lega il popolo alla terra di appartenenza. Autori diversissimi tra loro, Lino Brocka e Mario O’Hara sono uniti da un profondo rigore etico e da una filmografia che trasuda emozioni e suggestioni, sensibilità e lirismo, figli d’uno sguardo scrupoloso e critico su ciò ch’era ed è divenuta la società filippina, nella propria lenta e faticosa ripresa. L’interesse del primo alle forme della cultura popolare ostenta un desiderio d’innovazione, benché sia nel melodramma che Brocka mostri una compiuta maturità artistica, interpretando con sguardo aperto e curioso il cambiamento, senza sottovalutare la disgregazione di rapporti umani quasi sempre asserviti al sesso e al denaro (vedasi opere come “Tinimbang ka ngunit kulang” o come “Manila in the Claws of Light”). Sceneggiatore per Brocka in numerose occasioni, il secondo è maestro del “noir”, firma di capolavori di genere ma anche di testimonianze d’impegno politico: girato a pochi mesi dall’assassinio di Benigno Aquino Jr., figura di spicco dell’opposizione a Marcos, “Hope of the Heart” narra le terribili violenze compiute dal regime militare. Nella linea di una continuità col passato s’impone Carlos Siguion-Reyna, anch’egli fedele al “mélo” e al “noir”, i cui film sono costituiti da un senso dell’attesa e del tempo dilatato sino allo spasimo: al centro dei suoi apologhi, storie assortite di uomini e donne, sguardi che si sovrappongono, ambienti e situazioni filmati con accurata passione per il dettaglio.

“Ma’ Rosa”, 2016

Certo è che, alla stregua di cinematografie “minori” sempre più oggetto d’interesse e riscoperta, la produzione filippina è tornata in auge con una propria insospettabile vitalità per merito di giovani talenti e figli d’arte – a parte Diaz, Brillante Mendoza o Sonny Calvento – il cui cognome basterebbe a dire dell’eredità che tali nomi continuano ad esercitare. Sarebbe un errore poi non menzionare maestranze quali Raya Martin o Gym Lumbera, John Torres o Sherad Anthony Sanchez, sino a Pepe Diokno e Dodo Dayao, oltre a qualche nome della generazione precedente (da Eddie Garcia all’“underground” Khavn De La Cruz, da Raymond Red a Kidlat Tahimik). Il rischio, se di rischio è lecito parlare, è che questa nuova ondata venga vista come il punto di partenza della cinematografia filippina; non meno certo è infatti che il cinema dell’arcipelago viene da una storia secolare, smarrita nella memoria cinefila ma documentata e rintracciabile – in una parola, “viva”. Impensabile nominare tutti i registi della produzione: benché non siano state citate figure anch’esse meritevoli (César Gallardo, Gregorio Fernández, Cirio H. Santiago, Ishmael Bernal), che le avrebbero consentito di “risorgere” nell’epoca della prima indipendenza a basso costo, a tutt’oggi le Filippine rappresentano una ben consolidata realtà del panorama filmografico internazionale, riuscendo a conquistare ampie fette di critica e pubblico attraverso riconoscimenti a livello globale. Verrebbe da pensare, forse a torto, che il cinema filippino si sia sviluppato e abbia assunto una precisa fisionomia solo nel terzo millennio, ma la fase odierna non è che l’evoluzione d’una tradizione filmica che ha le proprie radici negli albori della Settima Arte (“La Vida de José Rizal” di Edward Gross risale al ’12) e che, sebbene a lungo trascurata, resta fondamentale per capire come sarebbe mutato il cinema di questa realtà insulare del Sud-Est asiatico. Cinema che meriterebbe di essere ripensato a prescindere dalla sua attuale dimensione festivaliera.

CAROL REED: UN GRANDE MAESTRO DELLA SUSPENCE
di Giovanni Ottone

Carol Reed

Sir Carol Reed (1906-1976), regista inglese con una prestigiosa carriera che raggiunse l’apice nel ventennio tra il 1939 e il 1958, è uno dei grandi maestri della suspence. Ha realizzato  alcuni capolavori drammatici in cui l’analisi dei personaggi e delle loro pulsioni si accoppia con la rara capacità di descrivere gli ambienti e le situazioni. Reed, che fu inizialmente attore, poi direttore di scena in teatro e infine regista cinematografico, tenne costantemente, nel corso della sua vita, un basso profilo, essendo ostinatamente avaro nel rendere dichiarazioni e interviste. La possibile spiegazione della sua autonegazione a divulgare la vita privata e i tratti della sua personalità derivò probabilmente dal fatto di essere il figlio illegittimo di Sir Herbert Beerbohn Tree, grande attore e impresario teatrale dell’epoca vittoriana – edwardiana, e della sua amante May Pinney Reed. Sua madre, fin dalla prima infanzia, gli intimò sempre di occultare la sua origine d egli continuò ad essere reticente in proposito anche quando fu al vertice della carriera. Da questa traumatica esperienza deriva senza dubbio la sua scelta di privilegiare un personaggio specifico, ricorrente in molti suoi film. Si tratta del bambino che partecipa al mondo degli adulti senza comprenderlo totalmente. Reed esordì alla regia nel 1935, dirigendo, insieme a Robert Wyler, “It happened in Paris”, una piccola commedia tratta da un’opera di teatro francese. La sua filmografia si può suddividere in due periodi. Dal 1935 al 1949 diresse 18 lungometraggi e tre documentari e, in particolare, negli anni precedenti la guerra lavorò soprattutto nell’ambito dell’industria cinematografica britannica, in piccole produzioni destinate al mercato interno. Tra il 1950 e il 1970 fu autore di appena 10 film, trattandosi peraltro di produzioni su scala maggiore, di carattere internazionale e dedicate a un pubblico più ampio. Tra questi ultimi è almeno da ricordare “The Agony and the Ecstasy” (“Il tormento e l’estasi”, 1965) che racconta il confronto tra Michelangelo (Charlton Heston) e il Papa Giulio II (Rex Harrison) durante la realizzazione pittorica degli affreschi della Cappella Sistina.

Charlton Heston (Michelangelo) in “Il tormento e l’estasi”

Il cinema di Reed può essere definito realista e poetico, a metà strada tra il neorealismo italiano e il formalismo britannico. Ebbe una grande capacità di rendere il senso del dramma. Rivisitò con grande originalità il genere del melodramma e fu geniale nel genere thriller, dove si caratterizzò per la capacità di mostrare la tensione nelle azioni. Si ispirò alle fonti letterarie, in primis ad autori britannici fondamentali quali Henry Graham Greene e  Joseph Conrad, senza esserne sovrastato. Ma, senza dubbio, il suo grande merito fu quello di saper ricostruire i tratti essenziali delle epoche storiche in cui erano ambientati i suoi film, ad esempio, il moralismo dell’epoca vittoriana, il patriottismo nel corso della Seconda Guerra Mondiale e il clima esistenzialista e il malessere del dopoguerra. I suoi lungometraggi trattano essenzialmente di situazioni in cui l’individuo è personalmente responsabile, dal punto di vista morale, dei suoi atti e non può essere assolto in alcun modo a causa dell’immoralità o del clima sociale degradato che lo circonda. In sostanza, Reed esprime un profondo pessimismo, temperato appena da una lieve ironia.
Reed fu sempre fedele ad una concezione artigianale – industriale del cinema. Nel corso degli anni affinò la sua abilità narrativa e il controllo del mezzo cinematografico, grazie ad un metodo di lavoro nettamente pianificato. Nel suo cinema non esiste un unico elemento stilistico che è dominante in ognuna delle sue opere. Egli seppe fornire sempre una serie di risposte pragmatiche ai problemi specifici di ogni film. Assimilò e perfezionò scelte tecniche già appartenute ad altri registi, ma le sviluppò fino a caratterizzarsi per una forma personale di espressione tale da essere funzionale alla sua singolare sensibilità. Dal punto di vista tecnico, fu estremamente meticoloso. In particolare va ricordata la qualità della sua immaginazione visiva, l’uso delle luci nei film con prevalente ambientazione notturna e il controllo di tutti i suoni e i rumori in presa diretta. Fu abilissimo nella direzione degli attori, possedendo un notevole talento per comprendere e valorizzare interpreti di varie nazionalità, al di là della sua persistente inclinazione a scegliere attori specializzati nella recitazione di opere del teatro vittoriano – edwardiano. Non tollerava eccessi, imponeva un controllo ferreo e puntava alla sobrietà. Tra i molti interpreti maschili che lavorarono con lui ricordiamo: James Mason, Joseph Cotten, Orson Welles, Ralph Richardson, Trevor Howard, William Holden, Alec Guinness, James Donald, Robert Newton, Anthony Queen. Fra le attrici, protagoniste di una galleria di eroine fataliste che chiedono solamente alla vita di risparmiare gli uomini che amano, si annoverano: Margaret Lockwood, Alida Valli, Kathleen Ryan, Michèle Morgan e Sophia Loren
Commentiamo le opere più significative di Reed, realizzate nel ventennio in cui si distinse maggiormente. “The Stars Look Down” (“E le stelle stanno a guardare”, 1940), adattamento dell’omonimo romanzo di Archibald Joseph Cronin, racconta una vicenda che si svolge in un distretto minerario inglese durante gli anni ’20.

Nel film, non particolarmente inventivo rispetto alla fonte letteraria, si mescolano il tema sociale e una vicenda personale e sentimentale. La descrizione delle patetiche condizioni di lavoro dei minatori di carbone raggiunge un climax drammatico quando si determina un tragico e disastroso incidente all’interno dei pozzi e assistiamo all’attesa del salvataggio dei sopravvissuti sepolti vivi. Il protagonista, Davey Fenwick (Michael Redgrave), è una figura controversa, un minatore-studente che, grazie al conseguimento di una borsa di studio lascia il lavoro. Il giovane è presago dell’imminente catastrofe, ma, a causa delle sue contraddizioni personali, non riesce ad agire per tentare di evitarla. “The Young Mr. Pitt” (“Il nemico di Napoleone” 1942) tratta una vicenda che si svolge in Inghilterra durante le guerre napoleoniche. È un dramma che racconta un periodo storico in cui il Paese si sentiva gravemente minacciato. Ed è chiaro il parallelismo con la situazione determinatasi in quella stessa epoca della Seconda Guerra Mondiale. La biografia di William Pitt (Robert Donat), l’indomabile Primo Ministro inglese costretto a confrontarsi con acerrimi avversari politici, è raccontata insistendo sulle scene di dibattito alla Camera dei Comuni. “The True Glory” (“La via della gloria”, 1945) è un documentario di notevole forza narrativa che descrive l’offensiva angloamericana che portò alla sconfitta della Germania nazista. Spazia dai preparativi del D-day, allo sbarco in Normandia fino al V-E day e si conclude mostrando le drammatiche scene della liberazione dei sopravvissuti nei campi di concentramento. È il risultato della revisione di centinaia di filmati ufficiali e si avvale di una presentazione del mitico Generale Eisenhower. “Odd Man Out” (“Fuggiasco”, 1947) è un eccezionale noir notturno ambientato in una cittadina non identificabile del Nord Irlanda. Il film, che si può definire una tragedia senza eroe tragico, racconta la drammatica vicenda di un gangster ferito (James Mason),  inseguito e braccato dalla polizia per otto ore fino alla morte.
Reed costruisce un thriller dove risaltano la velocità delle azioni e la tensione. La qualità delle immagini notturne è eccezionale: strade traslucide, edifici in penombra e sagome umane minacciose.

James Mason in “Fuggiasco”

“The Fallen Idol” (“Idolo infranto”, 1948) rappresenta la prima collaborazione fra Reed e Henry Graham Greene, dal cui romanzo, “The basement room”, fu tratto. La storia riguarda la relazione tra un bambino di otto anni, figlio di un ambasciatore, e il maggiordomo dell’ambasciata, suo grande amico e “idolo”. Si concentra nel week-end in cui il bambino è lasciato solo con la servitù nella grande casa londinese, dopo la partenza dei genitori per una vacanza. Il film mostra la confusione morale del piccolo di fronte alla falsità e alla doppiezza del mondo degli adulti; egli è incapace di distinguere tra falsità cruciali e irrilevanti. Frastornato dalla scoperta che il maggiordomo Baines (Ralph Richardson) ha un’amante (Michèle Morgan), Felipe (Bob Henrey), che contemporaneamente dubita che il suo grande amico abbia assassinato la moglie, è combattuto dai dubbi e arriva a  mentire ai poliziotti incaricati dell’inchiesta per il presunto omicidio. È un thriller atipico, ricco di suspence, costruito con raro acume per la psicologia dei personaggi. Si conclude con un finale a sorpresa, apparentemente ironico, ma terribile e amaro. In effetti la tragedia della fine di un sentimento di amicizia è ben più grave di quella del possibile delitto che in realtà non è tale, essendo stato presunto in base a false apparenze.
“The Third Man” (“Il terzo uomo”, 1948) è il capolavoro di Reed, frutto di una nuova collaborazione con Greene, anche in questo caso autore della sceneggiatura. Un film esaltato dallo smagliante bianco e nero del direttore della fotografia Robert Krasker e stimolato dall’intelligenza del produttore Alexander Korda. Ma soprattutto un’opera illuminata da una magistrale interpretazione di Orson Welles nei panni di uno dei vilain più duri della storia del cinema, ma, al tempo stesso un individuo che, in qualche modo, può apparire come un eroe di quel drammatico immediato dopoguerra, negli anni ’40 in Europa. Reed ha inventato una Vienna cupa, barocca, espressionista, bieca e angosciosa. Racconta la storia di uno scrittore statunitense (Joseph Cotten) che si reca a Vienna per incontrare il suo vecchio amico Harry Lime (Orson Welles). Ma, giunto in città, ne apprende la morte. Quindi inizia ad indagare e apprende, poco a poco, che quest’ultimo è in realtà un bieco e spietato trafficante borsanerista. Nel frattempo incontra l’amante di Lime, Anna Schmidt (Alida Valli), votata al suo uomo, ma anch’essa ingannata, e se ne innamora. Un film impressionante in quanto in esso ogni elemento, la gente, i luoghi, i rumori, l’indimenticabile motivo musicale conduttore e ricorrente, le varie scene sono perfettamente fusi e funzionali con gli altri. Chi non è stato sedotto dall’indimenticabile scena notturna in cui si sentono risuonare i passi nelle strade deserte, si intravede infine un’ombra in un portone e compare il redivivo Lime-Welles?

Alida Valli e Joseph Cotten con l’ombra di Orson Welles il “Il terzo uomo”

“The Man Between” (“Accadde a Berlino”, 1953) è l’ultimo titolo di una trilogia di melodrammi-thriller iniziata con “The third man”. Anche in questo caso il protagonista è un uomo immorale, ma affascinante, amato da una donna sentimentale e idealista. Tratto dal romanzo di Walter Ebert, “Susanne in Berlin”, è un film in cui la città, Berlino del dopoguerra, divisa e piena di spie e faccendieri, è parte integrante di un dramma di vite costrette. La fotografia di Desmond Dickinson mostra, con intensità e con felice taglio documentaristico, la disfatta morale, prima ancora che materiale, della Germania, una nazione sconfitta e devastata. Al centro della storia vi è Susanne Mallison (Claire Bloom), una giovane inglese sinceramente commossa dalla miseria in cui vivono i berlinesi. La donna si sente attratta da Ivo Kern (James Mason), un opportunista che fa la spia doppiogiochista tra gli occupanti occidentali e i russi. Anche in questo caso è indimenticabile la sequenza finale di Ivo-Mason intrappolato nella terra di nessuno tra settore occidentale e orientale, scoperto e vinto.

Alec Guinness in “Il nostro agente all’Avana”

“Our Man in Havana” (“Il nostro agente all’Avana”, 1959), tratto dall’omonimo romanzo di Greene, è una gustosissima commedia, in cui si mescolano ilarità e oscure minacce. Un film che mette alla berlina il genere thriller-spionistico. Il protagonista, il quarantenne James Wormold (Alec Guinness), un circospetto e comico venditore di aspirapolvere inglese trapiantato a La Habana, è reclutato dal servizio segreto britannico. Questo individuo mediocre, tranquillo e azzimato, è in realtà una simpatica canaglia, furbetta e maldestra. Inventa falsi complotti e vende informazioni fantasiose per giustificare il suo salario di spia, ma provocherà la morte di un amico.

SAGGI

CINEMA E LAVORO: STHÉPHANE BRISÉ, IL NUOVO VOLTO DELL’IMPEGNO  
di Roberto Lasagna

Il cinema, nei casi migliori, ha contribuito alla percezione del disagio regalandoci ritratti veritieri, come nel caso dei film di Loach o in quelli della Comencini e di Cantet. Sequenze e immagini che raccontano il fantasma di un equilibrio che la vita e il lavoro ridefiniscono giorno dopo giorno. Un cineasta come Sthéphane Brisé, con “La legge del mercato” (2015) e “In guerra” (2018), ci ricorda infine l’esigenza di un’etica sociale, affinché la vita dei lavoratori non sia affidata ai capricci del mercato finanziario secondo un frainteso senso di globalizzazione deprivato di etica sociale. Il metodo di Brisé è un lavoro rigoroso con interpreti che, a fianco del prediletto Vincent Lindon, sono veri protagonisti della realtà, come i sindacalisti ne “In guerra” o i dipendenti del supermercato in “La legge del mercato”. Ed è un lavoro sulla quotidianità di individui le cui storie si intrecciano con quelle dell’azienda che, nel nuovo film, in gergo aziendale viene “delocalizzata” ovvero chiude i battenti in Francia per spostarsi in Romania, abbattendo costi e aumentando i profitti, con la conseguenza di lasciare a casa tutti i dipendenti.

Dal film “La legge del mercato”

Ne “La legge del mercato”, per il cinquantunenne con figlio disabile che viene lasciato a casa e poi diventa sorvegliante del supermarket, i dilemmi morali hanno il compito di mostrare cosa è giusto al di là della formalità astratta delle leggi. Ciò che è giusto permane nel tempo ed è sentito come vero, le leggi invece cambiano. E’ giusto allora denunciare chi ruba non per vizio ma per necessità, quando poi la legge può essere ingiusta e ripercuotersi contro chi non ha da mangiare per cause di cui non è responsabile? Brisé evita la demagogia, il suo sguardo è preciso, va in fondo al senso della lotta nel raccontare, nel suo ultimo lavoro “In guerra”, il dramma di chi si trova dinanzi a una decisione che può cancellare il suo futuro. Questa volta Vincent Lindon interpreta un agguerrito rappresentante sindacale che Brisé affianca a veri sindacalisti, ottenendo un intreccio tra “finzione” e realismo che rispecchia anche lo stile realistico, teso a contaminare e sovrapporre falsi servizi televisivi con realistiche discussioni sindacali. La lotta è contro il padrone di una fabbrica francese, un tedesco che ha deciso di chiudere i battenti lasciando a casa gli operai contraddicendo gli impegni assunti. Sincerità e determinazione di un cinema che esprime il senso umano e sociale del lottare per resistere umanamente. “Nella nostra società ci distinguiamo per il nostro impiego. Nel momento in cui ne veniamo privati veniamo spogliati anche del nostro ruolo sociale. Allora il mondo comincia a subire inevitabilmente una serie di disfunzioni. E’ responsabilità e compito di un regista diventare portavoce di un sentire e di una sofferenza psicologica collettiva”1 . “In guerra” mette in chiaro che i lavoratori, da soli, possono fare ben poco, ma un film può contribuire a diffondere una sensibilità culturale.

Un’immagine del film “In guerra”

Nel racconto, per giustificare la delocalizzazione e il licenziamento collettivo viene detto ai lavoratori che l’azienda vive un problema di competitività: gli operai vengono messi in una condizione di debolezza perché sembrerebbe responsabilità loro se non producono abbastanza in fretta. Competitività è proprio il termine utilizzato da una responsabile delle risorse umane (che non compare accreditato nel film) per giustificare il licenziamento. I lavoratori si sacrificano e i profitti aumentano, ma i proprietari della Perrin Industries decidono comunque di chiudere per delocalizzare dalla Francia alla Romania. E le parole nel film di Brizé identificano precisamente l’utilizzo di una strategia per la quale 1100 persone, che rifiutano il licenziamento collettivo, si impegnano in settimane di lotta sperimentando umiliazione e disperazione. La lotta per il lavoro fa da contraltare all’occupazione che il cinquantunenne con forti problemi familiari di “La legge del mercato” trovava. In quel caso la crisi dell’individuo iniziava proprio con il lavoro. Come a dire che il lavoro, nella società attuale, è il tema centrale del dibattito.

1 C. Battocletti, Perdere il lavoro a 50 anni. L’ultimo film di Stéphane Brisé, “Il Sole 24 ore”, 15 novembre 2018.

LA PAZZA STORIA DI UN PICCOLO UOMO
IL CINEMA DI MEL BROOKS
di Riccardo Poma

Mel Brooks

Mel Brooks (New York, 1926) è da molti considerato uno dei più grandi registi comici americani del dopoguerra. Pur spesso accolto da giudizi contrastanti, il suo cinema è senza ombra di dubbio uno dei precursori – nonché, secondo molti, uno dei più riusciti esponenti – di quello che oggi chiamiamo, talvolta a sproposito, umorismo demenziale. Ovvero, il carattere comico delle gag viene esasperato a tal punto da rinunciare al realismo (tipico della commedia) e approdare alla farsa che è, per definizione, surreale. Con le sue parodie surreal-demenziali, Brooks ha aperto la strada ad un intero genere filmico che, pur con esiti altalenanti, (r)esiste ancora oggi.

Gli esordi

Mel Brooks, al secolo Melvin James Kaminsky, nasce a Brooklyn da genitori ebrei immigrati dall’Europa e, giovanissimo, prende parte come soldato alle ultime fasi della seconda guerra mondiale. Dopo una lunga gavetta come cabarettista nei locali, comincia a scrivere testi per diversi comici televisivi. È proprio grazie all’aiuto e alla “benedizione” di uno di loro, il celeberrimo Sid Caesar, che Brooks riesce a girare nel 1968 il suo primo film, “Per favore non toccate le vecchiette” (titolo originale: “The Producers”). La storia è quella di Max Bialystock, un produttore fallito che si fa finanziare uno spettacolo da ricche vecchiette con l’obiettivo di farne un clamoroso fiasco e non restituire i soldi raccolti per produrlo. Dopo aver scelto il copione più brutto di sempre, scritto da un nazista nostalgico e innamorato del fuhrer, si appresta all’insuccesso, ma la prima di “Primavera per Hitler“ sarà un trionfo. Dopo un avvio un po’ lento, il film decolla con l’entrata in scena di Franz Liebkind (interpretato da Kenneth Mars, futuro poliziotto dal braccio rigido in “Frankenstein Junior”), uno dei personaggi più assurdi e politicamente scorretti mai visti al cinema. Brooks satireggia con garbo il mondo del teatro e pennella una serie di gag e battute notevoli che hanno retto piuttosto bene la prova del tempo (una delle migliori è quella del casting, in cui un centinaio di attori terrificanti si presenta coi baffetti per avere la parte di Hitler). Comincia qui la prolifica collaborazione del regista con Gene Wilder, che divide la scena con il grandissimo Zero Mostel; attore comunista, ex perseguitato dal maccartismo (il suo era uno dei nomi scritti sulla celebre lista nera di Hollywood), Mostel venne parzialmente riabilitato anche grazie a questo film. “Per favore non toccate le vecchiette” piacque molto a pubblico e critica, portandosi a casa addirittura un inaspettato premio Oscar per la miglior sceneggiatura originale (scritta dallo stesso Brooks). Non male per un film d’esordio girato senza grosse aspettative, soprattutto commerciali.

Gene Wilder, Kenneth Mars e Zero Mostel in “Per favore non toccate le vecchiette”

Due anni dopo esce il trascurabile “Il mistero delle dodici sedie” (Twelve Chairs”), tratto da un romanzo russo (1928) di Il’ja Arnol’dovich Il’f e Evgenij Petrovic Petrov. In Russia, nel 1927, un ex nobile caduto in disgrazia dopo la rivoluzione apprende che la suocera morente nascose anni addietro un tesoro dentro le vecchie sedie della sua sala da pranzo. Aiutato da un piccolo, astuto truffatore si mette alla ricerca del mobilio, non sapendo che anche il prete ortodosso del paese è entrato in possesso dell’informazione e si è messo a cercare. Qualche sparuta gag efficace non salva questo film brutto, poco divertente, noioso. La satira non graffia, la comicità slapstick, spesso ottenuta con fastidiose rinvelocizzazioni, è francamente datata, i personaggi sono scritti male e poco interessanti. Un mezzo passo falso che va ricordato soltanto per la prima prova attoriale di Brooks, nel ruolo dell’ex maggiordomo beone del protagonista, e per un finale tragico che rivela un’intelligenza di scrittura ragguardevole.
Dopo “Twelve Chairs” esce “Mezzogiorno e mezzo di fuoco” (1974), il cui titolo originale è “Blazing Saddles”, letteralmente “Selle fiammeggianti”, mentre quello italiano ha poco senso perché il film non ha nulla a che fare con il celebre “Mezzogiorno di fuoco” di Fred Zinnemann, se non il fatto di appartenere allo stesso genere cinematografico), da molti considerato il primo grande film di Brooks. Nel Colorado del 1874 un gruppo di speculatori che sta costruendo una ferrovia non sa come cacciare dal territorio di Rock Ridge i legittimi abitanti, colpevoli di non lasciare per denaro la loro terra. I biechi decidono dunque di punirli con un imperdonabile affronto: mandar loro uno sceriffo di colore per creare il caos. Non è un’esagerazione affermare che il terzo film di Brooks sia tutt’oggi l’unico tentativo riuscito di parodizzare il western, un genere da sempre impermeabile alle riduzioni comiche. Il regista ripropone tutti gli elementi del cinema dell’epopea (lo scontro tra “selvaggio” e “civiltà”, la costruzione della ferrovia, la liturgia del duello) contagiandoli con una irresistibile e dissacrante vena farsesca. Affronta con ironia le riflessioni politiche – come quella sul razzismo, più attuale che mai – e consolida la propria collaborazione con Gene Wilder, che dal film seguente, “Frankenstein Junior”, sarà promosso protagonista. Da segnalare l’ultima parte della pellicola in cui i personaggi escono dal film e invadono gli studios hollywoodiani provocando grande scompiglio: si tratta della primissima incursione brooksiana nel campo del meta–cinema (il cinema rompe la quarta parete e fa riferimento a sé stesso in quanto “prodotto di finzione”), un territorio che il regista esplorerà, talvolta in maniera geniale, in quasi tutti i film che girerà in seguito.

Il capolavoro: “Frankenstein Junior”

Durante le riprese di “Mezzogiorno e mezzo di fuoco” Gene Wilder sottopone a Brooks una sua sceneggiatura tratta dal romanzo “Frankenstein o il Prometeo moderno” di Mary Shelley (1816-1817). Inizialmente il regista, convinto che il soggetto sia già stato portato al cinema fin troppe volte, declina gentilmente l’offerta; cambia idea quando Wilder gli svela che il protagonista del film non dovrà essere lo stesso Frankenstein raccontato da Shelley, bensì un nipote che non vuole avere nulla a che fare con gli esperimenti del celeberrimo progenitore. Definiti i ruoli – entrambi sceneggiatori, Brooks regista, Wilder protagonista – si passa ai casting: ai fidati Kenneth Mars e Madeline Kahn (visti rispettivamente in “Per favore non toccate le vecchiette” e “Mezzogiorno e mezzo di fuoco”) si aggiungono Peter Boyle, Cloris Leachman, Teri Garr e Marty Feldman. La scelta di quest’ultimo si rivelerà una delle carte vincenti del film: la sua caratterizzazione del gobbo Igor (detto Aigor) è ancora oggi l’elemento più celebre e citato di “Frankenstein Junior”. Il film (titolo originale “Young Frankenstein”) esce negli Stati Uniti il 15 dicembre 1974. Il successo, sia presso il pubblico che presso la critica, è pressoché immediato, e ancora oggi il quarto film di Brooks è considerato unanimemente il suo capolavoro, il film “che resterà”. Qual è il suo segreto? Secondo Morando Morandini, “Frankenstein Junior” è semplicemente uno di quei rari film felici in cui tutto funziona come deve; una sorta di congiunzione astrale che il cinema di Brooks, pur (quasi) sempre cinema di buon livello, non conoscerà più. La storia è quella del giovane barone Von Frankenstein (Wilder) che, alla morte del celebre nonno Victor, eredita (senza coltivare alcun interesse a riguardo) l’antico maniero del suo progenitore, celebre per una serie di folli esperimenti riguardanti la vita dopo la morte. Poco convinto, raggiunge comunque il posto e fa la conoscenza del gobbo maggiordomo Igor (Feldman), della giovane e avvenente assistente Inga (Teri Garr) e della misteriosa governante Frau Blucher (Leachman), terrorizzatrice di cavalli. Dopo essere entrato in possesso delle carte del nonno, si getta anche lui nell’impresa di rianimare un cadavere (Peter Boyle), impresa che gli riesce ma con esiti quantomeno esilaranti…

Marty Feldman, Cloris Leachman, Gene Wilder e Teri Garr in “Frankenstein Junior”

Nonostante sia un adattamento del romanzo della Shelley e contenga molti riferimenti, soprattutto  visivi, ai Frankenstein della Universal – soprattutto “Frankenstein” (1931) e “La moglie di Frankenstein” (1935) di James Whale e “Il figlio di Frankenstein” (1939) di Rowland W. Lee – il film non è una parodia né del romanzo né dei film da esso derivati. È piuttosto, come amava definirla lo stesso Wilder, una rilettura in chiave comica della storia originale. Della quale restano forti alcune riflessioni molto profonde, mai soffocate dalla vena comica del film: come quella sulla solitudine del mostro, quella sul bisogno di essere accettati nonostante la diversità, quella sulla società che necessita di un capro espiatorio per sfogare la propria frustrazione. La componente meta-cinematografica tipica del cinema di Brooks raggiunge una finezza stilistica ragguardevole: oltre che per le frequenti citazioni – oltre ai mostri della Universal, vi sono molti riferimenti all’espressionismo tedesco, al cinema di Mario Bava, al cinema muto (Brooks rispolvera la mitica dissolvenza “a tendina”) il film rompe spesso la quarta parete attraverso il personaggio di Igor/Aigor, che non esita a guardare in macchina e a rivolgersi direttamente allo spettatore. La scelta di girare in un bianco e nero di rara finezza costruisce immagini di squisita eleganza, mentre molte trovate di sceneggiatura sfiorano spesso la poesia (da brividi il finale con Igor che suona il violino, fuori dal castello). Il film, considerato ancora oggiuno dei più divertenti dell’intera storia del cinema, aprì a Brooks la strada del circuito mainstream e lo avviò ad una carriera ricca di successi. Una volta tanto, è bene citare il meraviglioso lavoro del direttore del doppiaggio in italiano Oreste Lionello, che oltre a prestare la voce a Gene Wilder svolse un lavoro egregio nell’adattamento dei dialoghi del film, molti dei quali intraducibili in italiano. Uno su tutti? Quello più celebre, nel quale Inga dice “lupo ulula” e Aigor risponde “Lupo u-lu-là, castello u-lu-lì”, in lingua originale recitava “werewolfe!” (ovvero “lupo mannaro!”), cui Frankenstein rispondeva “where wolf?” (“dov’è il lupo?”) e Aigor chiudeva con “there wolf, there castle!” (“là c’è il lupo, là invece c’è il castello!). Un gioco di parole intraducibile in italiano che Lionello seppe reinventare in modo assolutamente geniale.

Il periodo d’oro: da “L’Ultima Follia” a “Essere o non essere”

Dopo il grande successo di “Frankenstein Junior” Brooks spiazza tutti girando quello che è probabilmente il suo film più anomalo, se non altro per la scelta – più rischiosa che mai – di girarlo come un film muto. “L’ultima follia di Mel Brooks” (1976, titolo originale, un emblematico “Silent Movie”) è un omaggio al cinema comico di una volta (muto, appunto) basato interamente sullo slapstick, ovvero la comicità corporea e surreale di maestri come Charlie Chaplin, Mack Sennet, Hal Roach, Roscoe “Fatty” Arbuckle e Buster Keaton. Protagonista della storia è il regista Mel Spass (Brooks) che, aiutato dai collaboratori Bellocchio e Trippa (gli inseparabili Marty Feldman e Dom DeLuise), cerca fondi e attori per girare, ai giorni nostri, un nuovo capolavoro del muto. In pratica, un film muto che racconta la follia di voler girare un film muto negli anni ’70, ovvero ciò che sta facendo lo stesso Brooks nella realtà. Ma l’operazione meta-filmica questa volta va oltre: coinvolgendo divi hollywoodiani come Burt Reynolds, Liza Minnelli, James Caan, Paul Newman e Anne Bancroft (dal 1964 moglie del regista) e facendoli recitare nel ruolo di sé stessi – Brooks ironizza sui capricci delle star e sui meccanismi malati (e assolutamente realistici) dello star system. La sceneggiatura – di Brooks, Ron Clark, Rudy DeLuca e del futuro regista Barry Levinson – risulta, a trent’anni dalla sua uscita, un po’ datata nei dialoghi (pardon, didascalie), ma le gag visive posseggono ancora oggi una carica comica impareggiabile. Basterebbe citare la scena in cui i tre protagonisti, con indosso armature da cavalieri medievali, tentano di sedersi alla mensa degli studios sotto gli occhi increduli degli addetti ai lavori: uno dei pezzi più divertenti e riusciti dell’intero cinema di Brooks. Da segnalare la prova di Marty Feldman, insuperabile nel suo squisito recitare nonsense, e il cameo del mimo Marcel Marceau che, ironicamente, pronuncia l’unica battuta sonora presente nel film.

Dom DeLuise, Marty Feldman e Mel Brooks in “L’ultima follia”

Del 1977 è invece “Alta tensione” (titolo originale: “High Anxiety”), altra pellicola molto amata da pubblico e critica. Divenuto direttore dell’Istituto Psico-Neurotico per individui molto molto nervosi, il dottor Thorndyke (lo stesso Brooks) scopre un misterioso complotto ordito da alcuni membri del corpo sanitario. Il sesto film di Brooks, scritto ancora con Clark, De Luca e Levinson (che compare nei panni di un nevrotico fattorino), rappresenta uno dei punti più alti della poetica meta-cinematografica del regista; sia perché rompe continuamente la quarta parete (alcune trovate sono memorabili, come la musica fuori campo suonata da un’orchestra che transita in autobus vicino al protagonista o la macchina da presa che si schianta contro le finestre della sala da pranzo, rompendole) sia perché parodizza alcuni dei più celebri film di Alfred Hitchcock, cui la pellicola è dedicata: il modello principale è “La donna che visse due volte”, ma non mancano omaggi a “Psyco”, “Gli uccelli”, “Il sospetto”, “Intrigo Internazionale”. Molte gag esilaranti, una notevole galleria di personaggi e almeno un numero musicale – Brooks che canta e balla un suo brano, intitolato appunto “High Anxiety” – di pregevolissima fattura. Il regista si rivela anche un ottimo atleta: quasi tutte le gag slapstick funzionano grazie alla sua esplosiva fisicità. Al di là del suo valore artistico, “Alta tensione” ha anche un importante valore storico: è il primo film della storia del cinema ad essere concepito come parodia farsesca (e demenziale) di un altro film. Le gag sono continue, sempre surreali, e presuppongono un pubblico informato sui successi del momento. Una moda che proseguirà con “L’aereo più pazzo del mondo” (1981, “Airplane!”, diretto dal trio Zucker-Abraham-Zucker, parodia di “Airport”) e che non è ancora passata, nonostante una parabola qualitativa discendente (gli ultimi film appartenenti a questo genere, dai vari “Scary Movie” in poi, sono tranne rare eccezioni davvero dimenticabili).
Nel 1980 Brooks fonda la casa di produzione Brooksfilm, che produrrà tutti i suoi film futuri ma anche grandi film di altri autori come “The Elephant Man” (1980) di David Lynch e “La Mosca” (1986) di David Cronenberg. Il primo film di Brooks prodotto dalla società è invece “La pazza storia del mondo – Parte I” (1981, “History of the World, part I”), che nelle intenzioni del regista doveva essere la prima parte di un dittico che però, per ragioni non note (probabilmente legate allo scarso successo commerciale), non vedrà mai un secondo capitolo. Dopo il prologo all’età della pietra e una breve tappa – memorabile – sul monte Sinai, la personalissima storia del mondo di Brooks passa alla Spagna dell’inquisitore Torquemada, all’antica Roma – in cui il filosofo Comicus deve fuggire dall’imperatore Nerone – e, infine, alla rivoluzione francese (qui uno schiavo viene sostituito a Re Luigi e rischia di lasciarci la pelle al posto suo). Aperto da una citazione di “2001: odissea nello spazio” e narrato nientemeno che da Orson Welles, il film si apre con due sketch e prosegue con due episodi più lunghi, inframezzati da un numero musicale. Le trovate sono spesso a livello di barzelletta, ma una su tre funziona. Impagabile l’episodio di Torquemada girato come un musical della Hollywood anni ’40, con tanto di nuoto sincronizzato e numeri di massa. Come il precedente “Mezzogiorno e mezzo di fuoco”, il film è risolto con un guizzo meta-cinematografico (il protagonista dell’episodio francese è salvato da un protagonista dell’episodio romano che si giustifica dicendo “è il potere del cinema!”). Certo, la trovata somiglia più a un espediente sin troppo facile per chiudere il film frettolosamente piuttosto che ad un elegante colpo di genio, ma alla fine si rivela efficace e perfettamente in linea con la poetica del regista.

Mel Brooks e Anne Bancroft in “Essere o non essere”

Nel 1983 la Brooksfilm produce “Essere o non essere” (“To be or not to be”), remake in chiave comica del capolavoro di Lubitsch “Vogliamo vivere!”, il cui titolo originale era proprio “To be or not to be”. Il film è diretto da Alan Johnson, storico coreografo di Brooks, ma il film sembra comunque farina del sacco del regista di “Frankenstein Junior”. Nella Polonia controllata dalla Germania nazista l’attore e regista teatrale Frederick Bronski (Brooks) e sua moglie Anna (Anne Bancroft) cercano di mandare avanti il teatro cittadino per dare un po’ di svago al popolo polacco. Finiranno col dare una grossa mano alla resistenza rischiando la loro stessa vita. Film non diretto da Brooks, dunque, ma profondamente brooksiano nella finezza linguistica delle gag, nella creazione di personaggi memorabili, nella perfezione dei numeri musicali, nel far convivere comicità e impegno politico. Una dimensione, quella politica, in alcuni casi addirittura accentuata rispetto all’originale, come ad esempio nel discorso legato alla deportazione degli omosessuali, affrontato per la prima volta dal cinema. Il film rappresenta il raro caso di un film comico velato di morte in cui si ride – e molto – senza mai irridere la tragedia. Si irridono, come già accadeva in “Per favore non toccate le vecchiette”, i nazisti e le dinamiche del nazismo. Memorabile la scena iniziale, tipico esempio di meta-cinema alla Brooks: mentre i due protagonisti litigano in polacco, una voce narrante – udita anche dagli stessi personaggi – avverte che per preservare la sanità mentale degli spettatori la lingua sarà immediatamente convertita in inglese.

Le parodie: da “Balle Spaziali” a “Dracula morto e contento”

Secondo alcuni per un vuoto di idee, secondo altri per cavalcare la moda cinematografica del momento, l’ultima fase dell’opera di Brooks è contraddistinta dalla predilezione alla parodia. Non di un genere (come il western in “Mezzogiorno e mezzo di fuoco”) o di un regista (come Alfred Hitchcock in “Alta tensione”), bensì di un film specifico, solitamente il blockbuster del momento. Il primo film ad essere “parodizzato” dal regista è “Guerre Stellari” (1977, George Lucas, titolo originale: “Star Wars”), trasformato in “Balle spaziali” (1987, “Spaceballs”). La pellicola ottiene un grande successo di pubblico, nonostante non la si possa definire riuscita al 100%. Il motivo? “Guerre stellari” è già di per sé una parodia/rielaborazione del cinema di fantascienza. La trama: il perfido affarista Scrocco (Brooks), accortosi che il suo pianetucolo sta finendo l’aria respirabile, fa rapire la principessa Vespa (Daphne Zuniga) del pianeta Druidia e chiede come riscatto al padre una lauta dose di ossigeno puro. Stella Solitaria (Bill Pullman) e il fido Rutto (John Candy), avventurieri galattici, partono per salvarla; ma dovranno fare i conti col malvagio Lord Casco (Rick Moranis), spietato generale al soldo di Scrocco. Ogni personaggio è ovviamente ricalcato sui personaggi del film di Lucas: Stella Solitaria su Han Solo, la principessa Vespa su Leia, Lord Casco su Darth Vader, Rutto su Chewbecca. Da un lato la sceneggiatura accumula battute e sequenze non sempre felici, di un umorismo greve e scontato, dall’altro sembra volare alto come un tempo (quello del “castello ululì”) e centra qualche passo divertente e riuscito. Il carattere meta-cinematografico viene fuori nella sequenza in cui i protagonisti guardano “Balle spaziali” in cassetta per sapere come va a finire la storia, ma anche in quella in cui John Hurt, in un brevissimo cameo, ripropone la sequenza della propria morte già vista in “Alien” (1979, Ridley Scott) esclamando “oh no! Di nuovo!”. Anche se, nel momento in cui si sceglie di parodizzare questo o quel film, tutta l’operazione è già di per sé meta-cinematografica, proprio perché l’idea di base è proprio quella di fare riferimento ad un altro o ad altri film. Resta nell’immaginario il Lord Casco di Rick Moranis, forse il personaggio più riuscito.

Rick Moranis in “Balle Spaziali”

Con il successivo “Che vita da cani” (1991, “Life Stinks”) Brooks abbandona momentaneamente la parodia per dedicarsi ad un sincero omaggio alle commedie di Frank Capra, delle quali riprende lo spirito fondamentalmente ottimista, la struttura narrativa (una gag = una scena, e ogni scena finisce su una battuta), le incursioni nel dramma (l’incendio della casa di Molly, la morte di Ancora). La storia è quella del multimilionario senza scrupoli Goddard Bolt (Brooks), che scommette con un concorrente di poter sopravvivere per un mese in un quartiere povero di Los Angeles senza utilizzare né i suoi soldi né il suo potere. Ovviamente l’esperienza lo cambierà radicalmente. La regia è stranamente anonima, quasi televisiva, ma il film è sincero e tutto sommato divertente. La gag delle ceneri sparse controvento anticipa quella, identica e ben più celebre, de “Il grande Lebowski” dei fratelli Coen. Da ricordare il numero musicale girato come uno sfarzoso musical anni ’50 ma con montagne di stracci come scenografia.
Con “Robin Hood – Un uomo in calzamaglia” (1993, “Robin Hood Man in Tights”) Brooks torna alla parodia. Il bersaglio questa volta è il blockbuster “Robin Hood: Principe dei Ladri” di Kevin Reynolds, grande successo dell’annata 1991/1992 interpretato dal divo Kevin Costner. Evaso da una prigione araba durante le crociate, il baldo Robin di Locksley (Cary Elwes, che fu provinato anche per il film di Reynolds) torna – a nuoto – alla natia Ruttingham e qui combatte il perfido principe Giovanni (Richard Lewis) e il suo tirapiedi lo sceriffo (Roger Rees), in attesa che torni l’amato Riccardo Cuor di Leone (Patrick Stewart). Brooks cita, omaggia, deride qualunque film che gli venga in mente, ma raramente dimostra di saper ancora fare ironia e comicità intelligenti. Arriva addirittura ad autocitarsi: nei dialoghi si parla di “Mezzogiorno e mezzo di fuoco” e “La pazza storia del mondo”. Nel 1995 esce “Dracula Morto e Contento” (“Dracula Dead and Loving It”), parodia del celeberrimo “Dracula di Bram Stoker” (1993) di Francis Ford Coppola. Siamo nella Transilvania del 1893. Il legale Thomas Renfield (Peter McNicol) vende al misterioso Conte Dracula (Leslie Nielsen) l’abbazia di Carfax a Londra. Giunto in Inghilterra, il conte inizia ad insediare le giovani donne sue vicine di casa, lasciando loro strani segni sul collo. Che sia un vampiro? Il dottor Seaward (harvey Korman), direttore di un manicomio, chiede aiuto all’esperto dottor Van Helsing (Brooks). L’ultimo film da regista di Brooks, scritto da Rudy De Luca e Steve Haberman, si basa sull’accumulo forsennato di gag, tutte o quasi ideate con lo scopo di deridere i film noti del momento. Qualche battuta fa ridere, ma Nielsen si limita a rifare il tenente Drebin di “Una pallottola spuntata” e Brooks ad accompagnarlo con una regia banale e priva di guizzi particolari. Se la scena più divertente ha come protagonista il “nostro” Ezio Greggio, forse ci si dovrebbe porre qualche domanda. Un ultimo film che non rende giustizia ad un regista che avrebbe meritato di salutare il cinema con un’opera di ben altra levatura.

Leslie Nielsen in “Dracula morto e contento”

Negli anni a seguire Brooks si limita a prendere parte a diversi progetti come attore o come produttore. Nel 2005 produce una versione teatrale di “Per favore non toccate le vecchiette” (titolo originale ancora una volta “The Producers”), diretta da Susan Stroman e con Nathan Lane e Matthew Broderick nei ruoli che furono di Zero Mostel e Gene Wilder. La commedia ottiene un successo così vasto da spingere Brooks a produrre una riduzione cinematografica della stessa: “The Producers – Una gaia commedia neonazista” esce al cinema nel 2006 e vede riconfermati la Stroman, Lane e Broderick ai quali si aggiungono Uma Thurman (nel ruolo di Ulla, l’aiutante di Bialystock) e Will Ferrell (nei panni dello scrittore filo-nazista Franz Liebkind).

L’eredità

Qualunque parere si abbia su Brooks e sulla sua opera, è innegabile che essa abbia influenzato in maniera importante il cinema comico degli ultimi anni. Si può affermare, senza timore di esagerare, che gran parte del filone parodico demenziale – in voga ancora oggi, pur nel bel mezzo di una parabola discendente – è figlio del cinema di Brooks e della sua comicità nonsense e surreale. Tra gli artisti che per primi hanno fatto propria la lezione brooksiana vi è sicuramente il trio di registi/sceneggiatori ZAZ, composto da David Zucker, Jim Abrahams e Jerry Zucker, responsabili di “L’aereo più pazzo del mondo” (“Airplane!”, 1981), “Top Secret!” (1984) e “Una pallottola spuntata” (“The Naked Gun”, 1988). La formula è pressoché sempre la stessa: si prendono uno o più elementi dei film di successo di quel periodo (personaggi, trame, situazioni) e li si esaspera per ottenere effetti comici esilaranti. Un’operazione che Brooks aveva sperimentato nel 1977 col suo “Alta Tensione”, omaggio/parodia dei film di Alfred Hitchcock. Con alcune differenze: il film di Brooks conservava, seppur piuttosto semplificata, una trama vera e propria sulla quale venivano “incollate” le diverse gag. Nei film del trio ZAZ, invece, sono le gag – sparate a fuoco ininterrotto – a delineare una trama spesso inconsistente. Più che sulla progressione narrativa, sono film basati sull’accumulo. Una scelta che paga solo nel momento in cui si dispone di molte gag di qualità: se le polveri di alcune trovate comiche sono bagnate, lo spettatore finisce per annoiarsi. Cosa che inizia ad accadere in film come “Scuola di Polizia” (“Police Squad”, 1984, di High Wilson) e “Hot Shots!” (1991, del solo Jim Abrahams). Gli anni novanta vedono fiorire parecchi seguiti palesemente inferiori ai capostipiti: dal 1985 al 1994 “Scuola di Polizia” ne avrà ben sei, “Una pallottola spuntata” due, “Hot Shots” e “L’aereo più pazzo del mondo” uno.

Una scena tratta da “L’aereo più pazzo del mondo”

Per assistere a qualcosa di originale – si fa per dire – bisognerà aspettare il 2000, quando i fratelli afroamericani Wayans scrivono e dirigono “Scary Movie”, film-parodia dei prodotti horror e thriller in voga in quel momento (a farne le spese è soprattutto la saga di “Scream” di Wes Craven). Il film ha un enorme successo di pubblico, nonostante rappresenti il primo passo verso l’imbarbarimento del filone parodico-demenziale, che di lì a poco avrebbe pigiato il piede sull’acceleratore della volgarità gratuita per sopperire ad un tragico vuoto di idee. “Scary Movie” vanta comunque ben altri quattro capitoli (2001, 2003, 2006 e 2013), dei quali si salvano a malapena il terzo e il quarto, non a caso diretti da un redivivo David Zucker. Nel 2009 esce anche “Horror Movie” di Bo Zenga, ennesima parodia del cinema horror che riesce ad essere peggiore addirittura dei peggiori capitoli di “Scary Movie”. In quegli stessi anni le parodie tornano a spostarsi dall’horror verso i blockbuster del momento. Responsabili di questa virata sono gli sceneggiatori e registi Jason Friedberg e Aaron Seltzer, che firmano una nuova serie di parodie: “Hot Movie – Un film con il lubrificante” (2006), parodia delle commedie romantiche USA; “3ciento – Chi l’ha duro…la vince” (“Meet the Spartans”, 2008), da “300” di Zach Snyder; “Epic Movie” (2007), ispirato alle saghe del momento, da “Harry Potter” a “Pirati dei Caraibi” passando per “Il signore degli anelli”; “Disaster Movie” (2008), presa in giro dei film catastrofici hollywoodiani; “Mordimi” (“Vampire Suck”, 2010), sulla saga di “Twilight”; “Angry Games – La ragazza con l’uccello di fuoco” (“The Starving Game”, 2013), sulla saga di “Hunger Games”; “Superfast & Superfurious” (“Superfast!”, 2015), sulla saga di “Fast & Furious”. Dei film elencati non ve n’è uno apprezzato, anche in minima parte, dalla critica cinematografica: come suggeriscono i terrificanti titoli italiani, la loro comicità è quasi tutta basata sulla volgarità e sulle più becere allusioni sessuali, un gioco che stanca e rivela una pochezza intellettuale (e artistica) di fondo che spaventa. Da ricordare anche “Superhero – Il più dotato tra i supereroi” (“Superhero Movie”, 2008) di Craig Mazin, in cui si parodizza un altro genere in voga oggi, quello dei supereroi.
Nonostante esordi notevoli (i successi del trio ZAZ) la comicità parodica di Brooks non ha avuto dunque eredi degni di questo nome. Forse perché, nonostante le apparenze, riuscire a fare ridere lo spettatore cinematografico non è affatto impresa facile. Farlo in maniera intelligente, poi, è ancora più difficile. Lo stesso Brooks, a fine carriera, ha accettato di lavorare in pellicole non proprio alla sua altezza come “Il silenzio dei prosciutti” (“The Silence of the Hams”, 1994) e “Svitati” (“Screw Loose”, 1999), entrambi diretti da Ezio Greggio. Un saluto al cinema non proprio felice, solo in parte riscattato dall’alibi che fosse fatto per amicizia verso il comico italiano. Forse dovremmo semplicemente accettare la realtà: non vi sarà un altro Mel Brooks, e forse non vi sarà nemmeno qualcuno in grado di riproporre l‘irresistibile comicità di questo piccolo uomo geniale.

Un ritratto di Brooks anziano

TOPOLINO VISTO DA GIACOMO DEBENEDETTI
ESERCIZI DI CRITICA CINEMATOGRAFICA
di Maurizio Villani

Negli ultimi mesi del 2018 si è verificata la coincidenza che è all’origine di questo articolo: la celebrazione dei novant’anni di Topolino al cinema e la pubblicazione di un’antologia di scritti di Giacomo Debenedetti, Cinema: il destino di raccontare, che contiene un prezioso saggio sugli esordi di Topolino nei primi cartoni animati sonori di Walt Disney.

1. I novant’anni di Topolino al cinema

I novant’anni si celebrano, convenzionalmente, il 18 novembre 1928. In quel giorno al Colony Theatre di New York, viene proiettato “Steamboat Willie”, diretto da Walt Disney e Ub Iwerks.[1] Questo non è il primo cortometraggio d’animazione della serie Mickey Mouse, fu il primo ad essere distribuito. Nei mesi precedenti, sempre nel 1928, altri due corti furono prodotti da Disney e Iwerks, ma non trovarono un distributore: il primo fu “L’aereo impazzito” (“Plane Crazy”) e il secondo “Topolino gaucho” (“The Gallopin’ Gaucho”).[2]

Un giovane Walt Disney (1901-1966) e Ub Iwerks (1901-1971) creatori di Topolino

Steamboat Willie” presenta un’innovazione che sarà al centro dell’attenzione critica che gli rivolgerà Giacomo Debenedetti: è ritenuto il primo cartone animato ad avere una colonna sonora con musiche, effetti sonori e dialoghi, benché non intelligibili, completamente sincronizzata (in realtà il sonoro era stato già utilizzato nello stesso anno nei “Song Car-Tunes” degli Inkwell Studios e in un corto di Paul Terry dal titolo “Dinner Time”, prodotto della Van Beuren Studios, che però non ebbe successo di pubblico).

Un’immagine di Topolino nel cartone animato “Steamboat Willie” (1928)

La trama presenta Topolino che guida un battello a vapore, fischiettando “Steamboat Bill” e suonando i tre fischietti della barca. Arriva il vero capitano Pietro Gambadilegno che caccia via Topolino mandandolo a finire in un secchio. Il battello si ferma per raccogliere un carico di bestiame e quando riparte sul molo appare Minni che rincorre la barca cercando di salire. Topolino riesce, agganciandola con una gru, a portare a bordo Minni e a dare vita ad un concerto, trasformando gli animali e gli oggetti che sono sul battello in strumenti musicali.

Sulla figura di Topolino scrive Oreste De Fornari: «Che Topolino sia stato concepito sul rapido New York-Los Angeles, come vuole la leggenda, o che debba la sua origine alla penna di Ub Iwerks, come insinuano i revisionisti, non c’è dubbio che la sua ideazione ha segnato una svolta decisiva nella pratica dei cartoni animati.
A prima vista non è molto dissimile da certi suoi fumettistici antenati: profilo schematico, posizione eretta, quasi una caricatura. Ma nel suo corpo c’è qualcosa di aerodinamico che rende accettabile l’umanizzazione così sbrigativa del disegno: l’attaccatura dei capelli (simile a una cuffia, riunisce Lindebergh e Mefistofele), gli ovali neri degli occhi (tipo occhiali da cieco, più coerenti col resto e più sottilmente aggressivi dei veri occhi disegnati di cui è provvisto nei due film precedenti Steamboat Willie e in quelli posteriori al 1938), soprattutto quei dischi fungenti da orecchie, che sembrano potersi staccare e rotolare in avanti da un momento all’altro (l’idea di renderli tridimensionali, che risulta da alcuni cortometraggi dei primi anni quaranta, venne rapidamente accantonata). Non la caricatura di un animale, come il gatto Felix o il topo Ignazio, e nemmeno quella di un uomo, ma uno scattante automa tutto angoli e sfere».[3]

2. Giacomo Debenedetti: esercizi di critica cinematografica

I film di Topolino di cui si è detto sono quelli che Giacomo Debenedetti[4] vede, a partire dal 1929, e che lo spingono ad approfondire una serie di riflessioni sul passaggio dal cinema muto a quello sonoro. Prima, però, di affrontare questo tema analizzando un testo specifico che parla della “vittoria di Topolino”, va fatta una premessa di carattere generale sul rapporto fra Debenedetti e la critica cinematografica tra agli anni Venti e Trenta del Novecento. Ci soccorre in questa operazione il recentissimo volume di Giacomo Debenedetti Cinema: il destino di raccontare, (a cura di Orio Caldiron, La nave di Teseo. Centro Sperimentale di Cinematografia, Milano 2018. Nelle citazioni seguenti abbreviato CIN). Il libro attinge «dalle riviste letterarie e cinematografiche, e dai quotidiani, un gran numero di interventi che delineano il ritratto inedito di uno dei pochissimi scrittori di cinema in cui il rapporto fra teoria e pratica è forte e incisivo, la concretezza dei riferimenti assolutamente estranea al compiaciuto estetismo dei letterati imprestati al cinema».[5]
Nell’introduzione al volume Orio Caldiron, per inquadrare storicamente gli eventi coevi alla stesura degli articoli di cui ci stiamo occupando, riporta una citazione dell’inizio degli anni cinquanta in cui Debenedetti rievoca la lontana stagione delle polemiche sul cinema tra arte e non arte: «per trenta o quarant’anni, nel nostro paese, l’occupazione principale di chiunque manovrasse una penna, fu di riflettere sull’arte. E proprio perché eravamo così puntigliosi, cosi intransigenti nelle discriminazioni tra arte e no, quelle discriminazioni, una volta concesse, passavano in giudicato. Per il cinema la cosa avvenne quando nei nostri cenacoli e dintorni cominciò a spargersi la notizia: Benedetto Croce è andato al cinema. Cosa fatta, capo ha» (CIN, pag. 9).[6]
Giacomo Debenedetti esordisce nella critica cinematografica partecipando nel marzo del 1927 all’inchiesta della rivista fiorentina Solaria che esce con un numero monografico intitolato Letterati al cinema, in cui, oltre a Debenedetti, «scrittori, poeti e intellettuali, come Montale, Bacchelli, Luciani, Betti, Bragaglia, Pancrazi, solo per citare alcuni, si interrogano circa la possibilità di conferire al cinema lo statuto di arte. Ma questo senza alcuna intenzione – si legge nell’editoriale di presentazione – di contribuire alla delineazione di una “estetica del cinematografo”: unico intento è quello di esprimere “fresche impressioni letterarie” a proposito del nuovo medium. Questo fascicolo riveste una notevole importanza nella storia della critica cinematografica per almeno due motivi. Da un lato documenta la comparsa in Italia di una nuova generazione di intellettuali, aperta agli stimoli culturali europei e disposta a battersi per la legittimazione artistica del cinema; dall’altro rappresenta uno dei momenti, forse il più organico, della mobilitazione dell’estetica crociana in ambito cinematografico».[7

La copertina di Cinema: il destino di raccontare
Giacomo Debenedetti ritratto nella copertina di Giacomino, “biografia letteraria” scritta dal figlio Antonio.

“Cinematografo” è il titolo del contributo di Debenedetti all’inchiesta di Solaria. La presa di posizione a favore dell’artisticità del cinema è netta. Dopo aver ricordato la diffidenza di molti intellettuali (lui compreso) per il linguaggio cinematografico, Debenedetti racconta il suo mutare di atteggiamento scrivendo: «Riconosco anzitutto al cinematografo la capacità di farci sperimentare i nostri sentimenti allo stato puro. Dico cioè che – nei casi, a mio parere, più simpatici – noi reagiamo davanti un film come i bambini o i selvaggi o le platee dei teatri domenicali: con quei quattro o cinque sentimenti fondamentali (gioia, amore, odio, terrore e simili) che non siamo soliti riscontrare nella vita se non combinati in una chimica molto complessa. (…)
La sala del cinema, buia com’è, ci restituisce il senso di una sconfinata libertà e l’agio di denudarci moralmente. (…) Ne viene che, tra le facoltà, quella che maggiormente entra in gioco davanti uno spettacolo cinematografico, è forse la facoltà emotiva: non guidata né trattenuta, né deviata da schemi di nessuna maniera. (…)
Il cinematografo esprime, con i suoi mezzi e con la sua tecnica, dei sentimenti e degli affetti. È dunque un’arte; alla quale si potrà applicare l’estetica crociana. (…) Ora, se il cinematografo ha questa specifica virtù, mi par naturale chiedergli di provocare in noi movimenti od accenni di movimento, che i fatti e le occorrenze della nostra cotidiana esistenza non saprebbero suscitare. Questa è, credo, la ragione ragionata per cui mi sento portato a prediligere le fiabe che mi fanno vedere, realizzato sullo schermo, l’inverosimile; oppure le situazioni vertiginose: come, ad esempio, quelle lunghe sospensioni ad impossibili appigli, quegli uomini attaccati alla grondaia di un grattacielo».[8] 

3. Il sonoro nel cinema

Il passaggio dal cinema muto al sonoro è il fatto che spinge Debenedetti ad affrontare complesse tematiche di estetica e di teoria del cinema. Interessante e curioso è che la faccia ne La vittoria di Topolino,[9] ossia in un testo di non più di dieci pagine, che ha la forma del saggio breve e che in questo spazio non certamente ampio mette a tema la novità rappresentata dal primo cortometraggio sonoro creato da Walt Disney e da Ub Iwerks.
L’autore si chiede «quale fu la prima caratteristica del sonoro allorché si aggiunse all’immagine cinematografata – del sonoro, per intenderci, 1928 – quale apparì anche sugli schermi italiani, come “novità” ai primi del ’29? – e risponde – Fu, per intenderci, l’aggiunta di una dimensione incongrua all’immagine cinematografica. Perché il proprio di questa immagine è di essere senza corpo, senza volume; mentre il proprio del suono, e tanto più della parola, è di essere la vibrazione di un corpo: è di essere, perdonatemi il gergo, spazio, e più precisamente volume che si fa tempo. E tempo corporeo, per giunta» (CIN pag. 95).
A partire da questa precisazione concettuale Debenedetti affronta i temi del dibattito sull’introduzione del sonoro nel cinema. Lo fa sia con esempi della filmografia di quegli anni, sia ricollegandosi al lavoro teorico della Scuola russa. Nel 1928 Sergej M. Ejzenštejn, Vsevolod I. Pudovkin e Grigorij V. Aleksandrov pubblicano il “Manifesto sull’asincronismo”.[10] Diversamente da quanti ritenevano che il sonoro avesse irrimediabilmente distrutto la perfezione espressiva del cinema muto, impoverendo le potenzialità espressive dell’immagine, i tre registi russi sostengono che l’innovazione tecnica del sonoro potrebbe arricchire il linguaggio filmico, qualora se ne colgano le nuove opportunità estetiche, muovendo dalla concezione secondo cui il principio del cinema risiede nel montaggio. Si tratta di sviluppare una forma cinematografica nuova in cui il suono venga utilizzato come elemento di un montaggio audiovisivo e non sia semplicemente legato alla successione delle immagini: è la teoria dell’asincronismo, fondata sul montaggio sonoro contrappuntistico.
«Solo l’utilizzazione del sonoro – scrivono Ejzenštejn, Pudovkin e Aleksandrov – quale contrappunto in rapporto alla scena darà nuove possibilità allo sviluppo e al perfezionamento della regia. I primi lavori sperimentali del cinema sonoro devono essere indirizzati nel senso di una discordanza netta con i quadri visivi. Soltanto il “contrasto” darà la sensazione voluta, sensazione che condurrà poi alla creazione di un nuovo contrappunto orchestrale di quadri visivi e auditivi. (…)
Il metodo del contrappunto in relazione all’architettura del film sonoro non solo non indebolirà la portata internazionale del cinema, ma porterà quest’arte ad un’altezza ed a una potenza non ancora raggiunte».[11] La proposta che il Manifesto del 1928 avanza viene sviluppata negli anni successivi in particolare da Pudovkin, che nel 1933 pubblica il saggio Asincronismo quale principio del film sonoro, in cui rimarca la superiorità teorica della cinematografia sovietica rispetto al progresso tecnico-produttivo del cinema americano, cui però non corrispondono adeguati risultati artistico-espressivi.

Vsevolod Illarionovič Pudovkin (1893–1953) in una istantanea scattata in Italia nel 1951

«Il suono dovrà essere utilizzato in senso contrappuntistico, vale a dire non in sincrono con le immagini, in quanto il sincronismo produce una pericolosa illusione di verità, riducendo così il cinema a un cinema-attrazione, a una semplice riproduzione naturalistica del reale. In tal modo viene meno il ruolo del montaggio inteso come principio compositivo in quanto ogni inquadratura sonora è vista e goduta dallo spettatore in modo autonomo, indipendentemente dal suo rapporto con l’inquadratura che la precede e con quella che la segue. Il sonoro usato in funzione contrappuntistica (sonoro asincrono) è invece uno dei numerosi e importanti elementi del montaggio. Una delle possibilità di tale uso viene esemplificata dallo stesso Pudovkin nella sua raccolta di saggi teorici Film e fonofilm (1935) in cui il regista sottolinea la capacità del suono di introdurre una frattura temporale nella struttura del film».[12]
Film e fonofilm[13]è pubblicato in Italia nel 1935 e Debenedetti dimostra di essere a conoscenza di questo libro di Pudovkin. Nel saggio su Topolino scrive: «L’unico tentativo preciso ed autorevole di appurare un gusto del film sonoro mi pare che si trovi nel saggio del Pudovkin, testé apparso in traduzione italiana. L’idea dell’asincronismo, del contrappunto tra sonoro e visivo considerati veramente quali due linee svolgentesi simultaneamente per orizzontale, e non come un succedersi di amalgami verticali. Il saggio di Pudovkin deve essere considerato alla stregua di un trattato della Pittura o una di quelle Rettoriche fiorite nelle epoche di grande intensità mistica. Credo però che se qualche cosa si possa dire in linea astratta, come orientamento di un possibile gusto del film sonoro, bisogna ancora tenere conto del particolare e apparentemente incongruo rapporto della nuova dimensione sonora aggiunta alle due dimensioni del fotografico: e, se volete, del rapporto tra la prospettiva del fotografico e la densità del sonoro. (…) Rimane il fatto che il visivo si svolge sullo schermo, cioè in un luogo, in uno spazio bidimensionale sui generis, mentre il sonoro ha, come mezzo proprio, il nostro spazio, quello entro cui noi viviamo e siamo tuffati. Noi siamo elementi dello spazio e della densità del sonoro, mentre non possiamo essere elementi dello spazio del fotografico e ci limitiamo a captarne i raggi visivi che ne derivano, cioè qualche cosa di diverso, di eterogeneo da quello spazio fisico su cui si svolge l’azione fotografata (CIN, pag. 99).

4. La vittoria di Topolino

Nell’interpretazione di Topolino, quali ipotesi critiche sono suggerite a Debenedetti dalla teoria dell’asincronismo di Pudovkin?
Proviamo a ripercorrere il suo percorso esegetico partendo dalla ragione per la quale il personaggio disegnato da Disney è “la prima figura perfettamente realizzata del film sonoro”.
«Topolino – scrive Debenedetti – è (ed era soprattutto ai suoi primordi) una figura bidimensionale, che come tale si offriva, senza neppure tentare l’illusione fotografica della terza dimensione. Abitatore scorporato e ridotto a pura linea di un mondo scorporato e di pure linee, esso colmava questo mondo della sua attività, del suo movimento. Il prestigio di Topolino non consiste soltanto nella sua fantasmagorica incolumità per cui superi fantasmagoricamente le leggi del mondo fisico, ma ancora, e forse soprattutto, nella sua astuzia, nella sua ingegnosità, nella bizzarra elasticità della sua psicologia: scaltro venditore di hot dogs, o avido divoratore di focaccine, innamorato della sua topolina, e paladino di lei contro le insidie dei mostri più paurosi e bizzarri, Topolino è un essere che si impresta caricaturalmente, schiacciandole nelle sue due dimensioni, le apparenze di questo mondo, per imitare assurdamente le concatenazioni causali e verificarne in maniera inaudita, evasiva e meravigliosa le leggi.
Che cos’è la musica di Topolino? È il suo completamento, la sua interruzione dimensionale. Topolino ha due dimensioni spaziali: i miracoli ch’egli compie, invece che miracoli sarebbero trucchi. Se Topolino avesse un corpo vero, naturalistico, la sua non sarebbe più una fiaba, diventerebbe illusionismo da giocoliere. Ebbene, la musica, annettendogli una terza dimensione, gliela conferisce – anzi che nello spazio – nel tempo. La musica – lasciatemi dire ancora una volta – è l’onomatopea di questo tempo. Onomatopea di un fatto essenzialmente ideale e psicologico quindi onomatopea idealizzata e lirica.» (CIN, pag. 97-98).
La nozione di onomatopea è mutuata dalla critica letteraria, che la intende come quella figura retorica in grado di arricchire «le capacità espressive della lingua mediante la creazione di elementi lessicali che vogliono suggerire acusticamente, con l’imitazione fonetica, l’oggetto o l’azione significata».[14] Nel lessico musicale, particolarmente nella musica descrittiva, si usa il termine fonosimbolismo per significare un particolare tipo di onomatopea che fa riferimento ai suoni imitativi.
Debenedetti riporta alcuni esempi del valore semantico di “episodi sonori” presenti nei cartoni animati di Topolino. «Quando Topolino rotola per le terre e precipita per gli spazi, la sirena sovracuta che lo accompagna nel suo volo, è precisamente il tempo della caduta, la contrazione sensoria dell’essere fisico che cade, divenuta tuffo e brivido sonoro. (…) Una sua corsa che diventa suono mediante una trascrizione per orchestra jazz del finale della sinfonia del Guglielmo Tell. Quella musica è divenuta tutta ritmo, ritmo deformato anche, a disegnare il tempo della corsa di Topolino. Onomatopea dunque. (…) E quando Topolino grida con la sua vocetta, poco importano le parole che dice: basta l’onomatopea, l’accento, l’inflessione che è quella tipica della situazione, e disegna, per così dire, l’accento di tutte le parole possibili» (CIN, pag. 98).
Ma per dare il giusto significato alla musica, intesa come onomatopea della dimensione temporale di Topolino, Debenedetti ricorre ad altri strumenti della critica letteraria: la distinzione tra materia e contenuto. Nel cinematografo, la materia è “l’immagine in movimento quale la coglie la passività dell’obiettivo”: il contenuto è “il sentimento che di questa materia ha avuto il regista e che egli quindi vuol creare, identici, nello spettatore”. «La musica deve rituffarsi dentro la materia, trovarne e riportarne il messaggio oscuro, e restituirlo in un nuovo contenuto, che non sarà quindi la replica, o il commento o l’illustrazione del contenuto rivelato dal regista, bensì una nuova rivelazione, simultanea a quella visiva, ma diversa, autonoma ad un tempo e cospirante. Necessariamente obbedirà ai ritmi creati dal regista, perché secondo quei ritmi le si presentano le immagini in movimento di cui essa sposa la materia; ma tali ritmi diventeranno le condizioni di una nuova organizzazione, di nuove antitesi e conseguenze, di nuovi ritmi; sto per dire di un nuovo montaggio, trasferendo metaforicamente al sonoro una qualità del visivo, così come al visivo si trasferisce metaforicamente una qualità del sonoro, allorché parla di ritmi» (CIN, pag. 102).

Roy Lichtenstein, Look Mickey, (1961), Washington, National Gallery of Art

Per riassumere. Topolino ci si presenta come una figura dotata di una precisa, complessa, connotazione: come personaggio di un cartone animato possiede due dimensioni spaziali, cui si aggiunge la dimensione temporale, conferita dalla musica. Il sonoro finisce per assumere una valenza antinaturalistica, che evoca accadimenti ed emozioni attraverso l’onomatopea di stati psicologici e lirici. Richiamandosi al dionisiaco nietzschiano Debenedetti parla di una concezione del sonoro – subito intuita ed attuata da Topolino – come “scatenamento immediato del movimento che anima il fotografico”.
La “vittoria di Topolino” consiste in questa sua complessa natura. Da un lato, è una figura bidimensionale, disegnata da pure linee che vive le sue storie immaginose in un mondo scorporato, fatto anch’esso di pure linee. Ma egli, dall’altro lato, va oltre la dimensione bidimensionale grazie al sonoro, alla musica, che ne completano la figura conferendole la temporalità. Per questa ragioni – come scrive Debenedetti – «Mike è veramente il più grande attore: e diciamo di più, il più grande attore di film sonoro. Anzi, fino ad oggi, il solo attore sonoro, se così posso dire: il solo la cui concretezza sia insieme visiva e uditiva. E, quel che importa, questo piccolo divo dalla vocazione così perentoria nasce quasi simultaneamente con l’invenzione del sonoro» (CIN, pag. 93).

NOTE


[1] “Steamboat Willie”. Lingua originale: inglese. Stati Uniti d’America. Anno 1928. Durata, 7 min. Dati tecnici: B/N; rapporto: 1,33:1. Genere: animazione, commedia, musicale. Regia di Walt Disney e Ub Iwerks. Sceneggiatura di Walt Disney e Ub Iwerks. Produttore Walt Disney. Casa di produzione Disney Bros. Studio. Musiche di Wilfred Jackson. Animatori: Ub Iwerks, Wilfred Jackson, Dick Lundy. Doppiatori originali: Walt Disney: Topolino, Minni.
Il cartone è visibile in versione integrale nel sito: https://www.youtube.com/watch?v=BBgghnQF6E4

[2] Per una ricostruzione storica della filmografia disneyana si vedano Dave Smith, Disney A to Z: The Official Encyclopedia, terza ed. Disney Editions (2006) e J.B. Kaufman e Russel Merritt, Walt in Wonderland: The Silent Films of Walt Disney, 3ª ed., Baltimora, The Johns Hopkins University Press.

[3] Oreste De Fornari, Walt Disney, L’Unità/Il Castoro, Milano 1995, pag. 15. Il volume contiene la filmografia di Walt Disney.

[4] Note sulla “biografia cinematografica” di Giacomo Debenedetti, riportate nel risvolto di quarta di copertina di Cinema: il destino di raccontare, cit.: «Giacomo Debenedetti è nato a Biella il 25 giugno 1901, e morto a Roma il 20 gennaio 1967. È stato uno dei maggiori critici letterari del Novecento, e ha insegnato all’Università di Messina e alla Sapienza di Roma. Già nella Torino della sua formazione intellettuale il cinema ha un posto di rilievo con il lavoro per Pittaluga e poi per la Cines, a cui farà seguito il notevole contributo alla nascita del doppiaggio. Nell’autunno 1936 si trasferisce a Roma su invito di Rudolf Arnheim e collabora alla rivista Cinema, dove tiene con grande autorevolezza la rubrica di critica. Costretto all’anonimato dalle leggi razziali, intensifica l’esperienza di sceneggiatore, scrivendo soprattutto con Sergio Amidei una ventina di film. Dal ’46 al ’56 è redattore dei testi parlati del cinegiornale “La Settimana Incom”, migliaia di pagine che raccontano le difficoltà e le speranze degli italiani del dopoguerra. Nel 1958 contribuisce alla nascita della casa editrice II Saggiatore, della quale diventa direttore letterario. Studioso e traduttore di Proust e Joyce, si rivela narratore con 16 ottobre 1943, struggente memoria della deportazione degli ebrei romani. Il suo ultimo, grande saggio è Conversazione provvisoria del personaggio-uomo, letto alla fine di agosto 1965 alla Mostra di Venezia. Sono apparsi postumi Il romanzo del Novecento (1971), Poesia italiana del Novecento (1974), Verga e il naturalismo (1976), Pascoli: la rivoluzione inconsapevole (1979), Proust (2005)».
La personalità di Giacomo Debenedetti è mirabilmente ritratta con affetto filiale in Antonio Debenedetti, Giacomino, Marsilio, Venezia 2002.

[5] Dal risvolto della prima di copertina di CIN.

[6] Sul rapporto tra Croce e il cinema si veda Giorgio Ghezzi, Benedetto Croce e il cinema come arte, il Mulino, 7/8, luglio-agosto 1953.

[7] Vito Santoro, Letterati al cinema. «Solaria», marzo 1927, Liguori, Napoli 2012.

[8] Giacomo Debenedetti, “Cinematografo”, Solaria, II, 3, marzo 1927, pp. 18-23; riportato in CIN, pagg. 55-57.
Per una ricostruzione dei rapporti tra Debenedetti e Alberto Carocci, direttore di Solaria. (e più in generale del clima culturale di quegli anni) si veda Paola Frandini, Il teatro della memoria. Giacomo Debenedetti dalle opere e i documenti, Manni, Roma 2001, pag. 106 e segg..

[9] Lo scritto, inedito in vita e ritrovato all’epoca nell’Archivio Casa Debenedetti, è stato pubblicato per la prima volta in G. Debenedetti, Al cinema, a cura di Lino Miccichè, Marsilio, Venezia, 1983, pp. 43-59. È riproposto nel volume a cura di Orio Caldiron, il quale, nella Nota ai testi, scrive che ora è conservato nell’Archivio Debenedetti presso l’Archivio Contemporaneo Alessandro Bonsanti del Gabinetto Vieusseux di Firenze. Avrebbe dovuto essere letto in una «Conferenza forse progettata per il Circolo del “Convegno”, ma di fatto mai tenuta, quasi certamente nel 1935 perché vi si allude (…) al saggio del Pudovkin Film e fonofilm, a cura di Umberto Barbaro, Roma, Le Edizioni Italia, 1935» (CIN, pagg. 47-48).

[10] S.M. Ejzenštejn, V.I. Pudovkin, G.V. Aleksandrov, Buduščee zvukovoj fil′my. Zajavka, in “Žizn′ iskusstva”, 1928, 32 (trad. it. Il futuro del sonoro. Dichiarazione, in S.M. Ejzenštejn, La forma cinematografica, Torino 1964, pp. 269-70). Scaricabile dal sito http://spenempatico.blogspot.com/2009/02/eisenstein-manifesto-dellasincronismo.html

[11] Ivi.

[12] Voce “Sincronismo e asincronismo” di Daniele Dottorini, in Enciclopedia del Cinema Treccani (2004). Scaricabile dal sito http://www.treccani.it/enciclopedia/sincronismo-e-asincronismo_(Enciclopedia-del-Cinema)/

[13] V.I. Pudovkin, Film e fonofilm: il soggetto, la direzione artistica, l’attore, il film sonoro, traduzione, prefazione e note di Umberto Barbaro. Le edizioni d’Italia, Roma 1935; riedito da Bianco e Nero, Roma 1950.

[14] Voce “Onomatopèa” in Vocabolario Treccani.

RENATO POZZETTO E LA COMMEDIA DEGLI ANNI 90
L’ALTRA FACCIA DEL COMICO BAMBINO
di Valentino Saccà

Nella primavera del 2017 esce il mio saggio monografico Il cinema di Renato Pozzetto. “Un sorriso, uno schiaffo, un bacio in bocca” (edizioni il Foglio Letterario), in cui ho analizzato il personaggio interpretato dal comico lavanese in tutta la sua carriera, facendone la cartina da tornasole di un’epoca, l’Italia (e soprattutto la Milano) degli anni 70 e 80.
Il personaggio pozzettiano però nel decennio successivo ha subito un mutamento caratteriale e psicologico, che ho deciso di analizzare nell’ultima parte del mio saggio.
Negli anni 90, con quel tipo di temperie politica che si apriva alla Seconda Repubblica e una commedia italiana sempre più indirizzata verso un becero qualunquismo, Pozzetto che per circa 15 anni aveva rappresentato un comico bambino, figura candida e surreale, finisce per appannarsi a partire dal 1990, annus horribilis che generò un’altra maschera pozzettiana più sbracata e dedita alla volgarità imperante.
Che ruolo ha Pozzetto in quel decennio e come si adegua il suo surrealismo di matrice cabarettistica a quella nuova produzione filmica?
Partendo da questa domanda è bene porre l’attenzione su un titolo fondamentale nell’identificazione dell’altro volto del comico bambino.
“Anche i commercialisti hanno un’anima”, diretto da Maurizio Ponzi nel 1994, è l’unico titolo che non ho inserito all’interno del mio volume e colgo ora l’occasione per analizzarlo e far partire proprio da qui il discorso sulla modificazione caratteriale e psicologica del personaggio pozzettiano.
A due anni dalla nascita del pool di Mani Pulite, esce “Anche i commercialisti hanno un’anima”, commedia che guarda più alla satira che alla farsa, mettendo a confronto il prototipo dell’impiegato onesto e laborioso con quello del commercialista trafficone e sottaniere.

Enrico Montesano e Sabrina Ferilli in “Anche i commercialisti hanno un’anima”

Nulla di nuovo, ma in realtà Ponzi adotta un’inversione all’interno di questo cliché narrativo. Se nella tradizione della commedia italiana il romano è spesso quello furbo e a volte disonesto, mentre il milanese appare più ingenuo e integerrimo, qui è l’esatto opposto.
Enrico Montesano è un impiegato romano della Corte dei Conti di trasparente rigore, mentre Renato Pozzetto interpreta un commercialista arrivista, donnaiolo e truffatore.
Questo è già un dato interessante che tenta di andare oltre allo stereotipo campanilista, in più Renato Pozzetto che ha sempre vestito i panni dell’ingenuo dalle origini provinciali, qui diventa un vero squalo del nuovo mondo economico-finanziario. Tutto il film verte sul principio di escalation economico-lavorativa messo in relazione alla componente erotica, quale simbolo del potere monetario.
Se la prima parte del film legge in parallelo le due tipologie comico-impiegatizie (quella gogoliana di Montesano a quella cinica di Pozzetto), la seconda si concentra sulla ricerca animista dell’uomo rampante anni 90, che porterà i due caratteri opposti verso l’India, guidati da Sabrina Ferilli nel ruolo di Sonia, sorta di vestale della spiritualità e della sensualità.
Da un punto di vista della costruzione filmica il film di Ponzi è davvero poco riuscito, ma presenta diversi elementi interessanti a conferma che la fisicità lunare e il nonsense linguistico di Pozzetto appartenevano ormai al passato.
Dalla metà degli anni 80 il carattere pozzettiano non rappresentava più il poeta contadino, l’idiot savant lombardo diventa così un faccendiere milanese munito di ventiquattrore, superando persino il complesso edipico che specie nei primi film lo stigmatizzava come eterno bambino.
“Mani di fata”, “Mia moglie è una strega”, “Un povero ricco”, tutti film fortemente rappresentativi del Pozzetto sanbabilino, figura comica che però non rinunciava ancora ad una certa ingenuità di fondo. Se prendiamo ad esempio “Casa mia, casa mia” (girato nel 1988), vediamo un Pozzetto che impara l’arte di arrangiarsi nella capitale, e nei film successivi lo troviamo mutato nel suo doppio prepotente e cinico.

renato Pozzetto ed Eleonora Giorgi in “Mia moglie è una strega”

Nel 1987 avviene un primo tentativo di modificazione del carattere pozzettiano con “Noi uomini duri”, sempre diretto da Maurizio Ponzi.
Anche in questa commedia (la prima interpretata dalla coppia Pozzetto/Montesano) Renato è la classica rappresentazione del milanese arrivista, fa il banchiere e si chiama Silvio! Montesano interpreta un umile tranviere romano. Iniziano così a costituirsi i poli opposti che nel già citato “Anche i commercialisti hanno un’anima”, verranno ripresi e approfonditi.
Uomo d’affari, banchiere, commercialista, milionario, sono tutte tipizzazioni a cui presta volto e corpo Renato Pozzetto in questa decade cinematografica, facendo aderire al proprio character una fascia sociale ben precisa.
Prima ancora di avere una chiara connotazione sociale, il Pozzetto anni 90 prende decisamente forma con il primo capitolo de “Le Comiche” diretto da Neri Parenti, in cui si tenta di mascherare dietro il recupero slapstick con omaggi/furti al cinema muto, un modello di comicità politica in grado di creare un consenso di massa attraverso l’impiego di slogan e status symbol.
Il ruolo sociale giocato dalla maschera comica di Pozzetto, qui abbinata a quella fantozziana di Villaggio, cambia decisamente adeguandosi agli standard politici di un cinema volgare e qualunquista, ma il pubblico sembra non accorgersene, dati gli incassi.
Il 28 ottobre 1990 nelle sale italiane esce “Le comiche”, diretto da Neri Parenti, prodotto da Mario e Vittorio Cecchi Gori e interpretato da Paolo Villaggio e Renato Pozzetto, incasso totale: 1.238.820 guadagnando l’ottava posizione dopo “Balla coi lupi”, “Pretty woman”, “La sirenetta”, “Ghost”, “Vacanze di Natale 90” (di Enrico Oldoini), “Atto di forza” e “Mamma ho perso l’aereo”.

Paolo Villaggio e Renato Pozzetto nel film “Le comiche”

L’anno successivo Parenti bissa il successo con l’inevitabile sequel “Le comiche 2”, uscito nel dicembre del 1991.
Nel 1994 ci sarà anche un terzo capitolo, “Le nuove comiche”, sorta di pietra tombale della comicità pozzettiana sempre più incapace di esprimersi e imbrigliata nelle pastoie di un intrattenimento becero-televisivo a cui Paolo Villaggio aveva già ceduto da diverso tempo.
Nella trilogia di Parenti, Pozzetto pur non rappresentando una tipologia sociale specifica come nel film di Ponzi, possiede una vis comica triviale e aggressiva, spesso vicina alla comicità anale ed escrementizia di cui Villaggio è spesso campione imbattuto.
In “Le comiche 2” c’è un segmento che merita di essere analizzato a questo proposito. Pozzetto e Villaggio vestiti da Babbo Natale in una casa aristocratica, si trovano a fare la gag dello specchio rotto, imitando uno i movimenti dell’altro. Questo classico espediente comico sembra utilizzato in modo teorico per sottolineare la specularità tra Pozzetto e Villaggio.
La commedia pozzettiana degli anni 90 si pone, per certi versi, come una sorta di antitesi a quella dei telefoni bianchi.
Se nei film di Camerini lo spazio-ambiente sollecitava i personaggi a sognare il denaro (un pò come in Lubitsch e Clair) come desiderio dorato e raggiungibile solo attraverso la fantasia degli umili, il nuovo Pozzetto viene risucchiato da uno spazio-ambiente in cui l’ideale monetario viene perseguito attraverso il desiderio di coatta possessione erotica.
L’autentico manifesto a questo proposito è “Ricky & Barabba”, diretto e interpretato da Christian De Sica.
Pozzetto nel film di De Sica tenta un parziale recupero dell’ingenuità del suo personaggio originale, come milionario caduto in povertà e vittima di una società egoista e priva di valori. Pur mantenendo lo status quo agiato, il personaggio pozzettiano appare meno aggressivo che in film coevi, ma letteralmente divorato dal vuoto cafonal-chic del contesto che fa di “Ricky & Barabba”, forse, il nadir assoluto dell’intera carriera cinematografica dell’attore.

Christian De Sica e Renato Pozzetto in “Ricky & Barabba”

Anche “Infelici e Contenti” (diretto da Neri Parenti nel 1992) si pone sulla medesima linea del film di De Sica.
Pozzetto per la prima e unica volta fa coppia con Ezio Greggio, riproponendo il doppione oppositivo dell’ingenuo e del furbo che uniscono le forze contro un mondo meschino e crudele.
Renato anche in questo caso recupera il character del candido per di più invalido su carrozzella, mentre Greggio è un non vedente che vive di truffe e di espedienti.
Pare che il turpiloquio sia ormai il linguaggio più consono alla nuova maschera pozzettiana, orfana dei suoi echi lunari e persino malinconici.
Ma questa sua nuova carnevalizzazione del doppio ha vita breve, dato che nell’arco di circa quattro anni esaurisce la propria efficacia all’interno del panorama cinematografico di riferimento.
Tra la fine del 1994 e l’inizio del 1995, il Pozzetto cinico-rampante è già praticamente estinto, e la sua presenza sul grande schermo inizia a ridursi notevolmente.
“Miracolo italiano” è una stanca riproposizione della formula ad episodi, diretta con la mano sinistra da Enrico Oldoini.

Renato Pozzetto in “Miracolo italiano”

Nel film in questione (autentico manifesto estetico della Seconda Repubblica) Pozzetto appare in un microscopico episodio, in cui è possibile notare la sua maschera invecchiata e schiava di un umorismo decisamente ammorbidito, preannunciando il suo prossimo ritorno alla televisione.
Nel 1996 esce “Papà dice messa”, diretto e interpretato da Renato Pozzetto, tentativo di riportare l’umorismo pozzettiano verso il nonsense delle origini. I tempi sono inevitabilmente cambiati e il comico bambino ora appare come figura sentimental-paternalistica, carattere che lo segnerà in tutti i suoi lavori successivi.
Nel 2000 con la serie Tv “Nebbia in Valpadana”, Renato ritrova lo storico compagno di cabaret Cochi, ma non la surrealtà degli esordi.
La miniserie, diretta da Felice Farina, è il nostalgico commiato di Pozzetto verso il mondo del cabaret e nei confronti di quel linguaggio libero e iconoclasta che la nuova televisione ha ormai inequivocabilmente cancellato.

Renato Pozzetto insieme a Cochi Ponzoni nella Serie TV “Nebbia in Valpadana”

FEDIC, LE PERSONE E I FATTI

FILMMAKER ALLA RIBALTA:
MATTEO PALMIERI
di Roberto Merlino

Ho conosciuto Matteo una quindicina di anni fa. Aveva vent’anni. Era timido ed impacciato. Suo padre, Maurizio, era stato indirizzato da me perché -così gli era stato detto- Matteo avrebbe potuto trovare un valido beneficio nell’attività teatrale.
L’incontro con Maurizio avvenne nell’ambulatorio di continuità assistenziale a Castelnuovo Garfagnana, dove svolgevo (e svolgo) la mia professione di medico. Mi aveva spiegato che Matteo aveva bisogno di un “impegno stabile”, un’attività più continuativa rispetto a quella che lo impegnava solo saltuariamente. Perché, in effetti, Matteo aveva già fatto qualche esperienza a Barga (LU), partecipando ai laboratori teatrali di un mio caro amico, l’attore-regista Maurizio Biagioni.

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Leggendo per Barga

Gli dissi che guidavo una compagnia di teatro amatoriale a Pisa e che per Matteo, abitante in Garfagnana, sarebbe stato  impegnativo fare ogni settimana, tutti i mercoledì sera, 75 chilometri all’andata e altri 75 al ritorno. Per giunta Matteo non ha la patente di guida e la stazione ferroviaria di Pisa è molto lontana dallo spazio-prove del gruppo pisano.
Maurizio non si perse d’animo e si impegnò a fare da autista.
Devo dire che la mia iniziale “perplessità” fu ben presto cancellata dalla realtà degli eventi: i tre garfagnini (nel frattempo si era aggregata anche la madre, Maria Rosa) erano sempre i primi ad arrivare e gli ultimi ad andare via. Non solo, mentre Matteo recitava, Maurizio prendeva dimestichezza con le luci del palcoscenico, diventandone in breve tempo il “manovratore”. Maria Rosa si limitava ad un ruolo di attenta spettatrice (anche se, ultimamente, sta covando velleità da “aiuto-regista”).
Matteo, dal canto suo, faceva passi da gigante: la timidezza iniziale lasciava campo ad una “voglia di comunicare” e ad una padronanza del palcoscenico che, soltanto pochi mesi prima, sembravano al di fuori delle sue possibilità.
Il “brutto anatroccolo” diventava “cigno” grazie ad una caparbietà, una costanza, una disponibilità allo studio… che erano d’esempio per tutti! Non solo: il gruppo in cui si era inserito -la compagnia teatrale “L’Albero di Putignano”- era stato splendido nell’accoglierlo e sostenerlo, artisticamente e umanamente.
Ho sempre ritenuto che il primo compito di un regista sia quello di non buttare i suoi attori allo sbaraglio e di cimentarli in ruoli che siano proporzionati alla loro capacità. Fu così che Matteo iniziò col piccolo ruolo di “cameriere”, in “Confusioni” di Alan Ayckbourn: un personaggio che non dice battute, ma deve intervenire in scena con puntualità e precisione.
Nei due anni successivi, ormai pronto per compiti più impegnativi, Matteo fu impiegato in ruoli da caratterista e poi, in costante crescita, anche da co-protagonista e protagonista.

Una scena di “Mon amour”

Grazie all’attitudine allo studio, unita ad una grande disponibilità, Matteo è in grado di passare con disinvoltura da interpretazioni di tipo drammatico ad altre decisamente comiche. Questo ha fatto sì che, parallelamente al suo impegno con L’Albero di Putignano, fosse ripetutamente coinvolto nei lavori di altri gruppi. Anche in questo caso si è trovato ad affrontare “situazioni” completamente diverse, passando da un’impostazione di tipo “classico” (per esempio con il “Teatro dell’Accadente” di Forte dei Marmi), al teatro di strada (col Gruppo “Alessandro Masotti” in Garfagnana), fino agli spettacoli post-laboratoriali (col regista Maurizio Biagioni, di Barga).
Per la “formazione” e la crescita di Matteo Palmieri si sono rivelati fondamentali gli anni di esperienza diretta sul palcoscenico, ma non sono da sottovalutare anche i momenti “laboratoriali”, sia a Pisa sia a Barga, a cui ha sempre partecipato con l’entusiasmo e la curiosità di chi ha dentro di sé il “fuoco sacro della recitazione”.
“L’Albero di Putignano”, la compagnia teatrale in cui Matteo è stato inserito quindici anni fa, rappresenta il “settore teatrale” di Corte Tripoli Cinematografica (Cineclub FEDIC di Pisa). E’ facile intuire, quindi, che molti registi CTC vanno ad attingere attori in questo “bacino” a portata di mano. E Matteo è decisamente il più gettonato, avendo preso parte ad oltre 30 film.
In sintonia con la sua voglia di migliorarsi costantemente, non perde occasione per partecipare ad esperienze formative, tra cui, per esempio, un seminario di recitazione cinematografica condotto dall’attrice Barbara Enrichi.
Come per il teatro, anche per il video Matteo Palmieri ha fatto varie esperienze anche al di fuori di Corte Tripoli Cinematografica ed in particolare per la Taddeo Film, di Aulla (MS), con la quale ha girato quattro cortometraggi.
Oggi, a 35 anni, Matteo conserva la spontaneità e la genuinità del nostro primo incontro. Non è più “impacciato” e, soprattutto, è diventato un ottimo attore, in costante crescita.
L’intelligenza scenica, la disciplina, l’impegno e la passione, ne fanno un interprete che ogni regista vorrebbe avere nel suo cast.

TEATRO

Spettacoli con regia di Maurizio Biagioni (Barga – LU)
“Le libere donne di Magliano” da Mario Tobino

Tono in “Le libere donne di Magliano” da Mario Tobino

“Macbeth” da William Shakespeare
“Il volo Oceanico” da Bertold Brech
“La favola del figlio cambiato” da Luigi Pirandello.                                    

Spettacoli dell’Albero di Putignano, con regia di Roberto Merlino (Riglione – Pisa)

“Confusioni” di Alan Ayckbourn
“Il settimo si riposò” di Samy Faya
“Il papocchio” di Samy Fayad
“Sogno di mezza estate” di Roberto Merlino tratto da William Shakespeare

Dallo spettacolo teatrale “Sogno di una notte di mezza estate”

“Incontri” di Roberto Merlino ispirato a “Il piccolo principe” di Antoine de Saint Exupery
“Come si rapina una banca” di Samy Faya
“Dramma giallo” di Achille Campanile
“Acqua minerale” di Achille Campanile
“L’eccezione e la regola” di Bertold Brecht
“Il povero Piero” di Achille Campanile
“Modello Fidam” di Roberto Merlino

Matteo Palmieri (a destra) in “L’eccezione e la regola” di Bertold Brecht

Spettacolo della Compagnia “Teatro dell’Accadente”,  con regia di Luca Brozzo (Forte dei Marmi – LU)

“La rosa tatuata” di Tennessee Williams

Matteo Palmieri in “La rosa tatuata” di Tennessee Williams

FILM

“La valigia” di Fabio Rossitto (2006)
“Il Maestro” di Roberto Merlino (2007
“Persone” di Roberto Merlino (2010)
“Fauci di belva” di Nicolò Trunfio (2011)
“Nutema” di Roberto Merlino (2011)
“Riekajeski” di Marco Rosati – Andrea O. Bizzarri (2012)
“Un ragazzo sfortunato” di Roberto Merlino (2013)
“Intervalli di Confidenza ” di Marco Rosati – Andrea O. Bizzarri (2013)
“Torna domani” di Marco Rosati (2013)
“All’improvviso” di Manuele Moriconi (2013)
“40 in 6” di Marco Rosati (2014)
“Desmodus” di Marco Rosati (2014)
“Jobs Attack-Che fortuna un posto di lavoro!” di Simone Bianchi (2015)
“Brainstorming” di Marco Rosati (2015)
“This is the world we live” di Marco Rosati (2015)
“L’occasione” di Fabio Ravaioli (2016)
“Si deve morire” di Roberto Merlino (2016)
“La tisana” di Roberto Carli (2016)
“Ti amo Ti amo Ti amo” di Luciano Ibi (2016)
“Gli osservatori” di Luciano Ibi (2016)
“Fantastica Italia –  Episodio 1 L’appartamento”  (2016)
“The Demon’s Light” di Alessandro Baccini (2016)
“Fantastica Italia –  Episodio 3 Giustizia lunga” (2017)
“Violenze di coppia” di Luciano Ibi (2017)
“Lo scambio – Episodio 1” di Marco Rosati (2017)
“Mon amour” di Marco Rosati (2017)
“Camera singola” di Fabio Ravaioli (2017)
“A lume di candela” di Fabio Ravaioli (2017)
“CTC è anche questo” di Marco Rosati (2017)
“Condom” di Roberto Merlino (2018)
“In memoria di” di Marco Rosati (2018)
“Diario di bottega” di Manuele Moriconi (2018)
“Lo scambio – Episodio 2” di Marco Rosati (2018)
“I soldi si mangiano” di Luciano Ibi (2018)
“Baciamano” di Fabio Ravaioli (2018)
“Il guerriero e l’amuleto” di Luciano Ibi (2018)
“Fantastica Italia – Episodio Gli Imprenditori Edili” di Luciano Ibi (2018)

RIVIERE IN CORTO 
di Francesco Presta

Si è concluso “Riviere in corto – Gran Premio del Pubblico”, patrocinato da “FEDIC Scuola” concorso di cortometraggi giunto quest’anno alla terza edizione, nato dal gemellaggio tra il CineCircolo Maurizio Grande di Diamante (CS) e il Cineclub Foto-Video di Genova, entrambi associati “FEDIC”.
Il concorso vuole mettere a confronto i film premiati l’anno precedente nei rispettivi Festival Internazionali “Mediterraneo Festival Corto” e “La Lanterna”, organizzati dalle rispettive associazioni, senza tralasciare l’aspetto non meno importante di “gemellare” la “Riviera dei Cedri” calabrese con le “Riviere di Levante e di Ponente” liguri.
Inoltre il termine “Gran premio del Pubblico”, si riferisce al fatto che le opere vengono proiettate ad un vasto pubblico, chiamato poi ad esprimere un voto da riportare su delle schede di votazione appositamente realizzate. Le proiezioni generalmente vengono effettuate nello stesso giorno ed alla stessa ora sia sulla Riviera dei Cedri che a Genova.
E’ stato premiato a Roma, con la presenza del regista, a fine Novembre nella rassegna “Strenne Piccanti”, organizzata dall’associazione “Ipse Dixit” – Delegazione Romana dell’Accademia del Peperoncino – che ha la sua sede nazionale proprio a Diamante.
Quest’anno il CineCircolo Maurizio Grande ha scelto di proiettare i film ad alunni delle scuole superiori, in particolare a quelli del liceo Scientifico “P. Metastasio” di Scalea (CS) e l’Istituto tecnico per il Turismo di Tortora (CS).
Gli alunni non si sono limitati a compilare le schede per la valutazione dei cortometraggi proiettati ma, classe per classe, hanno compilato delle relazioni sulle differenze tra lungometraggi e cortometraggi e riflessioni sulle opere che hanno visionato.
Non solo, ma si sono anche soffermati sulla realizzazione, ed hanno anche espresso nelle relazioni dei commenti sui film che hanno visionato.
Tra gli elaborati pervenuti dagli Istituti scolastici coinvolti, la Redazione di Carte di Cinema ha scelto “Storie dai corti”, redatto dalla classe IV B del Liceo Scientifico “Pietro Metastasio” di Scalea (Cs)

STORIE DAI CORTI

Per far felici noi studenti non ci vuole molto: basta una circolare che avvisi di un incontro che si terrà in aula magna tutti insieme, invece della normale lezione ed ecco che la reazione immediata è quella di essere più che  contenti, prima ancora di conoscere l’argomento in discussione.  
E’ quanto è avvenuto qualche giorno fa: quando ci è stato comunicato che giorno 7 novembre 2018, dalle undici all’una, le classi quarte del Liceo Metastasio si sarebbero riunite in aula magna per un’attività comune, tutti abbiamo intimamente gioito pensando che sarebbe stata una buona occasione per riposarci, giocare al telefonino o chiacchierare con i nostri compagni. Ma quando abbiamo saputo che si sarebbe trattato della visione di sei cortometraggi su cui avremmo dovuto esprimere un giudizio, l’evento ci è sembrato favorevolmente giunto, e non casualmente, come felice congiuntura, in un particolare momento.
Proprio in quei giorni, infatti, la nostra classe stava lavorando alla realizzazione di una Pubblicità progresso a tema “L’amore ieri, l’amore oggi: tra gioie, tormenti, (non) violenza”. Un “compito di realtà” scaturito dallo studio del Latino, la cui finalità era quella di cercare Catullo nella realtà che ci sta intorno. Nello specifico, dopo aver scelto degli stati d’animo legati al sentimento dell’amore (euforia, senso di abbandono, malinconia, nostalgia), e averli messi in relazione con alcuni carmi catulliani che affrontavano tali sensazioni, stavamo girando un video che aveva come scopo la promozione del sentimento d’amore (anche quando doloroso) senza che esso sfociasse mai nella violenza.
Quando, dunque, Francesco Presta, direttore Artistico del Cinecircolo “Maurizio Grande” di Diamante, ci ha fornito alcune informazione sui cortometraggi che avremmo visto e sul modo in cui votare, per l’evento “Riviere in corto” che ha visto coinvolte la Riviera dei Cedri dell’alto Tirreno cosentino e la Riviera Ligure, le luci si sono abbassate e per noi si è immediatamente creata un’atmosfera di stimolante attesa. Non è certo facile far rimanere concentrati dei ragazzi della nostra età, ma quei corti ci sono riusciti, e anche bene!
I temi in essi trattati, spesso da noi affrontati anche in classe, ci sono sembrati molto attuali e avvincenti. Ciò perché i cortometraggi, a differenza dei film, fanno in modo che l’interesse non cali e non ci si soffermi su particolari inutili. Tutti i registi dei corti, pur avvalendosi delle tecniche cinematografiche destinate ai film, si sono rivelati molto abili nel concentrare tante informazioni, tematiche ed emozioni in poco tempo e soprattutto in poche scene. Un altro ruolo importante hanno giocato le musiche, che hanno letteralmente rapito il giovane pubblico.
Il primo cortometraggio in concorso è stato “Colapesce”, “una storia di mare, di cui si sa come incomincia, ma non si sa come finisce”. Il mare è l’elemento che aiuta il personaggio protagonista Cola a capire una volta per tutte quanto sia importante nella vita di un ragazzo poter scegliere il proprio mondo, abbattendo cosi le barriere fisiche e sociali. Vincendo la diversità, egli sfida se stesso in un’epica battaglia contro la vita, particolarmente dura nei suoi confronti. Si assiste ad un doppio viaggio: da una parte il Cantastorie, con fare favolistico, ci conduce verso la leggenda, quella legata al mito di Colapesce, il giovane nuotatore tanto abile da porsi egli stesso come sostegno della terza colonna, ormai incrinata, che sorregge la Sicilia; dall’altra invece ci proietta verso le vicende di un Cola di tutti i giorni, che vive in mezzo a noi nascosto, perché ha paura di rivelare quel meraviglioso essere che è in lui.

Ebbene, con grande sensibilità Vladimir Di Prima ha voluto circondare di un’aura leggendaria la storia che fa da cornice stessa al racconto, alternando il primo piano del cantastorie, abbronzato e con chiara inflessione sicula, con affascinanti e spesso inedite riprese subacquee, per attualizzare la vicenda, in cui domina la figura di un potente e vigoroso moderno Colapesce, disprezzato in paese da chi lo chiama “sciancato”, ma capace di immensi slanci solidali, ad esempio nei confronti di una migrante che senza il suo intervento sarebbe senz’altro annegata. Perché lui, al pari del Colapesce della favola, a terra si sente limitato ma in mare può ritrovare la libertà, libertà agognata anche dal dinamico personaggio della madre, che cambiando posizione nei confronti del figlio al mare lo affida perché sia libero e senza limiti.
Troviamo il tema della voglia di essere liberi anche nel secondo corto, “La slitta” di Emanuela Ponzano, regista e attrice belga. Nel corto è raccontata la storia di Alfreld, un bambino di 9 anni. La sua è un’umile famiglia di montagna, con genitori pieni di pregiudizi e stereotipi riguardo gli immigrati e con un carattere sempre malinconico e scontroso. Emerge chiaro un riferimento del cuore dei genitori di Alfred ai luoghi in cui vivono, freddi innevati e malinconici. Nel corto la figura del padre è quella di un “padre-padrone”, che nega la libertà anche del gioco al figlio.

Così Alfred decide di trasgredire i suoi limiti e fugge nei boschi per ritrovare la felicità, ma durante il percorso si perde; costernato, si guarda intorno e trova una slitta. Poco dopo compare anche il possibile proprietario della slitta, un ragazzo polacco, con il quale in principio ha uno scontro, ma successivamente, dopo un gioco di sguardi e silenzi, i quali assumono un ruolo fondamentale, riesce a stringere un forte legame che andrà oltre ogni tipo di pregiudizio e supererà ogni diversità. La loro complicità dipenderà anche dai loro probabili simili passati, frastornati e difficili generati dalle loro famiglie. Sembrerà strano ma un modesto e comune oggetto come una slitta assume molteplici significati e diventa simbolo di intesa e di gioia. Possiamo infine dire che in un corto semplice, coerente e scorrevole sono stati inseriti temi complessi e attuali come quelli del razzismo o l’immigrazione toccati in modo leggero ed intimo.
Un altro tema, trattato in maniera efficace dal regista Paolo Budassi “in “Senza occhi, mani e bocca” è quello della pedofilia. Il corto mette in scena un tema molto delicato e attuale allo stesso tempo, ovvero quello degli abusi sui minori, qui trattato in maniera magistrale, senza nulla togliere all’efficacia della narrazione. Un’opera molto toccante basata sulla storia travagliata e angosciante di una ragazza rimasta traumatizzata psicologicamente, al punto tale da non riuscire più a esprimersi con le parole. Ottime risultano le tecniche cinematografiche attraverso le quali possiamo captare le emozioni della protagonista. Il cortometraggio ricorre all’uso di vari flashback che raccontano appunto la complessa vicenda della ragazza.

Tale corto inoltre sottolinea l’utilità di avvalersi dell’arte per tirar fuori i propri traumi, in questo caso il disegno, mezzo attraverso il quale Bianca riesce a sfogarsi e a raccontare le violenze subite da piccola. In conclusione il corto conferma la capacità del cinema di veicolare temi duri che necessitano di essere trattati. “Senza occhi, mani, bocca” è un piccolo gioiello capace di toccare con il suo rigore e la sua realtà le corde più sensibili del nostro animo.
Trovare il coraggio di chiudere una storia è davvero difficile. Questo è ciò che ci viene trasmesso dal cortometraggio “Cambio vita”di Loredana de Marco.

La ragazza vuole cambiare vita, cerca la forza per farlo. Decide di andare via, prepara le valigie rivivendo ogni episodio felice della sua relazione con Marco, il suo compagno sulla sedia a rotelle, non risponde alle sue chiamate, si toglie la fedina e sembra esser convinta di poter iniziare una nuova vita lontana da lui.  Marco rientra a casa dal lavoro, e – colpo di scena – la trova intenta a cucinare e dolce come al solito, che l’accoglie con un sorriso, ma quando va in camera a posare la borsa, trova l’anello sul comodino e si reca da lei in cerca di spiegazioni. Questo cortometraggio ci fa riflettere molto, la ragazza non trova il coraggio di lasciarlo date le circostanze, ma secondo noi è più giusto lasciare una persona per la quale non si prova più amore piuttosto che continuare a stare insieme per compassione.
Importante è il ruolo che riveste il cortometraggio “Il viaggio di Sarah”, in cui la scelta di voler introdurre i diversi ricordi con dei flashback è servita a noi spettatori, ma soprattutto alla protagonista a ricomporre alcuni pezzi mancanti per ricostruire il passato. Ottima anche la scelta musicale per rappresentare le vicende di Miriam e Anna, coinvolgente a tal punto da commuovere.

La professionalità degli attori è venuta fuori durante l’intero corto in quanto sono riusciti a mantenere l’attenzione di tutti gli alunni presenti in aula. Le tematiche principali sono molteplici: l’amore e la scoperta della verità, la guerra, la persecuzione nazista del Novecento e l’omosessualità. Solitamente, nella tradizione filmica, la tragedia della guerra viene rimarcata in maniera più approfondita, in questo caso il cortometraggio è servito a dare molta più importanza ad altre tematiche, spostando questa in secondo piano. Una novità è che nel trattare il tema dell’omosessualità il regista non ha scelto due uomini, come accade spesso, bensì due donne, le quali hanno raccontato la propria storia attraverso le scoperte di Sarah, venuta a conoscenza della sconosciuta verità della sua defunta zia.  Tante sono state le emozioni provate durante tutta la visione del corto, soprattutto nella parte finale, in cui si è riusciti a trattare con delicatezza rispetto una tematica che ancor oggi per molti rimane un tabù, giungendo a coinvolgere e a far annullare per almeno un momento tutti i pregiudizi sull’omosessualità.
L’ultimo corto che abbiamo visto è stato “Più accecante della notte” che è stato forse quello che ha meno colpito noi studenti. Il cortometraggio mostra le debolezze di un uomo comune, Dario, che cade nei debiti del gioco d’azzardo e si rivolge ad un usuraio, Santo. Al termine del tempo dato dall’usuraio per il saldo del debito, Dario pur non avendo i soldi si presenta all’incontro, tuttavia non è rassegnato al suo destino ma si contrappone agli uomini di Santo, ingaggiando una lotta a colpi di arma da fuoco al limite del reale. In questo particolare punto vengono riprese tecniche e grafiche tipiche dei grandi film. Nella sua lotta personale contro la criminalità Dario perde la fidanzata, e finisce col non aver più le forze per opporsi agli uomini di Santo, pertanto pagherà il suo debito con la vita.
Nel cortometraggio si possono però riscontrare alcuni difetti. In primis la tematica principale del gioco d’azzardo non è trattata in modo tale da renderne partecipe lo spettatore. Un altro punto debole è l’incongruenza fra l’audio e le animazioni, che rende le scene d’azione poco reali a causa della bassa qualità degli effetti stessi.
Al di là di tutto, noi alunni della classe IVB abbiamo trovato questa attività molto utile a noi studenti, poiché sono stati trattati in un tempo molto contenuto, con tecniche che non hanno nulla da invidiare ai grandi film, temi che ci sono piaciuti. Grazie a questo linguaggio rapido e immediato, che ci ha fornito anche alcuni spunti per la revisione del nostro corto sull’attualità di un classico come Catullo, ci siamo fatti trasportare dalle emozioni e abbiamo vissuto per pochi minuti le sensazioni che i protagonisti delle storie narrate hanno provato. Lo abbiamo fatto con uno sguardo critico e attento, al fine di dare una valutazione, e per poche ore, ci siamo sentiti critici cinematografici, il che non ci è affatto dispiaciuto.

Un momento della premiazione, alla presenza del Presidente della FEDIC Lorenzo Caravello, dell’ attrice Romina Bufano, interprete del cortometraggio “Il viaggio di Sarah” di Antonio Losito

CINEMA E ALTERNANZA SCUOLA LAVORO AL CINECLUB FEDIC CAGLIARI
di Pio Bruno

Se rivolgo lo sguardo alle origini del Cineclub FEDIC Cagliari, non posso non rimarcare alcune differenze sostanziali rispetto alla sua attuale fisionomia: nella prima metà degli anni ’50 aveva visto la luce grazie ad alcuni cine-amatori, o cine-dilettanti, come allora amavano definirsi, che mettevano a confronto le proprie creazioni su pellicola, in 16 o in 8mm, proponendone la visione non solo negli spazi angusti delle piccole sale di volta in volta disponibili, ma anche nelle scuole, assieme a pellicole di film d’autore, con l’intento di divulgare il linguaggio cinematografico. Invece a partire dalla fine degli anni ’90, i soci, sempre più raramente autori, sono essenzialmente degli spettatori, cinefili impegnati certo, desiderosi di assistere a delle proiezioni per condividere in una sala assieme ad altri cinefili, e magari anche discutere, le miriadi di cortometraggi che circolano tra i festival che da una ventina d’anni hanno iniziato a moltiplicarsi in modo esponenziale in ambito nazionale e internazionale. Il fatto che il Cineclub negli ultimi decenni abbia cessato di essere considerato uno spazio privilegiato per un confronto tra autori è probabilmente il segno di un mutamento generazionale, diretta conseguenza della rivoluzione tecnologica introdotta dai sistemi informatici di post-produzione “home” per cui oggi persino un ragazzino è in grado di realizzare da solo film di ottima fattura (dal punto di vista della qualità tecnica) e sente meno, ahimé, il bisogno di un confronto al di fuori delle infinite possibilità della comunicazione on line. Una situazione riscontrabile anche presso altre associazioni cinematografiche, non solo nel Cineclub cagliaritano, e se vogliamo è una caratteristica che non è di per sé necessariamente negativa.
Ma la domanda che, da quando ho assunto la gestione del Cineclub, mi sono posto è:”Che fare se si volesse invertire questa tendenza e quali soluzioni è possibile trovare perché il Cineclub torni a servire da stimolo alla creazione di lavori cinematografici?“.
Posto che le strade da percorrere sono sicuramente varie, uno dei primi passi che il Cineclub cagliaritano ha intrapreso in questo senso qualche anno fa, è stato quello di acquisire il materiale necessario a realizzare video di buona qualità, grazie ad alcuni contributi elargiti negli ultimi anni dalla FEDIC nazionale come premio alle attività svolte, che hanno permesso all’associazione di dotarsi di mezzi per girare in full HD, di microfoni e di un piccolo ma efficace set di luci: è l’inizio di un cammino che, oltre ad attirare la presenza di alcuni autori, registi e fotografi, ha segnato una piccola ma importante svolta in grado di garantire ai soci la possibilità di realizzare dei lavori cinematografici targati FEDIC, con risultati meno approssimativi.

Monica Mameli sul set di “Esperimento Cassandra”

Successivamente, probabilmente in virtù del fatto che chi scrive, così come un numero consistente di soci del Cineclub, è di professione insegnante (categoria professionale che rappresenta ancora oggi un baluardo nella difesa della cultura cinematografica, contro la diffusa tendenza a considerare il film come mero sottofondo allo sgranocchiare pop-corn), è avvenuto l’incontro tra l’associazione che dirigo e alcuni istituti della scuola secondaria, e l’occasione si è concretizzata in particolare grazie alla recente istituzione nella scuola pubblica italiana della tanto vituperata Alternanza Scuola Lavoro (ASL) che permette agli studenti che frequentano gli ultimi tre anni del loro percorso di studi nelle superiori di II grado di poter fare esperienza presso imprese e aziende ma anche presso enti culturali, seguendo liberamente un proprio progetto sotto la guida di un tutor. È un tipo di attività che gli studenti sono tenuti a fare e che probabilmente andrà riveduta e corretta ma che, in modalità più o meno simili, esiste anche in altri paesi europei. In che modo il Cineclub FEDIC poteva qui intervenire? Proprio in quanto associazione culturale, ha potuto istituire delle convenzioni con un paio di Istituti superiori per invitare i giovani, sulla base di concreti progetti elaborati da alcuni docenti, a partecipare volontariamente ad un percorso in ASL finalizzato alla realizzazione di video, un’attività che si è poi rivelata valida sia dal punto di vista didattico, se pensiamo alle finalità educative e culturali (la creazione attiva attraverso il linguaggio cinematografico di un’opera in tutti i suoi aspetti, concettuali, formali e pratici), sia sotto quello dell’esperienza lavorativa, in quanto tali progetti hanno previsto l’allestimento di set di riprese anche con il supporto di professionisti ed esperti il cui contributo ha messo in contatto gli alunni con la realtà della produzione professionale di audiovisivi, settore che in Sardegna sta avendo un notevole sviluppo,  suscettibile di suggerire opportunità verso sbocchi lavorativi interessanti. 

Riprese esterne di “Le collier”

Questo tipo di collaborazione ha preso l’avvio nell’anno scolastico 2015/16 con un Istituto professionale cagliaritano, l’Istituto “P. Martini”, allo scopo di coordinare un gruppo di alunni nella realizzazione di uno spot pubblicitario, giusto 3 minuti di video, per un’ipotetica società di servizi creata nell’ambito delle attività di IFS (Impresa Formativa Simulata) previste dall’ASL: i ragazzi hanno simulato l’organizzazione di una società di promozione di eventi e spettacoli (“Organiz-action“) poi, sotto la guida di un’esperta di marketing e, per quanto riguarda il video, del sottoscritto, hanno elaborato l’idea centrale dello spot da strutturare in due scene; dopo la stesura dello storyboard, si è quindi passati alla fase operativa con l’allestimento del set in due ambienti della scuola. Le attività di ripresa, durate una mattina intera, sono state molto divertenti ed allo stesso tempo istruttive e il prodotto finale, il cui montaggio era a cura del Cineclub, è stato da tutti apprezzato. Un inizio promettente.
Nell’anno scolastico successivo, il 2016/17, la convenzione ASL è stata stipulata con l’IIS “De Sanctis-Deledda” di Cagliari, e una socia FEDIC, Monica Mameli, docente presso questo istituto così come il sottoscritto, ha elaborato un “Progetto Cinema” che prevedeva la realizzazione di un corto che fosse totalmente elaborato da un gruppo scelto di allievi, dall’ideazione del soggetto alla sceneggiatura, dalla regia alle riprese, sino al montaggio audio/video. Il Cineclub FEDIC ha organizzato la parte teorica preliminare centrata sulla conoscenza del linguaggio cinematografico, ha fornito il materiale per girare e, in una prima fase, si è occupato anche della post-produzione. Il risultato finale, dopo diversi mesi di lavoro, è stato un cortometraggio di una ventina di minuti interpretato dai ragazzi: “Sulle tue orme“, una fiction drammatica ambientata presso un centro di recupero per tossico-dipendenti.
Nell’anno scolastico 2017/18, i progetti realizzati assieme agli alunni sono stati due: un corto realizzato con le stesse modalità dell’anno precedente, “Esperimento Cassandra“, una fiction dal soggetto fantasy interamente ideato dagli alunni, e realizzata sempre sotto il coordinamento della professoressa Mameli, e un lungometraggio (63:00”) recitato in francese basato sulla novella “La parure” dello scrittore francese Guy de Maupassant. Le modalità di realizzazione di quest’ultimo lavoro sono state però alquanto differenti: contrariamente al gruppo di alunni coordinato dalla collega, formato da giovani cinefili selezionati, i ragazzi e le ragazze che hanno partecipato alla realizzazione del film “Le collier“, questo il titolo del lavoro, erano alunni del sottoscritto, studenti di due classi, una quarta e una quinta del liceo linguistico, poco avvezzi al linguaggio cinematografico e al cinema come mezzo di espressione, e quindi interessati a partecipare a questo progetto soprattutto in quanto permetteva loro di raggranellare un congruo numero di ore di ASL che erano tenuti a svolgere, per cui hanno lavorato solo come attori, protagonisti e comparse, e come elementi della troupe che si occupava delle luci, dei microfoni, del ciak e di tutti gli aspetti organizzativi del set di riprese, mentre della sceneggiatura e dei dialoghi mi sono occupato io stesso, in quanto autore FEDIC ed allo stesso tempo loro insegnante di francese, adattando liberamente la novella originale. L’idea ha funzionato, grazie anche al contributo volontario di un altro socio del Cineclub, l’autore e fotografo Tore Iantorno Asta, che si è occupato di dirigere la fotografia e la cui esperienza professionale ha garantito uno standard di qualità durante tutte le riprese, e grazie anche all’occasionale intervento di altri professionisti (fotografi, truccatori, musicisti). I ragazzi si sono così impegnati per quasi un centinaio di ore di lavoro (9 ore di girato) in decine di diverse locations in interni ed esterni, da settembre sino ad aprile e anche oltre, se si contano le ore di registrazione delle musiche e di alcuni doppiaggi, rendendosi disponibili persino durante le vacanze di Natale e Pasqua, appassionandosi e divertendosi in un’attività per loro del tutto nuova e giudicando alla fine l’esperienza molto positivamente, non solo dal punto di vista scolastico (recitare in francese non è stato per niente facile), ma anche da quello professionale: alcuni di loro, terminato l’anno scolastico, hanno voluto fare il bis offrendo la loro collaborazione alle riprese di un cortometraggio organizzate da una società privata di produzioni video, mentre altri hanno optato per percorsi universitari in qualche modo legati al cinema ed allo spettacolo.
Questi lavori targati “FEDIC” stanno ora partecipando a vari festival nazionali e internazionali, con risultati interessanti: i corti “Sulle tue orme” e “Esperimento Cassandra” sono stati selezionati a due festival nazionali ed hanno ambedue ricevuto una menzione speciale al “Festival Indipendente di Cinema Breve” di Gravina di Catania, mentre “Le collier” ha vinto il primo premio nella sezione “Best amateur Film” al “Cult Critic Movie Awards” di Calcutta, in India. Così, grazie anche ad un contributo della Regione Sarda e probabilmente a dei finanziamenti PON, anche quest’anno l’Istituto “De Sanctis-Deledda” e il Cineclub FEDIC porteranno avanti assieme nuovi progetti per far partecipare gli studenti alla realizzazione di altri video, sempre nell’ambito delle attività di Alternanza Scuola Lavoro.
Tirando le somme, la strada intrapresa qualche anno fa si sta rivelando per ora positiva, e lascia intravvedere un futuro ricco di prospettive interessanti.
E allora, lunga vita al Cineclub FEDIC Cagliari!

Il Preside dell’IIS “De Sanctis-Deledda” assieme a Pio Bruno e alcuni protagonisti del film “Le collier”


SUCCESSO A FORLÌ DELLA PRIMA EDIZIONE DI ITALIA FILM FEDIC
di Paolo Micalizzi

Si è svolta a Forlì la prima edizione di Italia Film Fedic. E’ la continuazione del Festival nazionale della Fedic(Federazione Italiana dei Cineclub), di cui fa parte anche il Cineclub Fedic Ferrara, che era nato nel 1950 a Montecatini Terme e dal  1983 aveva luogo a San Giovanni Valdarno. Questa prima edizione a Forlì è nata all’insegna del successo sia come partecipazione di soci Fedic che dal punto di vista della qualità organizzativa, presupposti che fanno pensare  come dal 2018 per questo Festival Fedic si apra una buona prospettiva di continuità e di maggiore partecipazione per quanti sono interessati allo sviluppo del cortometraggio, divenendone così un punto importante di riferimento nazionale.

Ad aggiudicarsi l’Airone d’oro della prima edizione di Italia Film Fedic è stato il film d’animazione “Sasòl, memorie e progetti da un mondo nuovo”, cortometraggio di Claudio Tedaldi realizzato nell’ambito di un’attività didattica nella scuola. E’ un viaggio nel tempo e nello spazio, che parte dalla memoria degli orrori del nazifascismo per  creare un mondo di valori positivi, di condivisione, solidarietà e bellezza. La giuria gli  ha attribuito il massimo riconoscimento perché “L’estetica dei bambini presentata con tecniche diverse viene qui esaltata con una forza visiva di grande presa, al servizio di memoria collettiva purtroppo spesso negata”. Airone d’argento, ex aequo, a due corti: “The Ancient Child”  e “Mon amour”. Il primo, diretto da  Fabrizio Polpettini  ruota attorno ad un mito taoista. Per la giuria “Il film affronta con immaginazione e sensibilità il tema della nascita straordinaria di Lao Zi, figura basilare del pensiero cinese “ e “ sa ricostruire con delicatezza l’attesa dei genitori, la nascita e il sorprendente distacco dalla famiglia di questo bimbo nato già con la saggezza della vecchiaia”. L’altro di Marco Rosati, incentrato sulla fidanzata di un uomo ricco che in seguito ad esaurimento nervoso arriva ad un’improvvisa e drammatica decisione, è stato premiato “per la sua capacità, con questa esilarante commedia, di rendere grottesche le dinamiche di un rapporto di coppia reso irresistibile dalla bravura dei due attori protagonisti, guidati con sagacia dal regista che riesce a tenere alta la suspance. Fino ad un finale capace di far scoppiare una fragorosa risata da parte degli spettatori”. In quest’ambito è stato anche attribuito un premio alla Carriera a Nedo Zanotti, maestro del cinema d’animazione e figura di spicco nella Fedic.
Nei giorni di svolgimento di Italia Film Fedic, ampio spazio ha avuto il cortometraggio realizzato in Emilia Romagna, ed in quest’ambito importante è stato l’incontro fra i Festival che si svolgono nella nostra Regione. E’ stata l’occasione per parlare della situazione di un movimento in continua crescita e per questo sempre alla ricerca di nuovi strumenti per far sì che questo processo abbia maggiori sviluppi, arrivando all’auspicata creazione di una rete di festival della Regione. Un circolo virtuoso che permetta a queste industrie culturali, indipendentemente dalla loro dimensione in termini economici che di pubblico e prestigio, di potersi confrontare con analoghe realtà del panorama nazionale e internazionale. Una dozzina i Festival rappresentati all’Incontro che pone le premesse per un buon raggiungimento dell’auspicato obiettivo.

FESTIVAL ED EVENTI

VENEZIA 75. OPINIONE CONDIVISA: LA MIGLIORE MOSTRA DEGLI ULTIMI ANNI
di Paolo Micalizzi

E’ opinione condivisa da molti, compreso chi scrive, che la 75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, diretta da Alberto Barbera, può essere considerata la migliore degli ultimi anni. Ed è anche opinione condivisa che il  film di Alfonso Cuaròn meritava il  “Leone d’Oro” . S’intitola “Roma” ma non ha niente a che fare con la capitale d’Italia. Si tratta, infatti, di un quartiere di Città del Messico, dove il regista ha trascorso la sua infanzia. Che è  il punto nodale del suo film, incentrato sulle donne che lo hanno cresciuto, e soprattutto la sua Tata, a cui il film è dedicato. Un ritratto intimo, in un affresco epico in cui  emerge  il ricordo, narrato in un bianco e nero molto funzionale, di avvenimenti  di attualità che avevano coinvolta la sua famiglia.

Dal film “Roma”

Il film  aveva  immediatamente attirato l’attenzione di critica e pubblico. E sin da subito è apparso che il massimo riconoscimento della Mostra non poteva che essere suo. Anche se altri film potevano contrastargli il passo, e che la Giuria, presieduta da Guillermo Del Toro( che ha dichiarato che non c’è stato alcun conflitto d’interesse, testimoniato anche da altri giurati, sul fatto  che conosceva bene Cuaròn e gli è molto amico), ha trovato per loro la giusta collocazione nel Palmarès. “Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria”, quindi a “The Favourite”  di Yorgos  Lanthimos ambientato all’inizio del XVIII secolo con l’Inghilterra in guerra con la Francia ed incentrato sul rapporto tra la  Regina Anna e  le sue favorite Lady Sarah che governa il paese al suo posto e la nuova arrivata Abgail che ne prenderà il suo posto poiché non permetterà a nessuno di mettersi sulla loro strada. Un’opera in costume dalla ricostruzione sfarzosa molto attenta agli intrighi di Corte.

Olivia Colman (la regina) in “The Favourite”


 “Leone d’Argento – Premio per la migliore regia” a “The sisters brothers” di Jacques Audiard, un western, cosi come lo è il film  di Joel e Ethan Coen ”The ballad of Buster Scruggs”, una significativa testimonianza del fatto che  il Direttore Artistico della Mostra Alberto Barbera non ha avuto torto nell’inserire in Concorso il film di genere. Il film di Audiard è un western, intriso di violenza ,in cui due fratelli, Joaquin Phoenix e John C.Reilly che non hanno scrupoli a uccidere, danno la caccia al cercatore d’oro Jake Gylenhaal, mentre quello dei fratelli Coen si compone, antologicamente, di   una serie di storie sulla frontiera americana. Meritate le Coppe Volpi a Olivia Colman, la regina Anna  del film “The Favourite” ed a Willem Dafoe, il tormentato Vincent Van Gogh del film “At  eternity’s Gate” di Julian Schnabel.

Il Van Gogh di Willem Dafoe

Se si può essere d’accordo  per il Premio Marcello Mastroianni ,destinato a un  giovane attore o attrice emergente, al bravissimo interprete, l’aborigeno Baykali Ganambarr, di “The nightingale” di Jennifer Kent, alquanto strano è sembrato il premio speciale della giuria attribuito al film. La rivelazione di nuovi talenti è venuta poi dagli altri film premiati nelle altre sezioni della Mostra. Da Venezia – Opera Prima “Luigi De Laurentiis” è emerso  Soudade Kaadan, regista del film “The day I lost my Shadow” e il premio di 100.000 USD( da dividere in parti uguali con il produttore) messo a disposizione dalla Filmauro di Aurelio e Luigi De Laurentiis potrà contribuire alla realizzazione di un secondo film che possa confermare il suo talento. Nella sezione “Orizzonti”, premiato per il miglior film Phuttiphorg Aroonpheng che in”Manta Ray” denuncia la tragica situazione di rifugiati Rohingya in un villaggio di pescatori thailandesi, mentre per la miglior regia il riconoscimento è andato Emir Baigazan, autore del film ”Ozen”(The river)incentrato sulla storia di cinque fratelli  di un remoto villaggio Kazako, cresciuti al riparo della civiltà, che scoprono il mondo degli altri. Premi anche nella sezione “Venice Virtual Reality”, avviata dall’anno scorso. Una novità che vuole evidenziare il futuro del cinema.
Ad inaugurare la Mostra è stato “First Man”, cioè “Il primo uomo” il film dell’ attesa inaugurazione. E’ diretto da Damien Chazelle e interpretato da Ryan Gosling, la stessa coppia del film “La la Land” che ha inaugurato nel 2016 la Kermesse veneziana e che poi fu premiato con 6 Oscar.

Dal film “First Man”

Si tratta dell’avvincente storia della missione  della NASA per far sbarcare un uomo sulla luna. Chazelle si concentra soprattutto  sulla figura di Neil Armstrong negli anni dal 1961 al 1969 ed è un resoconto narrato in prima persona. Dove vengono esplorati i sacrifici e il costo – per Armstrong e per gli Stati Uniti – di una delle missioni più pericolose della storia. Un’avventura cinematografica, quella vissuta al Lido di Venezia, che è iniziata però già dalla sera prima, il 28 agosto, quando sullo schermo della Sala Darsena si è visto un classico del  cinema muto qual è “Il Golem “, che reca il sottotitolo “Come venne al mondo”, oppure di “Bug, l’uomo d’argilla” come  è scritto nelle storie del cinema, scritto e diretto da Paul Wegener, che sarà proiettato in una nuova copia digitale tratta dal negativo originale ritenuto perduto restaurata dal Laboratorio “Immagine Ritrovata” di Bologna. La proiezione del film era sonorizzata con la musica originale del maestro Admir Shkurtaj eseguita dal vivo dal Mesimèr Ensemble. “Il Golem”, che è interpretato dallo stesso Paul Wegener,  è il Mitico personaggio fatto di argilla che viene risvegliato da un rabbino di Praga per proteggere il suo popolo, prima che sia espulso dalla città. Dopo una serie di eventi, il Golem salva la vita dell’imperatore convincendolo a non cacciare più gli ebrei. Ma per colpa degli intrighi di un servo geloso il Golem va fuori controllo e si rivolta contro il suo creatore.  Il film di Wegener è un  horror fantastico , uno dei risultati più tipici dell’espressionismo cinematografico. Non sarà, comunque, il solo “classico” restaurato  presentato alla Mostra di Venezia 2018. Come per gli ultimi cinque anni c’è stata, infatti, la sezione “Venezia Classici” che  ha presentato  numerosi  capolavori  riportati a nuova vita, come “La notte di San Lorenzo” (1982) di Paolo e Vittorio Taviani  e “Il posto” di Ermanno Olmi per rendere omaggio ai due grandi registi scomparsi quest’anno. Ma vi sono stati  altri capolavori, tra cui “L’anno scorso a Marienbad” (1961) di Alain Resnais, “A qualcuno piace caldo”(1959) di Billy Wilder “La strada della vergogna”(1956) di Kenji  Mizoguchi, “Il portiere di notte”(1974) di Liliana Cavani , ma anche opere meno note come “Il luogo senza limiti”(1977) di Arturo Ripstein e ”Desideri nel sole”(1962 di Jacques Roziers. Sono riemerse nei cinefili tante emozioni  e hanno dato a chi non  li conosceva  il grande piacere di nuove scoperte.
Ad aggiudicarsi il massimo riconoscimento come film, assegnato da una Giuria presieduta dal regista Salvatore Mereu, è stato il bellissimo “La notte di San Lorenzo” realizzato nel 1982 da Paolo e Vittorio Taviani, un’opera corale con momenti di alta poesia. Come miglior documentario è stato, invece, premiato “The Great Buster:A celebration” in cui Peter Bogdanovich va rivivere la magia dell’indimenticabile comico americano. Su questa sezione si sofferma diffusamente in questo stesso numero Vittorio Boarini, un grande esperto essendo stato Direttore della Cineteca di Bologna.
Un rapido giro nel mondo del cinema lo hanno proposto anche quest’anno ,alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, le sezioni autonome e parallele la “Settimana Internazionale della Critica” , al Lido da 33 anni, e “Le Giornate degli Autori”, giunta alla XV edizione.
Nella SIC, il cui Delegato generale è Giona A. Nazzaro, è stato un vero trionfo per il film siriano “Still recording”, di Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub, che si è visto attribuire sia il premio “Mario Serandrei” per il miglior contributo tecnico sia il premio del pubblico.

Immagine del film siriano “Still recording”

Ed ha anche ricevuto il  Premio “Fipresci” della critica internazionale. Il film racconta, tra realtà e finzione, la guerra in Siria attraverso le vicende di due  giovani cinefili che  durante il conflitto mettono in piedi una stazione radio ed uno studio di registrazione e filmano tutto ciò che li circonda fino a che non saranno coinvolti nelle riprese. Un  viaggio nella rivoluzione, nel fallimento, nelle sconfitte, nella speranza.  
Alle “Giornate degli Autori”, di cui è Direttore Artistico Giorgio Gosetti, la Giuria, presieduta dal regista del film “A Ciambra” Jonas Carpignano e composta da 28 giovani spettatori , ciascuno proveniente da un paese dell’Unione Europea, ha assegnato il Director’s Award al film “C’est ça l’amour” della francese Claire Burger perché” è un racconto estremamente coinvolgente sulle situazioni difficili in cui ci pone la vita, sia che ci confrontiamo con la fine di un matrimonio, sia che ci venga spezzato il cuore per la prima volta”.

“C’est ça l’amour”

 Il film ruota attorno alla storia di Mario che dopo l’abbandono della moglie si trova a gestire due figlie ed una specie di personale crisi adolescenziale. Il premio BNL del pubblico , che ha votato al termine di ogni proiezione, è stato, invece, attribuito al film di Valerio Mieli “Ricordi?”, che ha anche ricevuto , una Menzione  speciale Fedic, uno dei Premi collaterali della Mostra. Quest’ultimo riconoscimento gli è stato assegnato con la seguente motivazione: “Quando il cinema diventa poesia. Ricerca dell’amore fra felicità e sofferenze, ricordi, emozioni, colori che simboleggiano gioia ma anche mal di vivere, nostalgia di momenti vissuti e speranze, in un incontro fra giovani che si innamorano, si lasciano e…”.
A proposito del Premio FEDIC vi è da riferire che, oltre la menzione al film di Valerio Mieli, il massimo riconoscimento, attribuito da una Giuria presieduta da Ferruccio Gard, è stato dato per “un’opera che meglio riflette l’autonomia creativa e la libertà espressiva dell’autore” al film “Sulla mia pelle” di Alessio Cremonini, presentato nella sezione “Venezia-Orizzonti”, con la seguente motivazione: “per la toccante e oggettiva ricostruzione, senza strumentalizzazioni o concessioni a facili effetti, degli ultimi spaventosi sette giorni di vita di Stefano Cucchi. Un film che si può definire di servizio verso il pubblico”.

“Sulla mia pelle”

È stata anche assegnata, ed è il quinto anno, una Menzione Fedic-Il Giornale di Cibo, “all’opera che propone la scena più significativa legata al cibo e all’alimentazione” al film “I Villani” di Daniele De Michele, presentato a “Le giornate degli Autori”. I premi sono stati consegnati in una cerimonia svoltasi nello Spazio “Ente dello Spettacolo” (Hotel Excelsior)

Foto di gruppo al Premio FEDIC 2018

Non solo il Premio FEDIC ha caratterizzato, ed è il 25° anno, la presenza della FEDIC alla Mostra di Venezia. Si è svolto, infatti, anche il 23° Forum FEDIC su “Il futuro del Corto d’Autore” che quest’anno era incentrato sul tema “Il cinema e i giovani” per riferire, in particolare, sulle attività di formazione attuate di recente su tutto il territorio nazionale. Un’attività, come ha riferito il Presidente FEDIC Lorenzo Caravello, volta alla formazione delle nuove generazioni attraverso precisi percorsi formativi attuati dai Cineclub aderenti  alla Federazione Italiana del Cineclub. Su questo argomento si sono soffermati in particolare Laura Biggi che ha riferito sull’attività di Fedic-Scuola, di cui è responsabile nazionale, e Marcello Zeppi, Presidente del MISFF (Montecatini International Short Film Festival), che ha esposto  alcune esperienze compiute nell’iniziativa Alternanza Scuola-Lavoro nell’ambito del Cinema School MISFF Educational. Hanno arricchito queste esperienze rivolte ai giovani la proiezione di tre Book trailer realizzate da studenti del Liceo scientifico di Stato “A. Calini” di Brescia, che sono state illustrate dalla socia del Cineclub Brescia Laura Forcella Iascone, ideatrice del Book Trailer Festival di Brescia, e dal Preside della scuola Massimo Morelli, con la presenza di alcuni studenti e insegnanti. Spazio poi a cortometraggi di alcuni autori FEDIC inseriti nel secondo volume “Autori Fedic alla ribalta”, a cura di Paolo Micalizzi, che è stato presentato al Forum. Alla ribalta gli autori Andrea a Matteo Cossi, Lauro Crociani, Roberto Fontanelli, Franca Elisabetta Iannucci, Antonella Santarelli, Turi Occhipinti, Gaetano Scollo, Gabriella Vecchi, Nicolò Zaccarini.

Due momenti del Forum FEDIC: nella seconda foto, intervento del filmmaker Lauro Crociani

Quello dei Premi collaterali è da anni  un elemento importante della Mostra del Cinema perché consente di attribuire riconoscimenti anche a film  la cui presenza alla kermesse veneziana merita di essere ricordata. E sono, per la maggior parte, assegnati  da critici e cinefili, un “popolo” qualificato del mondo del cinema.
Anche se nel Palmares delle varie sezioni competitive della 75 Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia il Cinema italiano non si è aggiudicato alcun Premio( li ha ricevuti invece nei Premi Collaterali dei vari organismi di critici e cinefili), la sua presenza ha dimostrato come da un punto di vista artistico offra un buon livello qualitativo. Nei film in competizione a “Venezia 75” non erano di certo prive d’interesse le opere di Mario Martone, Luca Guadagnino e Roberto Minervini. Il regista napoletano ha concluso la sua trilogia sui “ribelli” del Novecento evidenziando in “Capri-Revolution” le idee “rivoluzionarie” di una singolare comunità di artisti e pensatori nord-europei che popolava l’isola campana nel 1914 alla vigilia dei grandi sommovimenti mondiali, mentre Luca Guadagnino realizza un libero rifacimento del ”Suspiria” di Dario Argento, non privo di novità narrative e di emozioni. Il razzismo in America è, invece, al centro del film “What You Gonna Do When the World’sa on Fire” (“Che fare quando il mondo è in fiamme”) di Roberto Minervini .

Dal film “What You Gonna Do When the World’sa on Fire” (“Che fare quando il mondo è in fiamme”)

 Un film che, oltre ad indurci ad una seria riflessione su una  drammatica realtà, ci porta a conoscere una comunità afro-americana che, nell’estate del 2017 ha subito tanta violenza da parte della polizia scuotendo tutti gli Stati Uniti, ed oggi combatte per la giustizia, la dignità e la sopravvivenza in quel Paese. Un film, narrato con un magistrale bianco e nero,  che avrebbe  dovuto, a parere di tanti, ricevere di sicuro un riconoscimento. In “Orizzonti”  avrebbe dovuto avere senz’altro un riconoscimento il film di Alessio Cremonini “Sulla  mia pelle”. Un’opera, dal racconto crudo, senza alcun compiacimento, con un’interpretazione realistica di grande intensità di Alessandro Borghi. Non privi d’interesse erano poi i film inseriti nella nuova sezione, “Sconfini”. In “Arrivederci Saigon”  Wilma Labate  racconta l’incredibile storia di una giovanissima band toscana di donne spedita inaspettatamente in Vietnam a suonare nella base militare americana. Partono  sognando il successo  ma si ritrovano invece in una vera guerra. “Il ragazzo più felice del mondo” è il nuovo film del fumettista italiano Gipi, mentre in “Camorra”  Francesco Patierno, attraverso filmati delle Teche Rai, racconta lo sviluppo del fenomeno camorristico dagli anni Sessanta ai Novanta. Interessante poi l’adattamento per il grande schermo del racconto di  Fernando Pessoa  in “Il banchiere anarchico” di Giulio Base.

“Una storia senza nome”

Opere interessanti anche in “Fuori Concorso” con “Una storia senza nome” in cui  Roberto Andò  racconta il misterioso furto della Natività, celebre quadro di Caravaggio, avvenuto a Palermo nel 1969 e Valeria Bruni Tedeschi in “I villeggianti”  traccia un ritratto della sua famiglia immersa nella quiete della bella proprietà in Costa Azzurra. Ma anche la trasposizione  cinematografica che Saverio Costanzo fa nei due episodi di “L’amica geniale” del romanzo della misteriosa Elena Ferrante, il documentario sull’inizio delle legge razziali nel regime fascista in “1938, Diversi” di Giorgio Treves, il documentario sull’ISIS  “ISIS, Tomorrow.The lost souls of Mosul” di Francesca Mannocchi e Alessio Romenzi. Oltre ai cinque film italiani programmati nelle ”Giornate  degli Autori”(innanzitutto “Ricordi?” di Valerio Mieli, “Il bene mio” di Pippo Mezzapesa e “I villani” di Daniele De Michele, che hanno riscosso particolare interesse) e “Saremo giovani e bellissimi” , opera prima di Letizia Lamartire nella ”Settimana della Critica”  e “Zen sul ghiaccio sottile” di Margherita Ferri, proveniente dalla Biennale College, incentrato su due ragazze alla ricerca della propria identità. Una selezione, quella del Direttore della Mostra Alberto Barbera,  che testimonia come il Cinema Italiano  gode di una certa  vitalità.
Emozioni cinefile alla Mostra anche dalla presenza di due icone importanti della storia del cinema alle quali è stato attribuito il Leone d’Oro alla carriera: il regista David Cronenberg e l’attrice Vanessa Redgrave. Due protagonisti che rimarranno indelebili nella memoria cinematografica di milioni e milioni di spettatori.

I CLASSICI E IL FUTURO DEL CINEMA
di Vittorio Boarini

Venezia Classici, la ormai consolidata rassegna della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, si è presentata, come la 75. edizione del nostro Festival di bandiera nel suo complesso, particolarmente ricca e suggestiva. Ricca per il numero di opere presentate, diciotto di otto diverse cinematografie nazionali, ma anche per la qualità delle opere stesse e la rilevanza non puramente tecnica del loro restauro. Suggestiva per il rapporto che è venuto spontaneo istituire con un’altra sezione della Mostra, Venezia Virtual Reality, sezione che si è rafforzata grazie all’apporto di College Cinema, nel senso che la memoria del passato è sembrata la condizione per meglio comprendere il futuro, ammesso che il virtuale sia il futuro del cinema e non il suo superamento in una realtà totalmente nuova (si può ancora parlare di cinema, infatti, senza grande schermo e sala buia?). E ancora, proprio pensando al futuro e alla inevitabile revisione della tradizionale storia del cinema, che cosa dobbiamo intendere esattamente per “classici”? Finora abbiamo usato questo termine, mutuato soprattutto dalla letteratura, in forma del tutto generica, senza preoccuparci di darne una definizione specifica in rapporto al cinema, un’arte che si differenzia dalle altre anche perché nata e cresciuta nella civiltà industriale o, come dice Benjamin, nell’epoca della riproducibilità tecnica.

Dal film “Der Golem”


Non ho, ovviamente, una soluzione a questo problema, credo però opportuno porlo sottolineando che i film di Venezia Classici, giunta felicemente alla sua settima edizione, coprono un arco temporale che va dal 1920, anno di un classico per eccellenza come “Der Golem”, al 1988, quando l’americano John Carpenter gira “They live” (“Essi vivono”), un’opera certamente rilevante anche per lo spettatore odierno, ma che non definirei un classico se non cautelandomi con qualche determinazione, tipo “nel suo genere” o altra analoga. Non credo, infatti, possano definirsi classici , nel senso forte del termine, tutti i film, che pur abbiamo visto con estremo interesse, compresi fra queste due date, anche se si tratta di pellicole qualitativamente indiscutibili e storicamente significative, giustamente riportate a nuova vita, fra le quali vi sono sicuramente alcuni classici, ma non tutti immediatamente identificabili sulla scorta delle categorie che ancora ci attardiamo a utilizzare.
Prima di procedere preciso, doverosamente per non creare equivoci, che non sono meritevoli di essere restaurati solo i film di qualità storicamente rilevanti; credo infatti che tutte le pellicole a rischio di andare perdute dovrebbero essere recuperate con opportuni restauri, ma questo è un altro problema, che pur andrebbe tempestivamente trattato e che riguarda particolarmente le cineteche e gli archivi filmici, soprattutto quelli di natura pubblica.
Veniamo ora alle opere della rassegna a cominciare da quella che l’ha inaugurata con una preapertura della Mostra, come ormai è consuetudine, vale a dire da un capolavoro dell’espressionismo tedesco, nella sua fase caligarista, quale “Der Golem, wie er in die Welk kam” (t. l. “Il Golem come venne al mondo”) di Paul Wegener, realizzato nell’anno stesso dell’uscita de “Il gabinetto del dottor Caligari”, dalla quale gli storici sono soliti far iniziare l’avanguardia cinematografica. L’autore, un grande del cinema muto, che il film lo ha anche scritto e interpretato, aveva già raccontato questa leggenda ebraica altre due volte, nel 1915 e nel 1917, ma entrambi i film, che non ebbero successo, sono considerati perduti. Quello che abbiamo visto, in una copia ottimamente restaurata nonostante le difficoltà che presentava, si impose anche sul piano internazionale ed è considerato il precursore di un tema attualissimo, il robot che sfugge al controllo del suo creatore. La proiezione, in anteprima mondiale, è stata un vero e proprio evento, con accompagnamento musicale dal vivo ad opera del Mesimér Ensamble, che ha egregiamente eseguita la bella partitura espressamente commissionata ad Admir Shkurtaj. Abbiamo così potuto assistere alle vicende del rabbino che riporta in vita la creatura d’argilla, il Golem appunto, perché salvi gli ebrei da una paventata espulsione, in modo molto simile a quello degli spettatori d’epoca ed abbiamo particolarmente apprezzato la Praga del cinquecento fantasticamente ricostruita in funzione del racconto dallo scenografo Hans Poelzig e splendidamente fotografata da Karl Freund, un pilastro dell’espressionismo che, come molti colleghi, emigrerà a Hollywood.
Abbiamo accennato all’avanguardia espressionista e all’emigrazione dei cineasti europei negli Stati Uniti perché nel cinema americano troviamo molte reminiscenze di quello straordinario periodo che abbiamo indicato come caligarismo, antesignano dell’horror, in particolare nel genere noir. Un esempio estremamente significativo è costituito da “The Killers” (“I gangsters”, 1946) di Robert Siodmak, l’autore del memorabile “Uomini di domenica” (1929), anche lui fuggito dalla Germania nazista per approdare, dopo una lunga permanenza a Parigi, ad Hollywood. Tratto in parte da un racconto di Hemingway, il film segnò il felice esordio di Burt Lancaster, un gangster perdutamente innamorato di una irresistibile dark lady, interpretata da una fascinosa Ava Gardner, e narra, con un lungo flash back, il destino inesorabile del protagonista che, per uno sgarro, ovviamente commesso a causa della dark lady, viene ucciso da due sicari. Il restauro dell’opera, curato dalla Universal Picture, si è avvalso della fondamentale consulenza  di Martin Scorsese e Steven Spielberg, esattamente come è avvenuto per il suo remake, effettuato da Don Siegel nel 1964 con lo stesso titolo (in Italia “Contratto per uccidere”).

Burt Lancaster nel film “I gangsters”

Alla proiezione di quest’ultimo, Scorsese ha voluto far precedere un suo video di presentazione, dove ha esposto argomentatamente una condivisibile valutazione storico-critica del film. La trama è praticamente la stessa di “The Killers”, ma al centro del remake vi è la personalità di uno dei sicari, un ineccepibile Lee Marvin, che vuole capire perché la vittima non ha cercato di fuggire. In questa ricerca si imbatterà in Ronald Reagan, nella sua ultima apparizione cinematografica, perfettamente a suo agio ad interpretare, anche se era la prima volta, la figura di uno spregevole malvagio. E’ interessante notare che il film, pur originariamente destinato alla televisione, fu dirottato nelle sale per evitare un fruizione troppo allargata (l’anno prima c’era stato l’assassinio di Kennedy per mano di un Killer).
Restando al cinema americano, presente nella rassegna con sei film, debbo sottolineare l’emozione che ho provato nel rivedere “La città nuda” (“The Naked City”,1948), un capolavoro noir di Jules Dassin, che mi aveva entusiasmato quando ero adolescente. Il film, girato prevalentemente nelle vie di New York, si colloca magistralmente nella scia di quel nuovo verismo nato nell’America del New Deal, cresciuto in Italia nella felice stagione del neorealismo e tornato negli States, dove la Scuola documentaristica di New York ne fece tesoro. Ne emerge una straordinaria quotidianità urbana, nei recessi della quale si dà la caccia all’assassino di una giovane modella, dando vita a una storia metropolitana carica di suspense. Fortunatamente l’abilità dei restauratori è riuscita a superare l’handicap dovuto alla scomparsa del negativo originale. Ancora un sentimento, del tutto personale, mi ha intensamente toccato alla proiezione di “A qualcuno piace caldo” (“Same Like it Hot”, 1959), che vidi a Londra pochi giorni prima della sua presentazione a Venezia. Non credo di dover aggiungere nulla a quanto la genialità di Billy Wilder e la interpretazione di Marilyn Monroe, Tony Curtis e Jack Lemmon ci hanno detto, ma colgo l’occasione per un commento a margine.

Tony Curtis, Marilyn Monroe e Jack Lemmon in “A qualcuno piace caldo”

La possibilità di rivisitare il passato, oltre alle imprescindibili valutazioni storico-critiche, è anche un momento intensamente emotivo che non va confuso con un banale narcisismo autobiografico. Concludo le valutazioni sui film americani con “Nulla di serio” (“Nothing Sacred”, 1937), una commedia deliziosamente cinica, interpretata dalla prestigiosa coppia Carol Lombard e Fredric March, diretta da William Wellman, un cineasta famosissimo per la vita avventurosa, i tanti film realizzati e i successi ottenuti (ha avuto anche un Oscar). Va notato che il restauro ci ha restituito i bellissimi colori del tecnicolor originale, uno dei primi ad essere realizzati, ammorbiditi mimeticamente attraverso un processo di desaturazione.

Fredric March e Carole Lombard in “Nothing Sacred”

Veniamo ora agli italiani, presenti con quattro film memorabili restituitici grazie all’impegno generoso di due Cineteche, alla loro collaborazione con le istituzioni nazionali di cultura cinematografica e gli aventi diritto. Cominciamo da “La notte di San Lorenzo” (1982), proiettato alla presenza di Paolo Taviani e implicito omaggio al fratello Vittorio recentemente scomparso, che ha vinto il Leone d’oro per il miglior restauro, curato dalla Cineteca Nazionale, Cinecittà e Istituto Luce. Lo stile tipico dei fratelli registi rinnova la nostra ammirazione e la narrazione mantiene intatta tutta la sua forza e attualità. L’episodio della Resistenza va al di là della lotta di popolo contro il nazifascismo per accennare in modo opportuno, anche grazie alla forma ineccepibile in cui si svolge il racconto, alla componente di guerra civile compresa nella nostra epopea nazionale.

Tre immagini, in fotomontaggio, del film “La notte di San Lorenzo”

 Il commento musicale di Nicola Piovani è, probabilmente, il più appassionato di quelli da lui elaborati per i Taviani. Anche per “Il portiere di notte”, realizzato da Liliana Cavani, che ha assistito alla sua proiezione, nel 1974, dobbiamo ringraziare la Cineteca Nazionale e gli altri due Enti per averci consentito di rimeditare uno dei testi più inquietanti della nostra prestigiosa regista, che lo ha condotto con esemplare sicurezza anche quando risultava difficile conciliare il melodramma con la dura realtà della storia.  Dirk Bogard e Charlotte Rampling, magistralmente diretti, rievocano la tragedia del nazismo attraverso un rapporto sadomasochistico fra vittima e carnefice che ci ammonisce a non rimuovere quella tragedia.

Charlotte Rampling ne “Il portiere di notte”

Letteralmente affascinati siamo rimasti davanti allo schermo mentre scorrevano le immagini, accompagnate dalla musica di Mahler, di “Morte a Venezia”, opera fra le più ammirate di Luchino Visconti, tratta nel 1971 dal racconto di Thomas Mann. Ancora Dirk Bogard, un musicista tedesco, in vacanza all’Hotel des Bains del Lido, invaghitosi di un giovanissimo efebo in modo così ossessivo da morirne. Con il musicista, cagionevole di salute e tormentato da un irrequieto desiderio di perfezione estetica, muore un mondo, finisce un’epoca. Infatti Visconti, curvando il testo di Mann in termini proustiani, rappresenta l’estinguersi dolente del contesto sociale in cui ha passato l’adolescenza e la prima giovinezza, un’epoca che rappresenta la grande cultura borghese estenuata dal colera strisciante nelle calli di Venezia, un morbo arcaico sempre attuale come metafora della decadenza. Va anche ricordata l’ottima prestazione di Silvana Mangano e il formidabile restauro eseguito dalla Cineteca di Bologna nel suo laboratorio con la collaborazione della  Warner Bross.
Infine, un’opera maestra di Ermanno Olmi, “Il posto” (1961), il suo secondo lungometraggio, che gli diede una notorietà internazionale. Il neorealismo era finito da tempo, ma il regista ne ha colto i punti alti per raccontare, con contrappunti grotteschi fino al surreale, una storia esemplare nell’Italia del boom e dell’urbanizzazione. Il protagonista va da Meda a Milano per cercare un posto, non un lavoro specifico, ma un posto, nel quale trascorrerà un’esistenza da modesto impiegato. La vicenda, arricchita dalla promessa di un rapporto amoroso che non avrà futuro, è decisamente struggente, ma l’impiego, a differenza di quanto accade oggi, il giovane protagonista lo trova senza troppe difficoltà. Aggiungo un ulteriore apprezzamento per il lavoro della Cineteca bolognese e del suo laboratorio, nonché un’altra considerazione sull’elemento emozionale al quale ho accennato: mi ha molto colpito vedere l’indimenticabile amico Tullio Kezich, socio di Olmi nella produzione del film, sostenervi con disinvoltura una piccola parte.

Sandro Panseri e Loredana Detto in “Il posto”

  La Francia era rappresentata ottimamente da due opere della Nouvelle Vague (considerando, com’ è corretto, questa tendenza non limitata ai cinque registi fondatori) ed esattamente “Adieu Philippine” (1962), film di Jacques Rozier che in Italia si chiamava “Desideri nel sole”, e da “L’anneé dernière a Marienbad”, realizzato nel 1961 da Alain Resnais, che ha circolato nel nostro paese, il protagonista è Giorgio Albertazzi, con la traduzione letterale del titolo.
Del primo mi limito a rallegrarmi per il suo ritorno in sala con una bella copia; infatti questa “storia di ragazzi e ragazze” al tempo della guerra d’Algeria merita di essere ripresa attentamente in considerazione.

Dal film “L’anno scorso a Marienbad”

Mentre il secondo,che vinse il Leone d’oro, lo ritengo uno dei prodotti più significativi della neoavanguardia francese, assieme a, dello stesso autore, “Hiroshima mon amour” (1959). Ambedue i film possiedono una radicalità nella destrutturazione del linguaggio cinematografico tale da poterli considerare i più critici del “cinèma de papa” rispetto agli altri film della stessa tendenza, fatta eccezione naturalmente, per quelli di J.-L. Godard, ma Godard è un caso a sé. Come il film girato a Hiroshima, anche questo si svolge sul tema della memoria, non quella storica del nazismo e dell’atomica, ma la memoria individuale, così incerta da ridurre la realtà a mera apparenza, a labile registrazione dell’occhio. Non a caso lo sceneggiatore è A. Robbe-Grillet, capofila della Scuola dello sguardo.
Anche la cinematografia del Sol levante era presente con due film: un classico, nel senso pieno del termine, di Kenji Mizoguchi, “La strada della vergogna” (Akasen chitai, 1956) e un’opera, che definirei sperimentale, “Koi ya koi nasuna koi” (1962), di Tomu Uchida. Mizoguchi, del quale Venezia Classici ha già mostrato negli scorsi anni alcune opere straordinarie, è stato più volte premiato dalla Mostra e rappresenta uno dei vertici del cinema giapponese. In questa vicenda di prostitute ospiti di un postribolo in un quartiere a luci rosse di Tokyo, il tema a lui caro della irrimediabile misoginia della società nipponica è svolto con un’intensità espressiva da lasciarci, ancora una volta, commossi e ammirati.

Un’immagine del film “La strada della vergogna”

 “La volpe folle”, così il catalogo traduce pertinentemente il titolo del film di Uchida, non si era mai visto in Italia, dove del suo autore si conosce soltanto, grazie a Fuori orario, “La spada della morte”, un’opera uscita postuma nel 1971. “La volpe folle” appartiene a quel periodo innovativo, che va sotto il nome di Nuovo cinema giapponese, sviluppatosi negli anni sessanta. Qui il regista, infatti, tenta di superare il tradizionale linguaggio filmico mettendo in scena una leggenda giapponese risalente a prima dell’anno mille. L’apparente paradosso è funzionale alla sperimentazione, che vede intrecciarsi e variamente combinarsi generi e moduli stilistici codificati in una sorta di pastiche che incuriosisce e disorienta lo spettatore.
Completiamo l’excursus nel passato con tre film mai arrivati nel nostro paese, cominciando da un’opera russo-sovietica, è del 1976, di Larisa Shepitko, moglie di Klimov, dal titolo, tradotto letteralmente, “L’ascesa” (“Voskhozhdenije”), vincitrice dell’Orso d’oro a Berlino nel 1977. Un episodio della lotta partigiana contro i nazisti in Bielorussia dà luogo a un’appassionata riflessione sul destino degli uomini, capaci di straordinaria nobiltà d’animo e di spregevole abiezione. La grande tradizione del cinema sovietico traspare dal paesaggio innevato e dall’incombere dei drammatici eventi storici.
Passiamo a “El lugar sin limites” (1976), primo film messicano compreso nella rassegna grazie anche alla Cineteca Nazionale del Messico, che ne ha eseguito un ottimo restauro. L’autore, Arturo Ripstein, è un cineasta assai noto anche in Italia, basti pensare al suo “Profundo carmesi”, in concorso a Venezia nel 1996, che ha avuto un discreto successo di pubblico nel nostro paese. La torbida vicenda di un omosessuale, innamorato dello stesso equivoco personaggio di cui è innamorata sua figlia, consente di inquadrare un contesto “senza limiti”, cioè l’inferno, suggerisce Ripstein citando Goethe, dove dominano i più forti e i sentimenti non riescono a manifestarsi come collante sociale. Un ritratto che va oltre il Messico degli anni settanta, per comprendere la contemporaneità della condizione umana in molte parti del mondo.
Concludo con un evento straordinario, la presentazione, effettuata dall’autore e produttore, Ebrahim Golestan, del film iraniano “Kashto Ayenek” (t. l. “Mattone e specchio”), che per un soffio non potè partecipare al concorso della Mostra veneziana nel 1964. Golestan giunse al Lido con le pizze, che aveva appena finito di mettere in ordine a Parigi, troppo tardi perché la pellicola potesse entrare in competizione. Il regista novantaseienne ha spiegato che il titolo deriva dal verso di un poeta persiano ucciso dai mongoli nel tredicesimo secolo, il quale recita: “Quello che i giovani vedono nello specchio, gli anziani lo vedono nel mattone grezzo”. Un’ottima chiave di lettura per un’opera, mirabile metafora del mondo attuale, il cui vero protagonista è un neonato abbandonato che potrebbe essere il nostro futuro, ma non sappiamo se egli stesso avrà un futuro. La Cineteca di Bologna, che ne ha effettuato un accurato restauro con la supervisione dell’autore, distribuirà il film nelle sale e, finalmente, gli spettatori non saranno più solo quelle poche persone che poterono vederlo nelle limitate proiezioni a Parigi nel 1964 o nel mese che fu programmato in un cinema di Teheran nel 1965.
Come sempre i restauri erano accompagnati opportunamente da documentari contemporanei, sette questa volta, riguardanti il cinema, la sua storia, le sue tendenze e i suoi protagonisti. Dalle informazioni alle quali ho attinto erano tutti assi importanti sotto il profilo storico-filologico, ma mi è stato possibile, tante erano le opere in programma di sicuro interesse, vedere soltanto l’omaggio a Keaton, “The Great Buster: a Celebration”, di Peter Bogdanovich. Gli altri, dato che i documentari hanno una distribuzione ancor più difficile dei restauri, spero di poterli recuperare almeno in DVD. Mi consolo perché quello che ho visto ha vinto il Leone d’oro, attribuitogli da una giuria, la stessa dei restauri, composta da ventisette studenti di cinema coordinati dal regista Salvatore Mereu.

Da “The Great Buster: a Celebration”

L’opera è filologicamente accuratissima e ci racconta, anche attraverso documenti inediti, molteplici e preziose interviste, nonché moltissimo materiale di repertorio, l’universo cinematografico di Keaton e tutti gli aspetti fondamentali della sua biografia. E’ un vero peccato però, e stupisce perché Bogdanovich è un intellettuale di notevole spessore, che non sia emerso dal film, pur imperdibile, un giudizio storico-teorico sul grande comico, il quale, come Chaplin, va al di là di quel mondo della risata che ha costituito uno dei momenti più gloriosi del cinema americano. Keaton, infatti, con il suo viso di legno, come lui stesso lo definisce, con la sua faccia impassibile che suscita sentimenti umani in un contesto disumano, si rivela un acuto critico del moderno. Basta pensare al suo rapporto con gli oggetti, sul quale si basano moltissimi dei suoi film, per comprendere che il suo bersaglio è l’alienazione del mondo contemporaneo, l’estraneità all’uomo della società capitalistica. Ricordo, al proposito, che Keaton, su suggerimento del suo agente pubblicitario, disse che leggeva molto un filosofo tedesco, Karl Marx. Sicuramente non era vero, ma era una menzogna molto pertinente.

“CORTO FICTION”, DA DICIOTTO ANNI FA RIFLETTERE SU OPERE CHE GUARDANO AL MONDO ED ALLA VITA CON UNO SGUARDO POSITIVO
di Paolo Micalizzi

E’ “La partita ai confini del mondo” di David Valolao il vincitore della 18^ edizione di “CortoFiction” che Lauro Crociani, direttore artistico ed anima della manifestazione FEDIC, porta avanti senza tanto clamore, con un gruppetto di collaboratori  e pura passione per il cinema. Facendolo con umiltà e coerenza, come ho potuto constatare nei due giorni  della manifestazione svoltasi a Chianciano Terme in una cornice felliniana, nel luogo cioè in cui il Maestro  Fellini ha girato alcune scene del capolavoro” 8 e 1/2 “.

La Sala Fellini

 E la premiazione è avvenuta proprio nella Sala Fellini. A ritirare, il premio, che è stato decretato dal pubblico, e questa è una caratteristica preziosa del Festival, il produttore  Gustavo Espinoza. Il cortometraggio racconta la storia di Luigi, un uomo caduto in depressione dopo la morte della moglie. E del figlio che per risollevarlo da quella situazione decide di scrivere ad un amico del padre, che abita in Argentina, per avviare una partita a scacchi per corrispondenza. Un’opera commovente che è un invito  a non perdere mai la forza di ritornare a vivere.

Dal film “La partita ai confini del mondo”

Tra gli  altri  premi di “CortoFiction”, il  Premio Fellini a “FiSOlofia” di Nicola Palmieri , anch’esso incentrato su una persona in forte crisi esistenziale. Coinvolgerà al bar due pensionati in una discussione filosofica. Un corto, dai toni grotteschi, sul significato dell’esistenza, sull’origine dell’universo e della sua intrinseca bellezza. Temi  riguardanti l’esistenza e la bellezza, quelli dei due cortometraggi. Che rispondono alla tematica affrontata quest’anno da “Corto Fiction” che era “La bellezza quasi oscurata dalla invadente violenza mediatica”. La  caratteristica di Corto Fiction, infatti, è quella di chiamare, ad ogni edizione, gli autori a confrontarsi su un tema di attualità strettamente legato al mondo cinematografico e più in generale dell’audiovisivo. Continuando  il discorso sulle opere premiate,  da segnalare ancora  che il  miglior soggetto è stato attribuito a “The colorful life of Jenny P” di Daniele Barbiero che racconta, attraverso vivaci immagini dai toni fiabeschi, una relazione affettiva tra una nipote ed il nonno.

Si gira “The colorful life of Jenny P”

 Miglior Comedy, ” Crossititch road” di Ivan Selva che narra di un incontro fra una donna in crisi ed un motociclista solitario che va in suo soccorso per evitare che due camionisti malintenzionati ,che avevano mal interpretato la volontà della donna di colloquiare con qualcuno, la  disturbassero. Scenario della storia, una  fatiscente area di sosta  sperduta in mezzo al nulla durante un’afosa notte d’estate. Per il  tema sociale premiato “La giornata” di Pippo Mezzapesa incentrato sulla vita di migliaia di persone sottopagate e senza alcun diritto, che lavora la terra per “due euro l’ora”: un’opera che nasce dall’inchiesta su Paola Clemente, bracciante di San Giorgio Jonico stroncata da un malore mentre lavorava nei campi agricoli di Andria. 

Dal film “La giornata”

Il Premio della critica è stato attribuito a “Peso sull’anima” di Mana Solipano  cortometraggio  sull’uso della tecnologia, qui raccontata attraverso la storia di una ragazzina che non riesce a giocare con la madre perché sempre in attività con lo smartphone, mentre il   Premio Fedic è andato a ”Cerco le parole” di Roberta Mucci , un corto a tema  sociale che tratta un tema difficile, l’alcolismo. L’opera è imperniata su una figlia diciassettenne  che cerca di far desistere il padre dal vizio dell’alcol, in seguito alla morte della moglie. Due generazioni a  confronto in un’opera che parla al cuore. Da segnalare che la protagonista è la giovanissima cantautrice Luna Agostini che  canta la canzone che dà il titolo al cortometraggio. “Premio comico a “El atraco” di AlfonsoDiaz, un corto spagnolo che racconta, con accenti umani, la storia di un ladro di professione ritrovatosi, suo malgrado, a contendersi una rapina con un ladro improvvisato.

Una scena del cortometraggio “El atraco”

Per il Tema spirituale premiato “From on Higt” di Dawn Westlake che svolge un discorso utopico sui simboli religiosi trasformati in occasione di pace duratura.  In sala, a ritirare i premi, molti autori accolti dal Sindaco della città Andrea Marchetti che ha ribadito il  sostegno alla  manifestazione organizzata dall’Associazione culturale “Immagine e Suono” che è nata 18 anni fa e che, come sottolinea Lauro Crociani  che nel Festival è  coadiuvato,  soprattutto, da  Cristiana Vitalesta, ha una precisa filosofia, quella di far riflettere sull’importanza della positività e dell’approccio costruttivo. Con una linea, che ha sempre mantenuta la sua coerenza, di prediligere e far emergere i lavori e le storie costruttive, che guardano alla vita e al mondo con uno sguardo positivo. Come testimoniano anche le opere in Concorso alla diciottesima edizione.

SEDICICORTO INTERNATIONAL FILM FESTIVAL, TRA NOVITA’ E FUTURE PROSPETTIVE
di Francesco Saverio Marzaduri

Foto di gruppo dei vincitori della XV edizione del festival

La XV edizione del Sedicicorto International Film Festival, tenutasi a Forlì dal 5 al 14 ottobre 2018, è il coronamento dello sforzo di un anno, e non solo per la preparazione dell’evento (si pensi al lavoro di selezione operato sui 4.262 cortometraggiprovenienti da 118 Paesi, divenuti 243 in rappresentanza di 46 nazioni), ma soprattutto del lavoro di formazione del progetto “NeHo18”, che ha coinvolto gruppi di studenti di molte scuole superiori di Forlì, e quello di alfabetizzazione cinematografica svolto in tali istituti scolastici. Premiata da una notevole affluenza di pubblico giovanile, l’edizione ha presentato 195 corti internazionali e 48 nazionali, suddivisi in 46 programmi: 104 i film di finzione, 102 quelli d’animazione, 23 sperimentali e 14 documentari. Tra le sezioni fuori concorso si ricordano “Light”, rappresentato dalla commedia, il focus “Musica e Canto” (tema nodale dell’edizione 2018), quello dell’animazione in Austria ed Estonia e “Atrium”, quest’anno incentrato sull’architettura socialista in Russia, Armenia, Ucraina.

Il “CineworkER”, che ha ospitato distributori e produttori

Il festival non si è limitato alle sole proiezioni, avendo in serbo numerose sorprese per gli affezionati. Mai come quest’anno ha creato momenti di condivisione e aggregazione, tra aperitivi, concerti e visite guidate (non è mancata una partita di calcetto disputata tra lo staff del Sedicicorto e gli ospiti del settore cinematografico). Per il terzo anno consecutivo è stato riproposto il fortunato “CineworkER”, inerente incontri con professionisti del comparto audiovisivo, rappresentanti delle maggiori case distributrici di cortometraggi, produttori, direttori di festival, giornalisti, critici e registi che hanno animato i “masterclass”: si segnalano quelli su scrittura e regia, sulle serie televisive, e le tavole rotonde su produzione, distribuzione e critica cinematografica. Lo speciale “Rwanda” è stato dedicato all’omonimo film e al suo autore Riccardo Salvetti, che ha ottenuto il premio per il miglior progetto FEDIC avendo saputo raccontare un episodio tragico di storia recente, dando voce e possibilità d’integrazione a 400 profughi africani presenti nel forlivese. A parte il consueto Consiglio FEDIC, si ricorda il “Festival Emilia Romagna” cui hanno aderito rappresentanti del Porretta Film Festival, AmarCort, Ennesimo, Ce L’ho Corto, Bellaria, Cinesogni, Concorto, Ibrida, Malatesta Short Film Festival, Reggio Film Festival, e SoundScreen. Durante l’incontro si è discusso dell’avvenire del cortometraggio, nonché delle difficoltà delle specifiche rassegne in Italia, auspicando la creazione di una rete regionale capace di esprimere un peso maggiore sul panorama nazionale ed estero. Presente anche la regione Emilia Romagna, rappresentata dalla Film Commission nella persona di Emma Barboni.

La tavola rotonda “Il sabato della critica” Il “Festival Emilia Romagna”

Il Sedicicorto International Film Festival è stato parte integrante di Energie Diffuse, iniziativa promossa dall’Emilia per celebrare l’anno europeo del patrimonio culturale, da cui è partito il tour dell’assessore alla cultura Massimo Mezzetti, gradito ospite e relatore nel corso delle proiezioni dedicate ai ragazzi delle scuole di Forlì. Tra i numerosi professionisti della critica da segnalare la presenza di Aldo Fittante, membro della giuria “Italia Film FEDIC” e “CortoinLoco”; Adriano Piccardi, che ha recensito le proposte della citata “Italia Film FEDIC”; ed Enrico Magrelli, giurato della sezione “Cortitalia” e tra i partecipanti della tavola rotonda “Il sabato della critica”, oltreché insegnante d’eccezione per i giovani intervenuti ai “matinée”. Sempre numerosi gli eventi dedicati a bambini e ragazzi: “Bebisciort”, animazione per le scuole dell’infanzia e primaria; “NO+D2”, dedicato a studenti delle scuole medie e superiori; e “NeHo18”, presentazione di quattro corti realizzati da neo-maggiorenni delle scuole superiori di Forlì, che hanno partecipato all’omonimo corso teorico-pratico (progetto internazionale, quest’ultimo, organizzato dal locale Teatro Testori in collaborazione con Sedicicorto), seguito da “NeHo18 Cult”, “continuum” del percorso didattico formativo sul cinema iniziato da “NeHo18”, e dai Corti Universitari.
Il festival ha inoltre ospitato sezioni precedentemente inedite: il “Book Trailers”, la prima edizione del festival “Italia Film FEDIC” (in concorso, opere girate da “film makers” della Federazione Italiana dei Cineclub) e l’“IranFest” dedicato al cinema iraniano. Quest’ultimo progetto è nato dal desiderio della direzione artistica di Sedicicorto di approfondire la cinematografia iraniana di taglio breve e coinvolgere protagonisti del panorama culturale regionale, pensando di affidare l’organizzazione e la gestione dell’evento a studenti ed ex dell’Università di Bologna. Il pubblico ha apprezzato la nuova formula, partecipando numeroso non solo alle proiezioni, ma anche ai dibattiti con personalità del cinema e della cultura iraniana, come nel caso del giornalista e critico cinematografico Ehsan Khoshbakht. Vincitore per “IranFest” è risultato “Run Rostam Run” di Hossein Molayemi, storia animata di un eroe nazionale persiano, Rostam, che dovrebbe viaggiare nel futuro sino ad arrivare nella contemporanea Teheran, allo scopo di rimediare all’errore del figlio.

L’“IranFest” Ehsan Khoshbakht

Tra i riconoscimenti assegnati dalle giurie degli addetti ai lavori, degli studenti, delle associazioni e del pubblico, ricordiamo il premio della società di distribuzione “Elenfant Film” di Bologna, andato a “Lucy” di Roberto Gutiérrez: il protagonista – un tale che filma segretamente la vicina di casa ricostruendo i suoni della sua vita – crea una relazione immaginaria che lo porta a individuare il vero rumore della propria ossessione, la Lucy del titolo. Il libanese Abbe Hassan, invece, affronta il tema della vita quotidiana delle popolazioni in guerra, nel film di produzione svedese “Guld”, aggiudicandosi il premio della critica indetto dal web-magazine “Kontainer16”: Amal e le due sorelle vivono in un rifugio antiaereo siriano, cercando di trovare nonostante tutto un che di positivo nella propria esistenza; non appena Amal, esplorando i dintorni distrutti dalle bombe, troverà un pezzo d’oro, le conseguenze di ciò riveleranno la fragile natura della situazione. Sezione di corti votati dagli studenti delle scuole medie e superiori, “NO+D2” ha decretato la menzione speciale per il francese “Tout Seul” di Mabner Toussaint: sul fare della sera, in un parcheggio sotterraneo una donna in auto incontra un cane, lo distrae e fugge senza accorgersi che la guardia del parcheggio, stesa a terra, ha avuto un malore. Il Gran Prix Luminor è andato al tedesco “Soul Mate”, il cui regista Mahdi Borjian racconta di un bambino che, rincasato da scuola, si rapa a zero, e i fotogrammi s’alternano a quelli del padre, lui pure calvo, malato terminale collegato a una flebo.
Sezione dedicata ai lavori di registi emiliano-romagnoli di nascita o adozione, “CortoinLoco” ha visto premiare due documentari votati dalla giuria e, tra gli altri, dal giornalista e critico Aldo Fittante. “Odio il rosa” di Margherita Ferri, cui è andato il premio del pubblico, è la vicenda di una bambina che fin da piccola si sente un maschio, e come tale vuol comportarsi ed essere considerata. “100 anni di corsa” di Giuseppe Parrino s’è aggiudicato il Gran Prix Luminor, sorprendendo positivamente pubblico e critica con l’allenamento, e l’inesauribile tenacia, di un podista di 98 anni. Nella sezione “Animare”, incentrata su lavori d’animazione per bambini e ragazzi, l’onorificenza è andata al russo “Tweet Tweet”, in cui la regista Zhanna Bekmabetova ci ricorda che vivere è come camminare su una corda tesa: talvolta siamo spaventati o disorientati e perciò si smarrisce l’equilibrio, mentre quando si è felici ed emozionati ci si dimentica di camminare su una corda e si può perfino volare. La sezione “Experia”, che ruota sul corto sperimentale, è stata votata dalle associazioni culturali che Sedicicorto ha voluto coinvolgere (Area Sismica, Città di Ebla, Masque Teatro, Spazi Indecisi, Vertov Project). In una manciata di minuti, il francese “Umano” di Martin Nicolas Pierre, che ha ottenuto il premio del pubblico, illustra un’eclissi lunare su Parigi che fa scoprire a una dea gli umani, l’arte in ogni sua forma e un certo fascino metropolitano. Il tedesco “Another World” di Florinda Frisardi, che ha ricevuto il Gran Premio, affronta i problemi ambientali atti a minare irreversibilmente l’ecosistema e l’esistenza del genere umano in avvenire. La realtà virtuale appare l’unico ricordo consolante del periodo trascorso, che rivive, in modo viziato, un inesistente eterno presente; la sola speranza risiede nella sperimentazione in vitro, sicché la vita vegetale è ricreata in laboratorio per un nuovo inizio.
“Animalab” è la sezione dei prodotti internazionali di animazione che quest’anno, tra i giudici, ha annoverato Andreas Mänd, professore associato e direttore del Dipartimento dAnimazione del Volda University College, Norvegia. Il premio del pubblico è andato a un altro russo, “Letters” di Alexander Savarsky, operina sull’amore bello e improvviso dove ogni perdita è un nuovo anello per una catena di future scoperte: l’amore è qualcosa che inizia sempre quando finisce. Il romeno Sergiu Negulici, aggiudicandosi lo specifico Gran Prix con “Splendida Moarte Accident”, ambienta il suo film in un negozio d’antiquariato: qui, un giovane trova un disegno intrigante che nasconde una lettera d’amore segreta sul retro, scritta settant’anni prima; scoperto che l’autore del disegno è ancora vivo, pur essendo pluricentenario, il ragazzo vuol scoprire se la storia è vera. Con Enrico Magrelli e Pedro Armocida tra i giudici, la sezione “Cortitalia”, che contempla lavori italiani d’ogni genere, ha visto premiati Giovanni Dota con “Fino alla fine”, Pippo Mezzapesa con “La giornata” e Lucia Bulgheroni con “Inanimate”. Nel primo, che ha conquistato il riconoscimento del pubblico, uno sparo squarcia il silenzio della notte e quattro loschi figuri fuggono dal luogo del delitto, ma l’infallibile killer di un clan malavitoso, avendo per la prima volta ucciso l’uomo sbagliato, dovrà rendere conto al boss. Il secondo, che ha avuto la menzione speciale, narra la tragedia di Paola Clemente, bracciante agricola pugliese di quarantanove anni, che la fatica uccide sotto il sole del 13 luglio 2015. Parole e fatti dell’inchiesta ai caporali che la sfruttavano ne ricostruiscono le ultime ore, mentre i protagonisti si rivolgono allo spettatore guardando in macchina. Il terzo, che ha conseguito il Gran Prix Luminor, narra d’una Katherine la cui esistenza, fatta di apparente normalità, inizia poco a poco a esser messa in discussione…
“Movie”, che ha contato tra i giurati l’attore-regista Baba Karim, è dedicata a prodotti internazionali tra fiction e documentari. Il premio del pubblico è andato al canadese “Cheveux Sacrés” di Mario Morin, dove Arthur di otto anni e Mounia di trentacinque non sono poi troppo diversi (uno non ha capelli, l’altra li nasconde), e vittime entrambi di pregiudizi trovano congenialità e reciproco conforto. Se la menzione speciale l’ha conquistata “All These Creatures” dell’australiano Charles Williams, vincitore del “palmarès” all’ultima edizione della Croisette, la Polonia s’è aggiudicata il Gran Prix Luminor con “Deer Boy”, firmato da Katarzyna Gondek. Nel primo, un ragazzo adolescente di colore cerca di districare i propri ricordi di una misteriosa infestazione, il disfacimento di suo padre e le piccole creature che ci circondano; il secondo è una fiaba horror sull’istinto e la negazione, dove il figlio di un bracconiere è pronto a sparare alla sua preda, non fosse che le corna iniziano a spuntargli sulla testa.
Il premio “Italia Film FEDIC” è andato a “Sasòl, memorie e progetti da un mondo nuovo” di Claudio Tedaldi, a pari merito con “The Ancient Child” di Fabrizio Polpettini e “Mon Amour” di Marco Rosati. “Sasòl” è la storia di un immaginario itinerario, a tecnica mista d’animazione, dalla memoria degli orrori del nazifascismo lungo le barriere spaziotemporali, allo scopo di creare un universo di valori positivi, condivisione, solidarietà, bellezza. Il bambino anziano del film di Polpettini è Laozi, concepito, secondo un mito taoista, quando la madre fissò una stella cadente: in conseguenza di ciò, l’infante sarebbe cresciuto già vecchio, barbuto e saggio. Nel lavoro di Rosati, la moglie di un uomo ricco e stupido ha un forte esaurimento nervoso che la porta a un’improvvisa decisione. Nell’ambito del progetto “NeHo18”, il gruppo di studenti ha tributato il successo de “Il ballo” di Luca Zambianchi, apologo di un trentacinquenne affetto da malinconia, smarrimento e mania per i cannoli siciliani, che decide d’iscriversi a lezioni di danza e uscire una volta per tutte dal proprio isolamento.
Smaltito in conclusione anche quest’anno il generoso programma della rassegna, a organizzatori e “aficionados” non resta che attendere la XVI edizione che, come annunciato durante la serata di chiusura, avrà un occhio di riguardo al tema del cine-turismo e dei percorsi a esso collegati. Si tratta dunque di attendere, nella convinzione che Sedicicorto, sempre attento fin qui a novità e prospettive future, sia ormai una piccola ma tenace garanzia di qualità.

TRA CINEFILIA, ARTE E PENSIERO CRITICO: FESTIVAL ADELIO FERRERO – CINEMA E CRITICA 2018
di Valentino Saccà

Nel nome del thriller e di Tina Pica si è aperta l’edizione 2018 del Festival Adelio Ferrero – Cinema e Critica di Alessandria(11-14 ottobre).
Un gustoso boccone è stato l’anteprima dell’ultima edizione del festival alessandrino, con la presentazione del volume “Il cinema giallo thriller italiano”, alla presenza dell’autore Claudio Bartolini, critico cinematografico e valente esperto del cinema di genere.
Bartolini ha realizzato un’opera monumentale di cui deficitava la produzione critica italiana, in cui ha raccolto e capziosamente analizzato l’intero filone dal 1962 (anno di nascita del genere con “La ragazza che sapeva troppo” di Mario Bava) fino ai lavori più recenti.
L’anteprima dell’Adelio Ferrero 2018 oltre ai brividi gialli all’italiana, si è polarizzata attorno ad una figura storica del nostro cinema comico di matrice rivistaiola: Tina Pica. Meglio nota come “Caramella” nella saga di “Pane, amore e fantasia”, l’attrice e caratterista partenopea è stata raccontata da Paola Settimini e Daniele Ceccarini, quest’ultimo autore del documentario a lei dedicato: “Tina Pica era una roccia”.

Tina Pica e Vittorio De Sica in “Pane, amore e gelosia”

L’Associazione locale Cultura e Sviluppo ha ospitato la prima serata del festival, dedicata al cinema di impegno civile con la proiezione di “Garage Olimpo” alla presenza del suo autore Marco Bechis e  Caterina Giargia, con interventi di Andrea Pogliano e Roberto Lasagna, moderatore della serata.
Rivedere “Garage Olimpo” a quasi vent’anni dall’uscita nelle sale crea ancora una forte emozione empatica con i personaggi, un film che ha fatto epoca denunciando la violenza repressiva del regime militare argentino senza il minimo virtuosismo esibizionistico ma con una durezza fredda e sapientemente calcolata.

 Dopo la proiezione di questo film-manifesto (che la mattina seguente è stato proiettato per i licei della zona) il pubblico ha potuto intervenire ponendo quesiti e riflessioni a Marco Bechis sulla lavorazione e su quanto un film come “Garage Olimpo” ha segnato profondamente la storia del cinema.
Durante l’incontro è stata brevemente ricostruita la carriera registica di Bechis, sia dal punto di vista tematico che stilistico, attraverso spezzoni significativi di altre sue opere come “Figli/Hijos” e il più recente “Il rumore della memoria”.
Dal cinema alla critica, presso il Teatro Comunale di Alessandria, fulcro di tutto il festival, si è tenuto un confronto cinefilo e critico sul tema: Critica e Web, un tema assai spinoso e oltremodo attuale che ha enormemente appiattito la figura specifica del critico cinematografico. Si sono lanciati nel confronto diversi giovani critici operanti sul web come Sara Boeri (The MacGuffin),
Andrea Bosco (Movielicious), Marco Romagna (Cinelapsus), Juri Saitta (Mediacritica), moderati da Saverio Zumbo.
All’interno del dibattito la presentazione del volume: “Divi, duci, guitti, papi, caimani” di Gianni Canova con interventi di Emanuela Martini.
Canova racconta le maschere del potere italiano attraverso la nostra commedia, in un testo in cui si affronta lucidamente ma con un grande senso dell’ironia un tema profondamente politico come quello del potere.
Riflettori su Roberta Torre, cineasta fuori dal coro e dallo stile personalissimo. Eletta madrina dell’edizione 2018, Roberta Torre ha raccontato al pubblico trucchi e segreti del suo cinema, soffermandosi sulla sua ultima e controversa opera: “Riccardo va all’inferno” che è stato proiettato al termine dell’incontro.

Roberto Lasagna conversa con la regista Roberta Torre

Introdotta da Emanuela Martini, con interventi di Alberto Morsiani, la regista ha spiegato la propria passione per il genere musical, che dai tempi di “Tano da morire” è un suo personalissimo leitmotiv, e come la drammaturgia shakespeariana sia oggi attualissima e il Riccardo III sia diventatoun film acido e grottesco popolato da freaks infernali, capitanati da un deus ex machina di prima grandezza: Massimo Ranieri.
Non di solo cinema e critica vive l’Adelio Ferrero, difatti ha ospitato Roberta Ballesini, la quale ha raccontato il marito Giorgio Faletti e la sua prismatica attività artistico-culturale, tra cinema, televisione, teatro e scrittura.
Giorgio Faletti è stato un artista poliedrico, tra le maschere più importanti del cabaret televisivo dei primi anni 80 ha poi saputo, nel corso del tempo, rendersi sempre più invisibile come presenza scenica e farsi autore di canzoni e scrittore unanimemente riconosciuto.
Una tavola rotonda dal titolo: Il discorso e lo sguardo – forme della critica e pratiche della cinefilia, ha visto poi protagonisti Giulio Sangiorgio (direttore di Film Tv), Fabio Zanello (critico cinematografico e saggista) e Oreste De Fornari (critico cinematografico), in collegamento telefonico, durante la quale hanno discusso il tema delle serie Tv e del web.
Oggi più che mai dopo l’avvento di Netflix il videovedere è sempre più frammentato e intrinsecamente legato allo standard televisivo e informatico.
I relatori presenti, portando ad esempio serie Tv e prodotti web recenti, hanno discusso di come è cambiato il modo di guardare un prodotto audiovisivo e conseguentemente come si è trasformata la produzione di un discorso critico sullo stesso.
Lamberto Bava, Papà di “Fantaghirò” e autore del seminale dittico “Demoni” (nonché figlio del maestro del gotico e del giallo italiano Mario Bava), ha incontrato il pubblico dell’Adelio Ferrero. L’incontro è stato moderato da Bendetta Pallavidino con interventi di Andrea Cavaletto.
Lamberto Bava, presente anche alla proiezione del film “Diabolik” di Mario Bava, per il suo 40° anniversario, ha svelato aneddoti e curiosità avvenute sul set.

Dal film “Diabolik”


Alla presentazione di “Diabolik” sono intervenuti anche Andrea Cavaletto, Paola Settimini e sempre in collegamento telefonico Oreste De Fornari.Giulio Sangiorgio  ha introdotto il film, sottolineando la predominanza dell’oggetto e del dècor sulla figura umana, elemento che contraddistingueva già il capolavoro “Sei donne per l’assassino”, il quale si apriva in un atelier di moda dove rigidi manichini si  sostituivano alla corporeità umana.
E’ bene però non dimenticare un altro personaggio iconico del nostro cinema che è stato presente all’Adelio Ferrero 2018: Maurizio Nichetti.
Il surreale autore di “Ladri di saponette” e “Ratataplan” ha presentato la sua Autobiografia involontaria (edita da Bietti), parlando di sè, del proprio modo di fare cinema e di come il linguaggio specifico della settima arte si è modificato nel corso del tempo.
Un’autentica lectio magistralis, moderata da Barbara Rossi e Roberta Ballesini, e tenuta da uno dei più innovativi registi italiani degli ultimi 40 anni, acuto osservatore del quotidiano capace poi di dilatarlo a sogno e incubo surreale, con sguardo gentile, sempre arguto e talvolta innocentemente malizioso.

Il Festival si è concluso con la proiezione dei video saggi in concorso, introdotti da Saverio Zumbo, a cui hanno fatto seguito altri ospiti d’eccezione.
La prima è stata Ilaria Pezone, giovane filmaker e docente di Tecniche di ripresa presso l’Accademia di Brera, la quale ha presentato il suo volume: Il cinema di prossimità, percorsi di cinema privato, amatoriale, sperimentale, d’artista a cui sono seguiti interventi di Francesco Ballo.
Sempre di analisi del cinema si è trattato con Ignazio Senatore, psichiatra e psicoterapeuta, presidente e fondatore della Sezione “Arte, Musica, Teatro, Cinema e Mass Media” della Società Italiana di Psichiatria (SIP).
Senatore con il suo intervento dal titolo: Come ti smonto un film – trucchi, segreti e magie della narrazione cinematografica, moderato da Danilo Arona, ha dato una propria interpretazione al linguaggio narrativo del cinema, reinterpretando con lo scandaglio della psicanalisi certe forme del linguaggio filmico e alcuni autori tra cui David Croneneberg e Patrice Leconte, quest’ultimo uno dei suoi registi favoriti.
Come intermezzo a queste tavole rotonde ancora una volta è stato protagonista Lamberto Bava con la proiezione di “Bava puzzle”, un mosaico sulla carriera e le opere cinematografiche dell’autore, presentato da Daniele Ceccarini e Paola Settimini, registi del documentario.
Si è poi giunti alle premiazioni del contest Filming Alessandria che quest’anno si è polarizzato attorno al tema: Alessandria e il lavoro, con interventi di Stefano Careddu e il collettivo Requiem for a Film. Subito dopo le premiazioni della XXXV edizione del Premio Ferrero.
Per la sezione Saggi il primo premio è andato a Annagiulia Zoccarato per Tutti gli uomini di Xavier: lo sguardo sul maschile nel cinema di Xavier Dolan. Il secondo premio è andato a Juri Saitta per Il cinema dell’angoscia. Ida Lupino Filmakers. Segnalazione di qualità per Carlo Maria Rabai con il saggio Casei Neistat, l’uomo con le macchine da presa. La nuova medialità nel rapporto tra spazio individuo e sé.
Il primo premio per la sezione Recensioni è andato a Stefano Lalla con “Dogman”, secondo premio per Elvira Del Guercio per “Elle, il fascino indiscreto”. Segnalazione di qualità Edoardo Ferrarese (“Il maratoneta”), Carolina Caterina Minguzzi (“Il sacrificio del cervo sacro”) e Martina Puliatti (“Cadere nel ritmo del mondo. Drift” di Helena Wittmann).
Per la sezione Videosaggi sono stati premiati Maria Hofmann (Beyond the Screen#nofilter), secondo premio ex aequo Milad Tangshir (Hidden Behind Lace) e Andrea Miele e Gabriele Gimmelli (Fantozzi – l’eterno ritorno). Menzione speciale della Giuria Angela Anzelmo e Gabriele Gucciardi (Il film che visse due volte), menzione di merito per Tatjana Giorcelli (insegnante, ha partecipato con i ragazzi dell’Associazione Babelica: “Chi ha incastrato Roger Rabbit”) e Sergio Maurizio Berbotto (insegnante, ha partecipato con i ragazzi dell’Associazione Babelica: Miss Peregrine visto da noi).
Per chiudere in bellezza e nel nome della settima arte con la S maiuscola, l’edizione 2018 del Festival Adelio Ferrero – Cinema e Critica ha presentato un evento speciale per i 90 anni di Stanley Kubrick, in cui Roberto Lasagna insieme a Riccardo Bellini e Filippo Ulivieri hanno raccontato il “Napoleon” di Kubrick, uno dei capolavori mai realizzati dal maestro. Inoltre per coronare questo omaggio doveroso a uno dei massimi cineasti della storia, sono stati proiettati 25 minuti di “2001: Odissea nello spazio” con sonorizzazione elettrica Yupier 2018, musica di Massimo Carlentini, eseguita da Luca Carillo, Gabriele Pandiani, Stefano Panelli, Yajie Wang su coordinamento organizzativo di Maria Cecilia Brovero.

Ma il Ferrero 2018 non si è concluso qui, un grande evento fuori programma è stato presentato presso l’Associazione Cultura e Sviluppo.
Un laboratorio per studenti, curiosi, cinefili e giovani appassionati dal titolo: L’esperienza della critica: raccontare i film, il cinema, il festival, a cura del professor Umberto Mosca, film educator, Università di Torino.
Questo evento off conferma la trasversalità dello sguardo che il Festival Adelio Ferrero applica al cinema, sondandolo in tutte le sue forme e declinazioni, senza tralasciare l’importanza di eventi laboratoriali, fondamentali per una completa paideia cinematografica.



OCCHIO CRITICO

SEMPLICI SVOLTE DEL DESTINO
di Marco Incerti Zambelli            

Arrivano sugli schermi italiani, anche se con un certo ritardo, due film tratti dagli ultimi romanzi di Ian McEwan. Lo scrittore inglese è stato fonte di ispirazione di una ventina di opere secondo Imdb, ma raramente ha collaborato direttamente alle loro realizzazione, a differenza appunto di “On Chesil Beach” e “Il verdetto”, dei quali è autore unico delle sceneggiature.  Non ci interessa qui affrontare la mai risolta, e probabilmente irrisolvibile, questione del rapporto tra il racconto letterario e la sua trasposizione cinematografica,  ma sottolineare che di presunti tradimenti del pensiero dell’Autore, in questo caso non si può trattare, stante la comune paternità. E’ intrigante, piuttosto, nel caso di “On Chesil Beach”, la volontà di mettere in scena una vicenda che ha nei pensieri intimi, non detti, dei protagonisti la chiave di volta, la reale struttura del dipanarsi della storia.

Un’immagine di “On Chesil Beach”

Florence ed Edwards, novelli sposi nell’Inghilterra del 1962, sull’orlo della esplosione dei libertari anni della Swinging London, della Beatlemania, della liberazione sessuale,  così vicini eppure del tutto estranei, incappano in una disastrosa prima notte di nozze. Giovani, belli, davvero innamorati rimangono dapprima vittime della inconsapevole adesione alla massima wittgenstaniana  che ‘di ciò di cui non si può parlare chiaramente, bisogna tacere’, per poi rovinare definitivamente nel negarla, con la proposta di lei di un contraddittorio rapporto ‘aperto’, all’epoca  e nel contesto, inaccettabile. 
Il rincorrersi dei flashback, e la trasposizione cinematografica non tradisce l’elegante equilibrio della parola scritta, ci racconta le differenti provenienze familiari, la modesta ma non priva di un certo fascino bohemien dimora di lui, segnata da una tragica disabilità mentale della madre, e la benestante, austera casa di lei. Il comune successo scolastico, la militanza nel movimento contro le armi atomiche, sono l’occasione per l’inizio della loro relazione. Rapporto ricco di sogni e progetti per il futuro ma timoroso e impacciato negli approcci fisici, timore ed impaccio in fondo discordanti rispetto ai caratteri dei protagonisti: la caparbia volontà di Florence nel perseguire la vocazione musicale e la sua convinta tenacia nel guidare il quartetto cameristico da lei fondato, la orgogliosa rivendicazione delle sue idee nei confronti del conservatorismo del padre, le singolari ricerche storiche di Edward, il suo non disdegnare qualche rissa occasionale. Risulta così ancora più amaro il totale fallimento della loro luna di miele, la incapacità di superare le difficoltà, e quel ‘non fare niente’ che lungi dal lasciare aperte tutte le porte preclude inesorabilmente ogni prospettiva. L’esordiente regista Dominic Cook, di cui appare evidente la provenienza teatrale, temperata dall’ottima fotografia di Sean Bobbit, mette in scena con felice diligenza la sceneggiatura di McEwan, sorretto dalla indovinata recitazione di Billy Howle e Saoirse Ronan, accompagnato da una raffinata colonna sonora che spazia da Chuck Berry a Bach. Stupisce pertanto un poco il pleonastico e posticcio finale del film (assente nel romanzo) che stempera quella ‘suadade’, quella struggente nostalgia di quel che poteva essere e non stato, espressa mirabilmente nelle ultime righe del romanzo.

Dal film “Il verdetto”

La inquietudine che sempre attraversa le opere dello scrittore inglese si evolve nel dilemma morale, nella aporia irrisolvibile che pure deve essere affrontata ne “Il Verdetto”, tratto da ‘La ballata di Adam Henry’  (‘The children act’ in originale). La giudice minorile Fiona Maye, pur abituata prendere con razionale fermezza decisioni difficili, si ritrova indecisa e turbata nel risolvere il caso di un adolescente, ai limiti della maturità che lo renderebbe padrone delle sue scelte, malato di leucemia che potrebbe guarire solo in seguito ad una trasfusione di sangue, ma la famiglia e lui stesso la rifiutano in quanto Testimoni di Geova. Il malessere è accresciuto dalla crisi del rapporto con il marito che  pur amandola, si sente trascurato e allontanato dal rigoroso, assorbente impegno di lei, e che le rivela una fragilità acuita dalla percezione del passare del tempo, dell’invecchiamento che avanza. Un irrituale visita al giovane malato, che si risolve con il canto comune di una ballata di W. B. Yeats, pare indicarle la giusta soluzione. Ma l’inaspettato evolversi dei sentimenti precipiterà Fiona in scelte ancor più tormentate e difficili, fino al tragico epilogo.
Emma Thompson, qui in una delle sue interpretazione più intense ed efficaci, offre un emozionante ritratto di un personaggio sfaccettato e complesso, e non da meno sono Stanley Tucci nel ruolo del marito e Fionn Whitehead che regala ambiguo fascino al giovane malato. La regia del veterano Richard Eyre segue con precisione l’alto spessore della sceneggiatura che intreccia sapientemente l’alternarsi degli sfondi, civile e religioso, familiare e sentimentale, nei quali i personaggi agiscono.
Rimane, come spesso nei lavori di McEwan, la sensazione agrodolce della impossibilità di governare quelle “semplici svolte del destino” alle quali non si può che abbandonarsi.


AMERICA VS. AMERICA: BLACKKKLANSMAN E FAHRENHEIT 11/9  
di Francesco Saverio Marzaduri

                                                           BlacKkKlansman

Il segreto del cinema di Spike Lee – quando non insiste su ridondanze che portano ad eccessivi didascalismi – risiede in due ingredienti. Il primo va cercato nella memoria di un popolo ancora bisognoso di urlare la propria lacerante ferita storica, il secondo in un’evoluzione socio-culturale dall’instabile pensiero politico, in cui il desiderio di mutamento (che dovrebbe serbare la necessità d’una coscienza lucida) sembra non impedire il riaffacciarsi di mentalità reazionarie e bigotte. La cosa giusta da fare “by any means necessary”, che da oltre trent’anni distingue la produzione del regista afroamericano, quasi sempre si barcamena tra l’obbligo della denuncia a squarciagola e l’ironica sfumatura con cui gridarla, talora a scapito di quest’ultima. È proprio il tono sarcastico a fare del lavoro di Lee un’opera di denuncia non superata, pronta anzi a palesarne la “politique” senz’alcuna paura di apparire di maniera, distante da confezioni “ad hoc” fatte di slanci polemici senza guizzi (l’ultimo Oliver Stone) o da dissertazioni utili ma fastidiosamente non necessarie (“Fahrenheit 11/9” di Michael Moore). In “BlacKkKlansman”, ventitreesimo lungometraggio del cineasta, tutto è giocato sulla scommessa di ridestare le menti americane senza distoglierne la coscienza dal palpabile senso di tensione dato dalla persistente imminenza di esplosioni violente e tragedie sfiorate, da un ribadimento della Storia atto a ricondurre lo sberleffo sul binario del drammatico. E tuttavia – Spike Lee lo sa bene – la sola possibilità di esorcizzare l’“endorsement” trumpiano, la sua grottesca presenza, le calunnie, i malumori che dividono le parti a costo di rivolte e vittime, sta nel riproporre la Storia come invito, retrodatato, a intendere quel che va inteso. Lo spettatore è avvisato: la volontà di bloccare l’origine dell’odio (e all’uopo punirlo), anche solo contentandosi di superare una battaglia nell’ampio raggio di un’invincibile guerra, è plausibile inoltrandosi nel “milieu” bigotto e fanatico del Klan, mettendo da parte etnie e relativi risentimenti. Nei suoi centotrentacinque minuti di durata, aleggia in “BlacKkKlansman” un’atmosfera “vintage” dove il “climax” nixoniano è allegorico riverbero di quello attuale, che non scalfisce la sulfurea volontà di sfottere il Sistema a stelle e strisce sin dalle origini del mito cinematografico: dal celebre fotogramma di “Via col vento”, in cui Rossella O’Hara si confonde nella sterminata schiera di feriti con la bandiera sudista a sventolare, si passa a un caricaturale Alec Baldwin demagogo in bianco e nero, di fronte alle cui retoriche ideologie non esenti da papere si scorge il desiderio di castigare il fanatismo. “Il film è tratto da una fot…a storia vera”, recita la didascalia nell’incipit, e il fil(m)ologo Lee ha già incomodato “Nascita di una nazione” prima che il capolavoro di Griffith torni nella parole d’un vecchio Harry Belafonte, testimone di un atroce episodio accaduto a un amico, durante un “meeting” universitario; se là il montaggio alternato esaltava il ceto WASP come un popolo di eroi camuffati pronti al salvataggio dall’ombra oscura, la stessa tecnica di montaggio, in questo caso, contrappone le dolenti parole della “guest star” al rito d’iniziazione nel Klan di un detective ebreo infiltratosi nella setta. La storia scritta col fulmine – parafrasando l’aforisma del presidente Wilson – è screditata in tutta la propria aura fallace da un corteo di fanatici rivoltosi che ancora (si) esaltano (al)le immagini di Griffith, nell’istante in cui Lee ne restituisce il lato di potenziali assassini quando il detective Ron Stallworth, scambiato dai colleghi bianchi per stupratore, sventa “in extremis” un attentato ai danni della presidentessa dell’unione studentesca nera. Fuorviante è il parallelo del corteo del KkK con quello del comizio sui diritti civili tenuto da Kwame Ture; fin troppo esplicita la bilancia su cui pende l’ago del cineasta (di cui il protagonista Ron, lui pure indotto a una presa di posizione, è l’“alter ego”), cui non sembrano importare le menzioni “à la” Bogdanovich, citato insieme a Cybill Shepherd. Restituita è l’America paranoica degli anni Settanta (il fermo delle operazioni da parte del capo di polizia, che, a missione conclusa, impone di distruggere i documenti), colorita di tocchi nostalgici (la “disco-music” e la “blaxploitation” negli incontri fra Ron e Patrice); a predominare è però quella rivalsa che il cinema, una volta tanto, concretizza a favore dei “fratelli”, denominati “rospi” dai bianchi laddove i neri chiamano “porci” i piedipiatti. Solo una sciarada, addirittura uno scambio di ruoli, voci ed etnie, rende ciò possibile affinché la corrispettiva uniforme da fantasma sia derisa: Stallworth si presenta al telefono come fanatico WASP, prima di convincere il collega ebreo Zimmerman a infiltrarsi nel cantone e istruirlo sullo “slang” tipico dei neri (purtroppo, va da sé, il doppiaggio azzera il rispettivo gioco di voci in uno dei passaggi più irresistibili del film); e che la celia assurga a incandescente arma per canzonare fino all’ultimo il presidente del Klan David Duke, patetico nel tentativo di scimmiottare i nemici, è evidente. Ma l’“escamotage” della mascherata, che non risparmia qualche affiliato (gli agenti del NORAD) né il rapporto tra Ron e Patrice (che non sa di uscire con un “porco”) e sfiora l’ossimoro quando proprio il protagonista fa da “bodyguard” a Duke, non cancella il clima di repressione esemplificato dalle immagini documentaristiche in coda: alla marcia per i diritti civili in Virginia segue l’ottuso discorso del vero Duke, la contro-protesta dei bianchi prelude all’attacco in auto da parte di James Alex Fields jr. e alle dichiarazioni di Trump dopo gli episodi. Al solito polemico e provocatorio, lo stile coniuga primi piani serrati a inquadrature distorte, in linea con l’incombente soqquadro socio-politico, talora ricorrendo al mitico “split screen”. Così pure la pistola rivolta da Ron e Patrice all’obiettivo, mentre il fondale dietro di loro si muove, è la riconoscibile firma d’un autore conscio di non poter fermare lo spettro dell’odio, infiammante in ogni senso, anche a prezzo inevitabile di innocenti (la Heather Heyer che rimanda a Yusef Hawkins: altra vittima della violenza bianca cui era dedicato “Jungle Fever”). Ben diversa dallo schermo, la realtà americana retrocede quanto la sua bandiera, non bruciando più come in “Malcolm X” ma rabbuiandosi poco a poco. In fondo, anche questa una vittoria. Con ogni mezzo necessario.

Laura Harrier e John David Washington

                                                           Fahrenheit 11/9

“Spero non giri mai un film su di me.”
DONALD J. TRUMP

Due anni appena del mandato di Trump sono bastati al cinema a stelle e strisce per offrire una prima valutazione su fasti (pochi) e nefasti del 45° presidente degli Stati Uniti, e sulle conseguenze del suo operato. Tanto l’afroamericano Spike Lee, in “BlacKkKlansman”, opta per l’invettiva in chiave di allegoria storica, quanto il sessantaquattrenne Michael Moore resta fedele al proprio paradigma: un’inchiesta giornalistica narrata in prima persona, a base di testimonianze e interviste, condita di feroce sarcasmo secondo l’usuale piglio. Inevitabile che anche il “liberal” Moore tenti a suo modo di ridestare la coscienza collettiva, come altrettanto inevitabile, a mo’ di paradosso, che il titolo del suo decimo lavoro, “Fahrenheit 11/9”, sia una variante del “j’accuse” all’amministrazione Bush di quattordici anni prima, che fruttò il “palmarès” all’autore. In poco più di due orette, Moore sembra volerci dire come basti invertire l’ordine di qualche cifra senza troppo modificare l’esito: l’America rimane irredimibile bersaglio di un’utopia – la democrazia, in termini di cambiamento – priva del coraggio di osare fino in fondo. Sicché, come illustra il prologo ancor prima degli “opening credits”, chi era dato per spacciato nel confronto con la democratica Hillary Clinton, in men che non si dica si ritrova a tripudiare in mezzo alla folla che l’ha votato, sui cui volti scorrono lacrime amare anziché sorrisi. “Era tutto solo un sogno?”, si domanda un perplesso Moore, mentre scorrono i fotogrammi d’una folla di elettori intenta a stappare lo champagne ancor prima del risultato (“Sembrava la sfilata della vergogna”), sagacemente commentato da “Ridi, Pagliaccio”. E Moore medesimo, incomodato dalla televisiva Fox News per aver fatto il suo nome durante lo scrutinio, constata basito l’immagine del tronfio vincitore sull’Empire State Building. Putin e James Comey – continua il “film maker” – non sono che una palese scusante. L’ipotesi, anzi, è che la candidatura di Trump fosse nata solo per ripicca, avendo scoperto che la NBC retribuiva Gwen Stefani più di lui, e, dietro lauto compenso per le comparse, il Nostro mirasse a dimostrarsi “anchorman” altrettanto valido. Ciò che la tivù non gli permise, licenziandolo a causa dei suoi epiteti xenofobi, ne decretò il consenso nazional-popolare presso il Sud e la conseguente illuminazione della candidatura. A dar la spinta fu, d’altronde, il piccolo schermo, che ne fece la gallina dalle uova d’oro favorendogli la gratuita messa in onda e i graduali “diktat”, complice la simpatia di alcuni dirigenti sessisti (da Moore etichettati come “sexual predator”, di cui sciorina i “capi d’accusa” intenti a incalzare pesantemente la Clinton). E il cineasta ricorda un confronto col futuro presidente tenutosi nel ’98, ospiti del salotto di Roseanne Barr, prima del quale Trump mise le mani avanti affinché al primo fosse negato il contraddittorio. A fare il resto, l’antica amicizia col Rick Snyder governatore del Michigan, ex amministratore delegato di “computer schifosi” e responsabile d’uno sfruttamento idrico presso lo Huron a vantaggio suo e di potenti sostenitori. La causa dell’acquedotto, adibito a spostare l’approvvigionamento del lago sulle acque inquinate del fiume Flint, fu la morte per legionella di numerose persone e irreversibili danni per l’alto tasso di piombo presente – e, com’è ovvio, ci si adoperò per seppellire le prove del misfatto. Noto è lo schema di Moore: una serie di supposizioni non casuali che approdano a una fondata teoria, qui come altrove non sempre condivisibile; nondimeno, la carica eversiva risiede in alcune sulfuree trovate a favore di quell’idea di etica che gli States, sedicenti disposti al mutamento, riescono giusto a nominare: dopo le dolenti dichiarazioni degli abitanti di Flint – una prigione, a detta del cineasta, per i quali è impossibile evadere – ecco il Nostro intento a eseguire un arresto in flagranza di reato (con tanto di manette), sfumato il quale invia una cisterna con le acque della citata città per annaffiare la villa di Snyder. Ma l’articolata polemica sembra non far sconti a nessuno, a cominciare dalla fascia democratica, che non annovera soltanto i sondaggi elettorali truccati a favore della Clinton: la perdita di un’identità, dovuta alla paranoia di mostrarsi troppo “liberal”, induce Obama in persona a un gesto di compromesso (il bagnarsi le labbra con un bicchiere d’acqua spacciato per avvelenato) che, non potendo essere interpretato come un siparietto, suscita lo sdegno della folla quanto il suo prender soldi dalla Goldman Sachs. La zavorra è tanta, l’azzardo lo è di più; l’invito a prender posizione deve fare i conti con la contraddittorietà d’uno sguardo (e un Paese) in cui la decisione, da qualunque parte si prenda, è scomoda. Chi conosce il lavoro di Moore, sa di confrontarsi con un ambiguo paradigma che opta per gli usuali colpi cerchiobottisti a spettatori già certi della propria ideologia, e non esente da una debordante voglia di mettere in fila chi la pensa come lui – il che costituisce frequente motivo di critica al suo lavoro. È nel materiale trattato nella seconda metà di “Fahrenheit 11/9” che si ritrova la firma di “Bowling a Columbine” e di “Sicko”: gli scioperi conclamati dagli insegnanti del West Virginia, che l’accesso alla polizza sanitaria obbliga all’uso di un’applicazione che ne conta i quotidiani passi, o la protesta di alcuni studenti contro la politica delle armi facili dopo la sparatoria di Parkland, in Florida. Dove la dissertazione rischia il qualunquismo, e pure il non necessario, è nel facile accostamento tra il mostro storico Hitler e l’odierno male mediatico, o in un’altra bandiera che s’infiamma. Ciò non sottrae il risultato al già cospicuo novero di radiografie su un’America schiacciata dalle proprie contraddizioni (la complicità con la Cina e la Russia), incapace di riconoscere colpe e individuare colpevoli. Le incalcolabili bugie del presidente la vincono, anche se sono bugie. Degli odiati filmati di educazione civica sul concetto di “democrazia”, ora più che mai si sente la mancanza. Perfino la deplorevole, volgare figura di un agitatore – spettro del protagonista di uno scomodo film di Corman, “L’odio esplode a Dallas”, troppo in anticipo sui tempi per essere compreso – assurge a neo-eroe. Il conclusivo appello sull’invito a reagire (“L’America che volevamo salvare è l’America che non abbiamo mai avuto”), col “fake” di un Trump scortato dall’FBI in manette, è amara ucronia. Che un finto attacco missilistico alle Hawaii divulgato dai “social network”, l’ennesima sparatoria in una scuola e le lacrime di una giovane studentessa, argutamente siglano. Quasi che la voce di Moore e del suo possibile seguito fronteggiasse una sparizione in odor di censura.

Michael Moore

“COLD WAR” DI POWEL PAWLINOWSKI
di Tullio Masoni

Ida (2013) è l’unico film di Pawlinowski che ho visto prima di “Cold War”. Entrambi in bianco e nero, entrambi in 4:3 (una battaglia persa ma onorevole contro le omologazioni della rete) a evocare una stagione, ormai lontanissima, nella quale il cinema dell’est europeo  -polacco, in questo caso- si imponeva all’attenzione mondiale con buona pace dello stalinismo e dei suoi riformatori presunti.
Ida proponeva il male sentimentale di una giovane donna che si scopriva ebrea dopo aver assentito a una vocazione cattolica; anche “Cold War” è dedicato soprattutto a una figura femminile, ma il tema del confine (quello della “guerra fredda”, come annuncia il titolo) viene applicato a una situazione storica diversa : una intrigante fatalità  che, attraverso le vicende dei personaggi, si allarga a territori stabiliti, alla dimensione culturale, e a un disagio (un’infelicità) gonfio di motivi drammatici che tendono all’assoluto.
Quello di “Ida” era un passato composito (il nazismo, lo stalinismo, il già ricordato cinema degli anni sessanta) e faceva presagire le gravi incertezze di un presente – non certo mutato a pochi anni di distanza, in Polonia e nell’Est in generale – che l’ubriacatura “occidentale” addirittura accentuava. “Cold War” evolve ed elabora sulle stesse domande; i confini da varcare e su cui tornare sono molti e implicano, oltre all’ansia dell’ovest (Berlino, Parigi…), una difficile conciliazione fra il bisogno di avere radici e, per contro, quello di un’agiata libertà.

Perché Viktor e Zula – lui musicista colto, lei cantante di tradizione – non trovano un equilibrio pur avendo superato ostacoli impossibili per altri? Una parziale risposta può venire dall’oggettiva crisi di identità che dai tempi bui della guerra fredda continua in quelli “illuminati” del consumismo senza regole. Essi vivono negli anni un insolubile paradosso: la tensione per la già nominata libertà e un richiamo all’origine che di questa libertà fa percepire l’umana insufficienza.
«Wiktor e Zula – ha scritto Alessandro Uccelli su “Cineforum” – si inseguono per 25 anni, avanti e indietro dalla Polonia, a Berlino, a Parigi; la musica si farà musica da film poi jazz – il genere più legato al concetto di tradimento –, per poi tornare in Polonia in una chiesa sventrata e abbandonata in mezzo alla campagna, dove si respira odore di umidità e di Tarkovskij, e chiudere con un matrimonio/suicidio, uniti sulla panca come gli innamoratini di Peynet».
La panca sarà presto lasciata; e, tagliando l’inquadratura, evidenzierà una volta di più, simbolicamente, una linea di demarcazione.
Questo finale, assai suggestivo e sentito, forse denuncia – nel suo atemporale abbandono di paesaggio- un eccesso di liricità o, meglio, un troppo dilatato scorrimento fra lirica e  melò. Senza compromettere il valore dell’opera (ottiene comunque una felice rarefazione) Pawlinowski però ci invita, da quell’ultimo segno di barriera, a tornare su altre plasticamente disposte lungo la storia. Penso ai palcoscenici sui quali Zula canta davanti a un muro di coristi; all’altro muro, cioè al pubblico separato e in fila che fa controcampo; penso alla “maledizione” amorosa, alla sua irriducibilità fra tempo e luoghi, all’angoscia che accompagna la necessità di mentire.


LONDON&CO:“SENZA LASCIARE TRACCIA” DI DEBRA GRANIK; “LA BALLATA DI BUSTER SCRUGGS” DI JOEL E ETHAN COEN
di Paolo Vecchi

“Senza lasciare traccia” è il terzo lungometraggio di Debra Granik dopo “Down to the Bone” , inedito in Italia, e il pluripremiato “Un gelido inverno , che ha lanciato verso il successo una giovanissima Jennifer Lawrence. Come nella sua fortunata opera seconda, la cinquantacinquenne regista americana conferma l’ interesse per i marginali, là il sottoproletariato hillbilly, qui  un marine al quale la guerra ha lasciato una pesante eredità di incubi e la decisa volontà di sottrarsi al consorzio umano. Sotto quest’ultimo punto di vista, il film si inserisce in quella corrente filosofica peculiarmente americana che ha come numi tutelari Ralph Waldo Emerson e Henry David Thoreau, che vede nel ritorno alla natura uno strumento salvifico rispetto alle gabbie del sociale, influenzando fortemente la cultura hippie della quale gli abitanti delle roulottes nella foresta in cui si rifugiano padre e figlia sono reduci invecchiati, magari patetici ma ricchi di umanità.
Sotto il profilo letterario, poi, non ci sembra azzardato ipotizzare una filiazione di “Senza lasciare traccia” dai romanzi e racconti di Jack London, per l’idea che la natura ha delle leggi  più ferree di quelle del consorzio umano, ancorché innate ed eterne e non imposte dalle convenzioni. Al grande scrittore di “Il richiamo della foresta” è forse ascrivibile anche la presenza di due cani: quello, minuscolo, battezzato Willie Nelson come il famoso cantante country, che allevia la solitudine di un camionista nei suoi lunghi tragitti, soprattutto quello vecchio e saggio che, oltre a funzionare da pet therapy per l’infortunato genitore, conosce bene il bosco e le sue strade, accompagnando la protagonista nel commovente finale.

“Senza lasciare traccia”

Certo, il nucleo centrale del film è costituito dal rapporto padre – figlia, intensissimo ma destinato a interrompersi nonostante la carica affettiva che lo riempie. Ma abbiamo preferito insistere sui suoi antecedenti filosofici e letterari per costruire un aggancio, forse pretestuoso, con un altro titolo importante uscito qualche settimana dopo, “La ballata di Buster Scruggs” di Joel e Ethan Coen. Programmato da Netflix e non in sala, secondo un andazzo che sta segnando in maniera ci sembra ormai ineluttabile la  fruizione del prodotto film, e di conseguenza – si parva licet – anche la critica cinematografica, era in concorso a Venezia, dove si è aggiudicato il premio per la sceneggiatura ma, con qualche eccezione, è stato accolto con una certa freddezza dagli addetti ai lavori. A nostro modesto ma fermo parere, si tratta viceversa di un’opera di notevole interesse.

Una significativa scena del film “La ballata di Buster Scruggs”

I Coen avevano già affrontato il principe di tutti i generi cinematografici dandone per scontata la morte, in quella sorta di divertissement che era lo stralunato remake del “Grinta”, tra l’altro non proprio uno dei vertici nella filmografia di Henry Hathaway. Pur con l’abituale presa di distanza, “La ballata di Buster Scruggs” ha viceversa l’ambizione di mettere insieme una summa dei temi del western, della sua storia e magari anche delle sue radici letterarie. Nei sei episodi che lo compongono, infatti, si trascorre dalla corsa all’Ovest minacciata dai pellerossa alla febbre dell’oro, dai grandi spazi delle praterie al chiuso dei saloon, dall’ossessione a essere the fastest gun alive alla ciarlataneria degli imbonitori (e lasciamo al lettore la miriade di riferimenti cinematografici possibili), con l’incantevole povertà dei singin cow-boys del b-movie a confrontarsi con le immensità fordiane, le divertenti ma riduttive  gag alla Sergio Leone a esaltare la complessità degli intrecci di Anthony Mann. Aperto e chiuso da “The Streets of Laredo”, tema conduttore sapientemente variato da Max Steiner in un capolavoro come “Notte senza fine” di Raoul Walsh, che lo strepitoso score di Carter Burwell propone all’inizio in un arpeggio di chitarra, alla fine cantato da Brendan Gleeson, ogni segmento è presentato come capitolo di un libro con rilegatura d’epoca. Non a caso, ci sembra, perchè tutte le storie possiedono la loro risonanza letteraria, ora picaresca come in Bret Harte, ora con le striature orrorifiche di Ambrose Bierce. Ma dichiaratamente a London – e qui entra in gioco il richiamo al film della Granik – si rifà il quarto episodio, “The Gold Canyon”, in cui la natura, splendidamente resa dal digitale di Bruno Delbonnel, si chiude su se stessa al canto del cercatore d’oro interpretato da un quasi irriconoscibile Tom Waits, cedendo il passo allo stravolgimento e alla violenza portati dall’uomo. Poi, quando il vecchio se ne va col suo carico d’oro e il suo strascico di sangue, tutto si ricompone: il cervo torna a brucare l’erba, il gufo reale vola sul ramo dove ha nidificato, le farfalle si posano sui fiori, i pesci guizzano nel torrente. La solennità della wilderness, con le sue leggi eterne, fatalmente riprende il sopravvento.  

DOCUMENTARI E DOCUMENTARISTI

STEFANO SAVONA ESPLORATORE DEI MARGINI DELLA VITA  
di Marcello Cella

“La mia paura è di essere costretta a rimanere in silenzio. Oppure di non riuscire a resistere a qualcosa. Ho paura della debolezza della mia volontà. Ho paura di non essere in grado di difendere la mia causa. Ho paura di morire politicamente. La paura della morte fisica l’abbiamo superata da tempo. Ci abbiamo fatto l’abitudine”
                        una giovane guerrigliera kurda in “Primavera in Kurdistan”

“Io non so come si racconta una storia”
            Amal, la bambina palestinese protagonista di “La strada dei Samouni”

“Io scopro nel momento in cui filmo”
            Stefano Savona

Pochi documentaristi come Stefano Savona sono in grado di esplorare i margini dell’esistenza, i lati più oscuri e nascosti degli eventi più estremi, il non detto dei conflitti, delle guerre, le immagini mancanti alle versioni ufficiali, mettendo contemporaneamente in scena la propria fragilità e le proprie paure, il proprio scoprire la realtà nel momento in cui la filma. Un equilibrio difficile fra l’irrompere della realtà più immediata nella geometria apparentemente razionale e pre-fissata dell’inquadratura e la capacità di riflettere, di rielaborare e interpretare quella realtà alla luce del contesto in cui si manifesta e della storia che l’ha prodotta. In questo senso la formazione culturale del cineasta, cresciuto come archeologo e antropologo, si palesa nei temi e nelle storie che sceglie di raccontare, come nel punto di vista, mai neutro, attraverso il quale quei temi e quelle storie sono proposti al pubblico. Come Savona stesso racconta nelle sue interviste, spesso i suoi lavori non sono il frutto di un lungo lavoro di ricerca e di strutturazione della sceneggiatura e della messa in scena, ma nascono dalla sua intuizione, dall’importanza che per il regista assume l’essere dentro determinate realtà, l’esserci, l’essere presente come testimone del suo tempo, prima ancora che come narratore per immagini. Forse il lavoro più emblematico in questo senso è “Tahrir. Piazza della rivoluzione” (2011), in cui Savona racconta dall’interno con una forza visiva  e drammatica straordinaria, le manifestazioni di piazza al Cairo che portarono alle dimissioni del dittatore egiziano Mubarak e che furono il detonatore di quelle che poi saranno definite le “primavere arabe”.

Un’immagine di “Tahrir. Piazza della rivoluzione”

 “Tahrir” infatti nacque in due giorni quando Savona, avuta notizia di quello che stava accadendo al Cairo, decise sul momento di partire subito per l’Egitto e nel giro di 24 ore si trovò dentro quei drammatici e a loro modo eroici avvenimenti. Niente sceneggiatura, niente produzione, niente soggetto. Solo la necessità interiore, morale, di testimoniare quello che stava accadendo in Egitto, la rivoluzione e i suoi protagonisti più nascosti. Non i leader, nè i militanti più convinti, ma “quelli che stavano in mezzo, come i personaggi de “I piccoli maestri” di Meneghello”, quelli che difficilmente salgono all’onore delle cronache, troppo difficili da catturare in una definizione giornalistica preconfezionata, troppo chiaroscurali, sfuggenti e problematici. Troppo marginali. Come Akif, il giovane guerrigliero curdo che Savona sceglie di raccontare in “Primavera in Kurdistan” (2006) in cui forse per la prima volta nel percorso artistico di Savona si esprime quell’idea del documentario come cinema in prima linea e in presa diretta, puntato al cuore degli eventi, che sarà sempre la sua cifra stilistica più evidente. “Primavera in Kurdistan” è il frutto di un mese di viaggio con un’unità di combattenti curdi del PKK per raggiungere il confine con la Turchia.

“Primavera in Kurdistan”

Akif, infatti non è un leader e nemmeno un militante della prima ora della causa curda, ma un giovane figlio di emigrati curdi in Germania che lascia l’Europa per cercare le proprie origini e lottare per il suo popolo con tutti i dubbi, le paure e le incertezze ma anche la passione sincera e forse anche ingenua che potrebbe avere chiunque non sia stato educato alla guerra, ma sente la necessità morale di dare un aiuto concreto alla terra da cui nasce la sua storia esistenziale. Anche in questo caso ci troviamo al cospetto di una straordinaria testimonianza della vita quotidiana dura e spietata, ma anche dei sogni e delle speranze di questi giovani guerriglieri e della rivoluzione per cui stanno combattendo, una rivoluzione prima di tutto dei rapporti umani, della mentalità, della cultura, per costruire una nuova società in cui le regole vengono stabilite dalle donne perché, come racconta un altro guerrigliero, “l’uomo ha diviso la società umana in classi ed ha rinchiuso le donne tra le mura dei templi e delle case”. Una rivoluzione tranquilla e determinata che Savona racconta con pudore sollevando interrogativi che, come in uno specchio, sono rivolti anche a noi spettatori occidentali, alla nostra cultura, alla nostra mentalità. E qui sta un altro punto di forza del modo di raccontare per immagini di Savona, e cioè la capacità di rivolgere sempre domande implicite allo spettatore su ciò che sta vedendo, probabilmente le stesse che lui stesso come uomo, prima ancora che come cineasta, si è posto.
Un altro elemento importante del percorso registico di Stefano Savona è il rapporto con la storia e con la memoria, un rapporto sempre raccontato e vissuto all’interno di confini fisici e culturali, in cui i ricordi non sono materiali inerti, fotografie ingiallite dal tempo, ma elementi “caldi” che interrogano sempre anche il presente e le sue contraddizioni. Un elemento che si coglie fin dai suoi primi lavori come “SiciliaTunisia” (2000) che racconta il rapporto di emigrazione/immigrazione tra Sicilia e Tunisia, tema ripreso anche in “Un confine di specchi” (2002) sulla storia di alcuni pescatori siciliani emigrati in Tunisia e di altri tunisini emigrati in Sicilia, in un confronto serrato fra mondo islamico e mondo occidentale vissuto dal basso, o come “Spezzacatene” (2010) in cui sei contadini, uomini e donne, nati in Sicilia nei primi trent’anni del secolo scorso, raccontano la loro storia di fame e difficoltà quotidiane da superare in un’epoca e in una terra in cui i rapporti di classe erano spietati. Tutti tasselli coerenti con l’idea di cinema che Savona ha sempre sostenuto. “Il cinema deve opporsi all’inevitabilità della morte”, afferma il regista, “e ogni fotogramma è un pezzo di memoria che si ricostruisce”. Soprattutto se questa memoria riguarda ferite ancora aperte come le realtà sociali più marginali o i conflitti, le guerre. “Palazzo delle Aquile” (2011) racconta la storia di diciotto famiglie senza casa che occupano per un mese Palazzo delle Aquile, sede della Giunta e del Consiglio comunale di Palermo, l’irrompere delle difficoltà materiali della vita quotidiana all’interno delle ovattate stanze del potere politico. Mentre con “Il tuffo della rondine” (2008), girato a Mostar in Bosnia-Erzegovina al seguito di Massimo Zamboni, chitarrista dei CSI, per un concerto che si doveva svolgere dieci anni dopo quello, a suo modo memorabile, tenuto dal gruppo in questa città martoriata fra le macerie di un conflitto devastante appena concluso, è un viaggio che Savona compie nel ricordo di quella guerra, nell’identità di una città e di un popolo che durante il conflitto veniva artificiosamente identificata con un nazionalismo fittizio, nella scelta di partecipare al conflitto o di non imbracciare le armi, nella necessità di tornare dove sono certe fratture, dentro e fuori di noi, si sono dolorosamente verificate. Ma è con “Piombo fuso (Diario da Gaza)” (2009) e “La strada dei Samouni” (2018) che il cinema di Savona, il suo indagare nelle faglie della storia e della realtà raggiunge la sua massima intensità e in cui si palesa un’altra costante del cinema di Savona, quella della condivisione, della presenza del regista all’interno della stessa realtà che egli decide di filmare, nel tentativo di azzerare le distanze tra queste realtà e l’occhio esterno del cineasta. “Piombo fuso” racconta la vita quotidiana a Gaza durante l’operazione dell’esercito israeliano denominata per l’appunto “Piombo fuso”.

“Piombo fuso”

Stefano Savona fu uno dei pochissimi giornalisti e documentaristi occidentali presenti a Gaza durante quei giorni drammatici di bombardamenti a tappeto da parte dell’aviazione israeliana, di operazioni militari che seminarono distruzioni e morte fra la popolazione palestinese. L’occhio del cineasta non si accanisce però solo sulla realtà della guerra, sulle distruzioni e sulle immagini di morte, e nemmeno assume un facile e scontato sguardo militante contro l’occupazione israeliana, ma racconta la vita quotidiana di un popolo che subisce la guerra e che comunque continua a vivere perché “la guerra è la vita mentre qualcuno sta cercando di ammazzarti”. Savona sceglie di stare sul campo e di raccontare la guerra, ma di cogliere anche tutti i segni della vita che continua, le tracce del futuro che comunque ci sarà. “E’ più interessante parlare con i sopravvissuti che mostrare i morti”, afferma il regista. E, del resto, quale immagine può raccontare meglio la violenza e lo smarrimento di ogni punto di riferimento determinati dalla guerra di quel bambino che vaga solo per le strade di Gaza circondate di palazzi in macerie, guardandosi intorno alla ricerca dei genitori, mentre capre e galline pascolano indifferenti, come i rari passanti che lo incrociano, mentre gli aerei israeliani sorvolano i cieli minacciosi e una voce amplificata inneggia in arabo a Dio e alla resistenza contro gli occupanti? E’ una sequenza straordinaria nel suo apparente vuoto, nel silenzio insistito dell’occhio del regista che come lo spettatore appare tramortito dalla scoperta di una tale disumanità. “La strada dei Samouni” riparte idealmente da questa immagine, raccontando la storia del massacro di una famiglia di piccoli proprietari terrieri della striscia di Gaza perpetrato dall’esercito israeliano dal punto di vista di Amal, una bambina sopravvissuta all’eccidio e che ha vissuto per anni con una pallottola in testa. Savona, che ha scoperto questa storia terribile proprio nei giorni in cui filmava “Piombo fuso”, si affida ad uno sguardo interno alla vicenda, uno sguardo che inevitabilmente non può essere neutro ma che nello stesso tempo, nel ricordo di quegli eventi drammatici, non può, proprio per la sua condizione di bambina, che guardare al futuro, nonostante tutto.

Due immagini del documentario “La strada dei Samouni”

Amal è una sorta di moderno Caronte che accompagna il regista nell’inferno della guerra moderna, della morte determinata da un semplice clic di un mouse lontano su uno schermo che assomiglia ad un videogioco. O anche, come qualcuno ha detto, una moderna Anna Frank che racconta la storia del suo quartiere raso al suolo come se fosse il ghetto di Varsavia dopo lo sterminio degli ebrei. E, come Anna Frank, Amal racconta le vicende dal suo punto di vista bambino, scevro da qualsiasi ideologia. “Nel momento in cui dall’esterno si fa tabula rasa di una comunità. Su quel vuoto ognuno proietta le sue differenti ideologie, una coincidenza di interessi che spesso si rivela mortale per chi vuole solo il diritto alla propria identità”, afferma infatti il regista. L’intento dei Savona infatti non è solo quello di denunciare le responsabilità israeliane dell’eccidio, che sono ben chiare, ma, sottraendosi allo specchio della contrapposizione ideologica, raccontare la vita e la speranza che alberga nel cuore degli esseri umani anche negli eventi più drammatici. E la violenza allora non può che essere un inserto sporco all’interno del naturale tessuto “narrativo” della vita, qualcosa che distrugge la sua linearità circolare come le immagini animate “graffiate” di Stefano Massi, cui si affida il regista per raccontare l’orrore incombente del massacro, l’immagine mancante della guerra, di tutte le guerre. Ma anche dopo il massacro la vita si ricompone e Amal può ricominciare a raccontare la sua storia, le sue speranze per il futuro, la sua gioia per le feste in famiglia e per i suoi giochi di bimba. Amal dice “io non so come si racconta una storia”, ma disegna un cerchio sulla sabbia e racconta di come era il suo quartiere, del grande sicomoro che troneggiava sulla strada principale prima che fosse abbattuto dagli israeliani e ricordando di come erano belli il suo quartiere e la sua famiglia comincia a progettare la loro ricostruzione e il suo futuro. “C’era una volta…e ci sarà ancora”.

QUALITA’ IN SERIE

KIDDING. IL FANTASTICO MONDO DI MR. PICKLES  
di Giancarlo Zappoli

Regia: Michel Gondry, Jake Schreier, Minkle Spiro
Soggetto: Dave Holstein
Sceneggiatura:  Dave Holstein, Halley Feiffer, Michael Vukadinovich,  Cody Heller, Noah Haidle, Jas Waters, Roberto Benabib, Joey Mazzarino
Interpreti: Jim Carrey (Jeff Piccirillo/Mr.Pickles), Frank Langella (Sebastian Piccirillo), Katherine Keener (Deirdre Piccirillo), Judy Greer (Jill Piccirillo), Cole Allen (Philip e William Piccirillo)
Produzione: Showtime
Distribuzione in Italia: Sky Atlantic
Origine: Usa, 2018
Durata: 10 episodi da 28/32 min.
Titoli degli episodi:
1) Verde significa vai
2) Pusillanime
3) Tutti i dolori hanno un nome
4) Addio mamma
5) Il nuovo te
6) Il biscotto
7) Kintsugi
8) Philliam
9) Tenente Pickles
10) Un giorno

Mr.Pickles è da molti anni il protagonista di una serie televisiva in cui, in un mondo a misura di bambino e popolato di pupazzi, offre considerazioni sagge ai più piccoli finendo con l’essere amato anche dagli adulti (compreso Danny Trejo il temibile protagonista del film “Machete” nel ruolo di se stesso). Jeff Piccirillo, l’interprete ormai identificato da tutti con il personaggio, non ha però una vita serena come i messaggi che comunica. Il suo lavoro si svolge praticamente in famiglia perché  Sebastian il padre è il produttore del programma e la sorella Deirdre è colei che realizza i pupazzi da utilizzare in trasmissione. Ci sono dei dolori profondi che lo tormentano. Vive separato dalla moglie dopo che, in un incidente stradale con lei alla guida, uno dei loro figli gemelli, Phil, è morto e ora l’altro ha preso a frequentare compagnie non raccomandabili. Jeff vorrebbe dedicare una trasmissione al tema della morte che lui ritiene, non a torto, affrontabile con i più piccoli. Il padre però è assolutamente contrario temendo di perdere gli sponsor della serie e sta pensando di allontanare il figlio dal programma trasformando il suo personaggio in un cartone animato. Fa anche di più: ingaggia una campionessa di pattinaggio da mettere al centro (con una enorme testa di cartapesta con le sembianze di Mr.Pickles) di uno spettacolo in stile “Holiday on Ice”. Ha inoltre già sviluppato un merchandising di pupazzi Mr.Pickles da mettere in vendita per Natale. Jeff progressivamente viene a conoscenza di queste strategie che cerca di ostacolare mentre tenta di riconquistare la moglie (che ha già un anestesista come nuovo compagno) finendo per innamorarsi di una paziente che ha conosciuto in una visita a un centro di cura dei tumori e a cui sono stati diagnosticati due mesi di vita. La sorella Deirdre sul piano privato non si trova certo in condizioni migliori. La figlia preadolescente ha visto il padre impegnato in un rapporto sessuale con il suo maestro di piano ed è rimasta sconvolta. Intanto la serie continua ad andare in onda e Sebastian cercherà di evitare che Jeff vada ad accendere come da tradizione l’albero di Natale in Central Park ritenendo il figlio ormai psicologicamente troppo fragile.

Risale al 2004 l’incontro tra Michel Gondry e Jim Carrey quando insieme diedero vita la molto apprezzato “Se mi lasci ti cancello”. Questa serie li vede di nuovo insieme grazie a un’idea di David Holstein che ha avuto come spunto, presto però dimenticato, il personaggio di Fred Rogers. Costui era un ministro di culto presbiteriano ideatore di un programma per i bambini più piccoli intitolato Mr.Rogers Neighborhood che Wikipedia ci descrive come così strutturato:
Ogni episodio iniziava allo stesso modo: si vedeva il Signor Rogers tornare a casa, cantando la canzone della sigla “Won’t You Be My Neighbor?” (Non vorrai essere mio vicino?), e cambiarsi per indossare le scarpe da ginnastica ed un maglione di cardigan con la cerniera lampo (egli affermò in un’intervista per la Emmy TV che tutti i suoi maglioni erano fatti a mano da sua madre).                                                                                                              In un episodio tipico, Rogers poteva avere una conversazione seria con i propri telespettatori, interagire con ospiti dal vivo, fare un’escursione in posti come una panetteria o un negozio di dischi o guardare un breve film. Tipici argomenti dei video includevano dimostrazioni di come funzionano oggetti meccanici, come bulldozer, o di come sono fabbricati, ad esempio i gessetti colorati.             
Ogni episodio includeva una gita al “Neighborhood of Make-Believe” di Rogers (l’immaginario quartiere di marionette da lui creato), in cui compariva un tram con la sua sigla coi companelli, un castello ed i cittadini del regno, fra i quali Re Venerdì 13 (King Friday XIII). Gli argomenti discussi in Neighborhood of Make-Believe spesso consentivano ulteriori sviluppi di temi discussi nel “reale” quartiere di Rogers.   Rogers dava spesso il mangime ai suoi pesciolini durante gli episodi. Si chiamavano originariamente Fennel e Frieda.                                                             Tipicamente, ogni episodio esplorava un argomento importante, come andare a scuola per la prima volta.                                                           Originariamente, la maggior parte degli episodi terminava con una canzone intitolata “Tomorrow” (domani), e gli episodi del venerdì facevano riferimento alla settimana successiva con una versione adattata della canzone “It’s Such a Good Feeling” (È una così bella sensazione). Nelle stagioni successive, tutti gli episodi terminarono con “Feeling”.
La distanza dal conduttore televisivo in onda dal 1968 per 895 episodi (a titolo di esempio v.: https://www.youtube.com/watch?v=bhcNIGeyP6Q&list=RDQM46QMSnXNKkY&index=5) è data dal fatto che Rogers  affermava: “Uno dei più grandi doni che puoi dare agli altri è il dono sincero di te stesso. Io riesco anche  a credere che i bambini possano individuare una persona falsa ad un chilometro di distanza.” Jeff Piccirillo invece vive in una sorta di dissociazione profonda: quando è in onda è Mr.Pickles (e per gli altri lo rimane anche dopo) ma quando le luci sul set si spengono ripiomba in una realtà in cui si sforza di essere come il personaggio che interpreta sostenendo una fatica di volta in volta maggiore. In tutto ciò hanno un ruolo anche i personaggi che anima e con cui Gondry si trova perfettamente a proprio agio grazie alla creatività che ha da sempre contrassegnato il suo fare cinema. Nel costruire il personaggio Holstein  aveva già fornito a lui e a Carrey un’ottima base di partenza: “Pensavo che Mr. Rogers fosse una persona di cui avere paura perché non si arrabbiava mai. Così mi chiedevo: come può qualcuno non arrabbiarsi mai per 30 anni? E cosa sarebbe potuto accadere la prima volta in cui ciò fosse capitato? E’ stato il punto di partenza per costruire il personaggio. Prendiamo qualcuno che sia legittimamente gentile e buono e ottimistico. Qualcuno che vuole che il mondo sia un bel luogo in cui vivere, che non insulta, che non mente. Quale sarà il suo punto di rottura?”

Per Gondry si è trattato del primo rapporto con la durata e le dinamiche di una serie e ha definito come segue la differenza che secondo lui intercorre tra le due espressioni artistiche: “La differenza principale, secondo me, è che non c’è una fine. La storia di un film ha un inizio, una parte intermedia e una fine e qualsiasi cosa tu stia girando sei consapevole che si stai indirizzando verso la fine. Ogni scena è zavorrata alla fine. La fine è in ogni elemento. Ad esempio: noi moriamo e ogni parte di noi sopporta il carico della fine della nostra vita.  Un film è così.  
Una serie tv non è così. Tu non hai idea di quello che la sceneggiatura sarà tra due episodi. L’attore può finire con il prendere una direzione completamente differente se ciò ha un senso. Non saprei dire se sia meglio o peggio, ma questa è la principale differenza.”

Da questa collaborazione a tre è nata una serie che lavora sulle pulsioni, sulla loro repressione ma anche sulla necessità di uno sguardo positivo sulla realtà anche se fondamentalmente il pessimismo prevale. Carrey sa offrire una molteplicità di sfaccettature al suo personaggio facendo che sì che gli si possa dare credibilità sia quando esprime pensieri di bontà e comprensione sia quando ciò che lo tormenta esplode in modalità opposte. Tutto ciò però non impedisce a Gondry, che ha diretto la metà degli episodi, di sviluppare anche tutti gli altri personaggi nessuno dei quali si vede assegnare un ruolo di contorno. La seconda stagione è già in produzione e questa è una buona notizia.

PANORAMA LIBRI a cura di Paolo Micalizzi

GIRO DEL MONDO IN 80 FILM
di Alberto Pesce
Libere Edizioni- Brescia, 2018
Pagg.166, euro 15.00

Lo scrittore Jules Verne ha compiuto il giro del mondo in 80 giorni, il critico cinematografico Alberto Pesce lo ha compiuto in 80 film, un ipotetico percorso planetario attraverso le recensioni pubblicate per lo più sul quotidiano “Giornale di Brescia” a testimonianza di una lunga attività . Il suo viaggio inizia negli anni Cinquanta con articoli pubblicati su alcune riviste cinematografiche per ,continuare con le recensioni dagli anni Sessanta  in poi scritte per “Il Giornale di Brescia”, cui ancora oggi collabora. Ed inizia da Brescia, la sua città, con un documentario sulle 10 giornate di Brescia  per espandersi lungo l’Italia ed andare poi in  Africa, Nord America, Europa, Asia, Antartide, Australia con ritorno in Asia ed Europa e raggiungere il traguardo in casa, cioè a Brescia, con un altro documentario di Achille Rizzi dal titolo ”Storie semplici di Roncari” che ritrae momenti di vita contadina ”accarezzando quel loro vivere con rassegnazione e pazienza”. Quelli citati sono titoli, forse sconosciuti a chi non  vive in quel territorio, mentre ve ne sono altri ben noti, come “Camera con vista” di James Ivory, ambientato a Firenze, “Roma” di Federico Fellini ambientato nella capitale.  Il viaggio in Italia continua  approdando alla Napoli di “Ricomincio da tre” di Massimo Troisi, alla “Baarìa”, cioè Bagheria, di Giuseppe Tornatore, alla Linosa di “Terraferma” di Emanuele Crialese,  cogliendone con acute osservazioni elementi  molto caratterizzanti. Nel suo viaggio all’estero, Alberto Pesce si sofferma poi su luoghi conosciuti o meno che film, visti in sala o a Festival, ci hanno reso familiari. Una carrellata che ci riporta alla mente opere di registi  che  nel panorama della Storia del Cinema meritano di essere ben valutati, cosi come fa Alberto Pesce ponendo su di loro una seria attenzione.

CINE TOUR CALABRIA. GUIDA ALLA CALABRIA CINEMATOGRAFICA
di Maurizio Paparazzo e Giovanni Scarfò
Rubbettino Editore, 2018
Pagg. 200, s.i.p

Ho letto con interesse questo volume sia perché sono di origini calabresi (sono nato a Reggio Calabria) sia perché sul Cineturismo ci credo da  tempo, tanto che nel 2010 è uscita una  Cineguida di  Ferrara, edita dalla Provincia con il titolo “Terra e cinema”,  con testi da me elaborati, forse la prima in maniera organica relativa al Cineturismo, ed una mia Storia del cinema ferrarese, anche questa, credo, tra le prime (se non la prima) ad affrontare in maniera organica il rapporto tra il cinema ed una città, è stata pubblicata nel 2004 (Aska Edizioni – Firenze) con il titolo “Al di là e al di qua delle nuvole. Ferrara nel cinema”. Quelle esperienze mi consentono di poter affermare che questa ricognizione sui set calabresi ben  costituisce un modo efficace  di poter conoscere la Calabria attraverso il cinema. Ma  può essere, come era nelle intenzioni, un testo  di facile e utile consultazione per le produzioni cinematografiche in cerca di location , per scenografie e location manager, per gli studiosi e gli appassionati di cinema, per i turisti  che desiderano approfondire la conoscenza della loro destinazione, per i calabresi che vogliono avere un panorama complessivo dei film e dei luoghi interessati, per il cinema stesso di ambientazione calabrese che può cominciare cosi a  darsi un volto e a riconoscersi.  Si tratta di 8 cine – itinerari che abbracciano sia la costa tirrenica che quella ionica  segnalando ben 185 film girati dal 1942 al 2018, ed un’altra ventina che parlano della Calabria ma girati fuori regione. Dovuti a  160 registi di cui 60 calabresi. I Cine – itinerari sono preceduti da un interessante prologo,  relativo alle opere  del cinema muto. Hanno collaborato ai testi Ulderico Nisticò e Daniela Rabia.

DALL’INFERNO A HOLLYWOOD
di Gian Pietro Calasso
Dm Edizioni, 2018
Pagg. 300, s.i.p.

Romanzo di un regista e sceneggiatore fiorentino diventato poi cittadino americano che  è ambientato nel mondo del cinema. Romanzo autobiografico di un regista che ha vissuto tra Italia, America e Giappone e che ha incontrato personaggi importanti di cui ne racconta l’ incontro avuto. Con Mario Monicelli è stato assistente volontario per il film “I compagni”; Franco Zeffirelli l’ha incontrato a Londra dove era andato a frequentare la London School of Film Technique. Saputo che stava allestendo il “Don Giovanni” di Mozart lo andò a trovare e ne divenne il suo assistente. Akira Kurosawa lo incontrò a Firenze dove il regista giapponese era andato a ritirare il Premio Donatello. Dopo la cerimonia  vi fu  un ricevimento in onore del regista  e la moglie di Calasso, che era giapponese e fungeva da interprete, pregò  il marito di portare in albergo dove risiedevano, che era lo stesso, la statuetta alquanto ingombrante. Il giorno dopo però lui rimase sorpreso alla richiesta della moglie  della statuetta che non si trovava: era successo che lui ricordava poco perché aveva passato la serata a bere whisky in compagnia di Shelley Winters. Ha incontrato anche Billy Wilder. Avvenne a  casa del regista americano dove  si azzardò a chiedergli di realizzare la sua sceneggiatura “The Oasis”. Billy Wilder, che aveva 95 anni, rispose che gli sarebbe interessato tornare sul set “ma solo se posso imparare qualcosa”.  Fu sfortunato perché  quando qualche giorno dopo gli telefonò per avere una risposta, seppe che “purtroppo se ne era andato in un posto da cui non si ritorna”. Tanti ancora gli aneddoti di una vita  affascinante vissuta nel cinema che rendono la lettura molto piacevole.

IL CINEMA IN MOSTRA
a cura di Alberto Barbera
Fondazione La Biennale di Venezia, 2018
Pagg. 584, euro 45.00

Volti e immagini della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica in un Catalogo della Mostra documentaria relativa al periodo 1932 – 2018, cioè dalle origini della manifestazione fino ad oggi, che è stata allestita durante lo svolgimento della 75. Edizione all’Hotel Des Bains, riaperto per l’occasione a proseguimento del progetto di rinnovo e qualificazione, come afferma il Presidente Paolo Baratta, degli spazi storici  della Biennale. Una Mostra che vuole celebrare i 75 anni della Mostra del Cinema, “un primato afferma Alberto Barbera che ne è il curatore, che nessuno potrà mai toglierle, e un privilegio, anch’esso difficilmente discutibile”. L’essere cioè la più antica manifestazione del genere. Di cui Alberto Barbera, nell’introduzione al Catalogo, racconta le sue alterne vicende. E che dopo  la Riforma voluta da Walter Veltroni che  fece diventare la Biennale una Fondazione ha consentito di mettere mano ad un serio progetto di investimento destinato alla ristrutturazione dell’intera “cittadella” cinematografica del Lido, che è tuttora in corso e che alla fine consentirà, afferma Barbera, di vantare standard qualitativi finalmente degni del prestigio veneziano e delle sua ambizioni presenti e future. La Mostra allestita al Des Bains ripercorre  le tappe essenziali di un percorso attraverso immagini di film, di registi, di  attori e attrici che anno per anno hanno riempito gli schermi del Lido, ma anche le cronache mondane.

CREDITS

Carte di Cinema 18

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E-mail: info@cartedicinema.org

Carte di Cinema è edito dalla FEDIC -Federazione Italiana dei Cineclub
Direttore responsabile: Paolo Micalizzi  (E-mail: paolomicalizzi@gmail.com )
Direttore editoriale: Lorenzo Caravello
Redazione: Maurizio Villani

Progetto grafico e impaginazione: Lorenzo Bianchi Ballano

Hanno collaborato al numero 18 della rivista online: Vittorio Boarini, Pio Bruno, Marcello Cella, Roberto Lasagna, Liceo Scientifico “Pietro Metastasio” di Scalea (Cs), Classe IVB, Francesco Saverio Marzaduri, Tullio Masoni, Roberto Merlino, Paolo Micalizzi, Giovanni Ottone, Riccardo Poma, Francesco Presta, Valentino Saccà, Paolo Vecchi, Maurizio Villani, Marco I. Zambelli, Giancarlo Zappoli.