2017 numero 12

DEDICATO A ELIO GIRLANDA
di Paolo Micalizzi

Elio Girlanda (primo a destra) insieme a Paolo Micalizzi, Maurizio Villani e Lorenzo Bianchi Ballano in una riunione di Carte di Cinema a Montecatini

Questo numero di Carte di Cinema è dedicato a Elio Girlanda, scomparso prematuramente a 68 anni dopo una grave malattia che lo ha stroncato in  meno di sei mesi. Lo raffiguriamo, attorniato da alcuni suoi libri importanti, in Copertina dove è ritratto sorridente, come spesso lo abbiamo visto: portava buonumore con le sue ironiche battute anche in momenti  di discussione un po’ animati. In Copertina, una sintesi dei suoi interesse cinematografici: il volume “Reti Nodi Link” che raccoglie gli Atti del 1° Forum Nazionale dei Circoli del Cinema svoltosi all’Università “La Sapienza” di Roma (6-7 febbraio 2004) nell’ambito del suo impegno di Segretario dell’A.I.C.A. (Associazione per Iniziative Cinematografiche ed Audiovisive) che lo ha visto protagonista di un periodo intenso di iniziative. Tra esse “Cantiere Italia-Cento Schermi per il Cinema di Qualità“, realizzata con il contributo del Dipartimento dello Spettacolo-Presidenza del Consiglio dei Ministri, che è iniziata nel 1998 in 17 regioni italiane e che in quattro anni ha fatto vedere a 230.000 spettatori più di 300 film italiani, europei ed extraeuropei penalizzati dal mercato. Ed ha portato, curati da Elio, alla realizzazione di alcune pubblicazioni che rimangono un punto di riferimento per la Storia dell’Associazionismo cinematografico italiano. Mi riferisco, in particolare, alla Guida “I Circoli del Cinema-Una rete per la cultura” del 2001 aggiornata nel 2004: una banca dati preziosa che si riferisce a tutti i Circoli del Cinema in Italia  e ne rendeva visibile la loro attività. Nell’Associazionismo Elio ha operato dando anche un notevole contributo alla Rivista “ il Ragazzo Selvaggio” del Centro Studi Cinematografici di cui faceva parte sin dall’inizio. ”Era uno stimolo all’impegno e alla ricerca, un vulcano di idee all’avanguardia, uno studioso informato su tutto”, ha scritto nell’ultimo numero della Rivista il Direttore Mariolina Gamba, ricordandolo. La copertina del volume dedicata a Meryl Streep rimanda ad alcune sue interessanti ed approfondite biografie relative a Woody Allen, i fratelli Dardenne, Stefania Sandrelli e Sergio Castellitto. Il cinema digitale poi, oggetto di libri, saggi e lezioni universitarie. E proprio sulle nuove tecnologie nel cinema, Elio Girlanda, teneva una Rubrica su questa rivista dal titolo “Neo-Cinema” in cui si soffermava sulle novità del cinema digitale. Una Rubrica che ci mancherà, cosi come  mancheranno alla FEDIC altri suoi contributi critici che dava come componente della Commissione Scientifica FEDIC, una Federazione di cui era diventato amico. E chi scrive, ne sentirà la mancanza anche come amico.

Sommario

ABSTRACT

ABBAS KIAROSTAMI di Marino Demata
L’articolo è impostato sulla analisi di quattro aspetti fondamentali della filmografia di Kiarostami, che ricorrono in quasi tutti i suoi film : lo spettatore, l’attore, i bambini, l’abitacolo di un’auto.
Lo spettatore, per il regista iraniano, non è soggetto passivo del cinema. Al contrario è il “manipolatore” (in senso positivo) del film a cui assiste ed ha il compito di interpretarlo e di completarlo. Allo spettatore è dedicato un suo intero film Shirin. Gli attori per Kiarostami non devono fare recitazione, ma portare la vita sul set. Per questo preferisce attori non professionisti. Il mondo dei bambini appassiona il nostro regista fin dalle prime opere ove emerge l’incomprensione e il disinteresse del mondo adulto per loro.
L’abitacolo di un auto è il luogo ove avvengono soliloqui, discussioni, decisioni fondamentali, più che in ogni altro luogo.
L’ultimo capitolo è dedicato al cinema di Kiarostami fuori dall’Iran, ma fuori da quel Paese non riuscì a girare che solo 2 film.

L’UOMO PIPISTRELLO E IL CINEMA-ANATOMIA (FILMICA) DI UN SUPEREROE SENZA POTERI a cora di Riccardo Poma
Dei molti supereroi portati sullo schermo negli ultimi anni, Batman detiene un piccolo record: è il supereroe portato al cinema più volte, ben undici tra il 1943 del serial cinematografico e il 2016 dell’ultimo “Batman v Superman”. Ogni regista che ha affrontato il personaggio lo ha riletto secondo la propria personale poetica, cosa che da un lato ha portato a grandi saghe (quelle di Burton e Nolan) e dall’altro non ha saputo evitare grossi tonfi (i Batman di Schumacher e di Snyder). Un piccolo saggiò che cercherà di ricostruire minuziosamente le tappe cinematografiche dell’uomo pipistrello.

DALLO SPAZIO SIDERALE DI “2001” AL ‘MEDIOCONSCIO’ DI “EYES WIDE SHUT”: I NAUFRAGHI DELCINEMA DI KUBRICK di Roberto Lasagna
il film postumo di Kubrick è una Odissea in quello che Schnitzler considerava il ‘medioconscio’ degli individui: l’ultimo film non completamente ri-finito del regista di “2001: Odissea nello spazio”, nel seguire imprevedibilmente la novella ‘Doppio sogno’ dello scrittore austriaco, si pone come un riepilogo del suo universo abitato dal caso e dalla reversibilità, tra approdi apparenti, derive inattese, maschere indossate con straniante disinvoltura da individui dall’identità divisa. La notte e il giorno di New York e di alcuni suoi naufraghi nel film che chiude il secolo passato e di cui conserva tracce perturbanti.

INTERNET: IL FUTURO È OGGI? A SNOWDEN LA RISPOSTA di Francesco Saverio Marzaduri
Dopo il documentario “Lo and Behold – Internet: il futuro è oggi” di Werner Herzog, arriva in sala “Snowden”: il ventiquattresimo lungometraggio di Oliver Stone s’incentra, come indica il titolo, sul tecnico informatico ex dipendente della CIA, responsabile della rivelazione di informazioni segrete governative su applicazioni d’intelligence, tra le quali il programma di intercettazioni telefoniche. Su tale discussa figura, l’opinione pubblica internazionale si è divisa: difensore dei diritti umani per alcuni, ambiguo delatore per altri.

IL MOSTRO DELLA BUONANOTTE NELLA FIABA AL CONTRARIO: “BABADOOK” di Giorgia Pizzirani
Fin da piccoli ci hanno letto le fiabe in cui l’eroe doveva sconfiggere il mostro cattivo… ma cosa fare quando quel mostro è dentro di noi? L’originale e malinconico “Babadook”, vincitore di 34 premi tra 2014 e 2015, si presenta come angosciante gioco a due voci dai contorni espressionisti in cui madre e figlio devono fare fronte comune contro lo stessa, misteriosa creatura che minaccia di mangiarseli vivi, e che non alberga certo sotto il letto del piccolo Samuel…

UNA FILMOGRAFIA TARGATA LD di Francesco Saverio Marzaduri
A cinque anni dalla scomparsa, il ricordo di un aspetto più insolito e meno frequentato di Lucio Dalla e della sua carriera: quello delle sue apparizioni cinematografiche, di persona o per procura.

VISSI D’ARTE, VISSI D’AMORE di Barbara Grassi
Alcuni temi riproposti dal film “The Artist” fungono da spunto per una parziale analisi delle pellicole italiane degli anni Dieci e Venti del Novecento: luoghi paralleli in cui il cliché socio-culturale e il pregiudizio storico concorrono alla costruzione e trasformazione della figura dell’artista in personaggio.

ANALIZZARE IL PILOTA DI THE YOUNG POPE di Davide Parpinel
Una serie televisiva nasce narrativamente alla prima puntata e finisce all’ultima. Ogni stagione di cui si compone ha un primo episodio, un inizio, un incipit denominato episodio pilota o più comunemente pilota. Questo ha delle proprie e specifiche caratteristiche stilistiche e di racconto finalizzate a presentare personaggi e storie. Se, però, una serie è creata da un regista cinematografico il quale decide anche di porsi dietro la macchina da presa di tutti gli episodi il pilota può assumere forme e modi di racconto differenti? Per rispondere a questo quesito è utile analizzare Paolo Sorrentino, creatore e regista dei dieci episodi di “The Young Pope”. Per narrare allo spettatore il senso e la storia della sua serie il regista partenopeo ha pensato a un pilota un po’ diverso dai canoni prestabiliti, meno rigido e più d’atmosfera che risulta, tuttavia, efficacie e funzionale a catturare l’attenzione dello spettatore e a fidelizzarlo alla visione dell’intera stagione.

NOTE SU UN’INTERVISTA A FLORESTANO VANCINI di Simonetta Savino
INTERVISTA A FLORESTANO VANCINI a cura di alcune studentesse del Liceo Classico “Ariosto” di Ferrara
Nel febbraio 2006 Florestano Vancini rilasciò un’intervista (forse una delle ultime) ad alcune studentesse del Liceo Ariosto di Ferrara, impegnate nell’approfondimento del rapporto tra l’opera di Giorgio Bassani e il cinema. Il regista, autore del film “La lunga notte del ’43”, tratto dall’omonimo racconto bassaniano, descrisse con generosità tutte le fasi di elaborazione della sceneggiatura, dilungandosi, con un chiaro intento didattico, anche su alcuni aspetti tecnici del linguaggio cinematografico. Al contempo affrontò il problema dei suoi rapporti con lo scrittore, da lui definiti sereni e collaborativi, e fornì molti interessanti elementi che, pur restando legati al tema della fedeltà alla ricostruzione storica, tanto caro alla critica, hanno consentito di spostare proficuamente l’orizzonte della ricerca verso quegli aspetti più strettamente linguistici, che determinarono l’eterno scontento di Bassani nei confronti dei film tratti dalle sue opere.

FILMMAKER ALLA RIBALTA: PIERANTONIO LEIDI di Paolo Micalizzi
Profilo di un autore FEDIC molto prolifico che racconta storie e documenta  avvenimenti del territorio bergamasco, soprattutto, tanto da far pensare che gira sempre con la telecamera a portata di mano.

CINECLUB CAGLIARI: SINERGIE CULTURALI ALL’INTERNO DI UNA RETE di Pio Bruno
Breve resoconto sulle ultime attività del Cineclub FEDIC di Cagliari svolte in collaborazione con altre associazioni cinematografiche, in particolare con “L’Alambicco” e “La Macchina Cinema” che hanno organizzato un’interessante rassegna sui rapporti tra cinema e letteratura nei film del regista Roberto Faenza, esempio di un percorso di condivisione di scelte culturali intrapreso dal Cineclub cagliaritano che punta decisamente alla partecipazione ad una rete di associazioni cinematografiche all’interno della quale operare scambi di idee, esperienze e materiali, nella prospettiva di incentivare il proprio contributo alla diffusione ed alla discussione critica della cultura cinematografica

A “PRIMO PIANO SUUL’AUTORE” L’ULTIMO OMAGGIO AL REGISTA PASQUALE SQUITIERI di Paolo Micalizzi
Resoconto sulla Rassegna diretta da Franco Mariotti  dedicata nel 2016 al regista Pasquale Squitieri con il titolo “Il piacere della libertà”.

TIGRI E BUOI DEI PAESI TUOI di Maria Pia Cinelli
Indian Film Festival mostra le varie anime di un grande paese da sempre diviso fra tradizione e innovazione, concedendosi pure un’incursione nell’epica salgariana di televisiva memoria.

SEMPRE PIU’ RICCO CORTINAMETRAGGIO DEDICATO AI GIOVANI TALENTI DEL CINEMA ITALIANO di Paolo Micalizzi
Un Festival dedicato al cortometraggio che di anno in anno rivela nuovi talenti del cinema italiano.

UNA TRE GIORNI DI CINEMA E CRITICA PER RICORDARE ADELIO FERRERO di Paolo Micalizzi
Tanti protagonisti  al “Premio” alessandrino, tra cui il regista Mimmo Calopresti, e il ricordo di Autori come Antonioni, Kubrick, Petri, Majano.

FERRARA FILM FESTIVAL di Maurizio Villani
Vincitori e protagonisti della seconda edizione del Ferrara Film Festival.

AMY BLUE EYES: “ARRIVAL” E “ANIMALI NOTTURNI” di Marco Incerti Zambelli
Due delle opere più interessanti uscite degli ultimi tempi, il fantascientifico filosofico “Arrival “ di Denis Villenueve e il noir esistenziale “Animali Notturni” di Tom Ford hanno come protagonista l’affascinate Amy Adams, che dimostra la sua raggiunta maturità di grande interprete.

“AUSTERLITZ” di Tullio Masoni
Dal romanzo con immagini di W.G Sebald, appunto intitolato Austerlitz – il nomignolo del protagonista/narratore – la rivisitazione “rassegnata” del museo di Sachsenhausen, un campo di sterminio nazista. Un museo come tutti gli altri? Il regista se lo chiede, osservando l’abitudinario costume dei turisti.

APPARTAMENTI: “AQUARIUS” E “IL CLIENTE” di Paolo Vecchi
“Il cliente” mette in luce le distorsioni di una società anchilosata, fatte proprie anche da chi è un intellettuale come il protagonista, con una sceneggiatura di implacabile coerenza e l’impiego di attori molto bravi e una regia un po’ ingessata, quasi timorosa di rischiare perdendo in rigore quello che potrebbe guadagnare in duttilità.
Imponente ritratto di una donna che si batte contro la speculazione edilizia e la corruzione, “Aquarius” finisce soprattutto per essere un omaggio, sentito ma non imbalsamatorio, a quella sorta di monumento che è stato e rimane Sonia Braga, autentica bête à cinéma che ha legato per quasi cinquant’anni le proprie fortune a quelle della cinematografia del proprio Paese.

GUERRA È SEMPRE di Marcello Cella
Un amaro ritorno a casa e una riflessione su ciò che ha lasciato la guerra in Bosnia dentro le persone che l’hanno vissuta, nel documentario “My own private war” di Lidija Zelovic .

THE SEVENTIES di Giancarlo Zappoli
Serie di 8 documentari prodotta da Tom Hanks e Gary Goetzman. Produzione: Playtone, CNN. In onda in Usa sulla CNN dall’11 giugno al 13 agosto 2015. In Italia su Sky Arte dal 31 gennaio 2017.

UN LIBRO DI PAOLO MICALIZZI SUGLI AUTORI FEDIC di Ettore Di Gennaro
Il nuovo libro di Paolo Micalizzi ripercorre la storia della FEDIC tracciando un percorso ragionato e contestualizzato del panorama autoriale della Federazione attraverso l’opera di 22 autori dagli anni ‘80 ad oggi. Cineamatori che sono diventati professionisti, che aspirano ad esserlo oppure selfmademan. Un libro che si può definire, necessario!

CINEMA E CINEASTI INDIPENDENTI

ABBAS KIAROSTAMI
di Marino Demata

Una breve premessa
Ci sono alcuni elementi cardine nella concezione del cinema di Kiarostami che sono ricorrenti e che rappresentano altrettanti tasselli che non mutano mai nella sua filmografia, perché rappresentano profondi convincimenti del suo fare cinema. A nostro giudizio il modo migliore per un approccio al cinema di Kiarostami consiste proprio nella individuazione di tali tasselli, paradigmi fondanti di una cinematografia ricca e vasta, capace di spaziare su più generi e più realtà. Ne abbiamo individuato fondamentalmente quattro: lo spettatore, l’attore, i bambini, l’abitacolo di un’auto. Approfondire queste quattro costanti del cinema di Kiarostami significa in buona misura entrare nei misteri del suo cinema e in buona parte trovare le chiavi per interpretarlo.

Lo spettatore
“Quando noi eravamo piccoli c’era una definizione di Dio che a me sembra che sia molto simile al cinema: esso è come Dio, non esiste. Quello che esiste è ciò che sta dentro la nostra mente. E’ cioè naturale che tutto dipende dalla mente dello spettatore. Il cinema di per sé non ha nessun valore, nessun significato. Il significato è ciò che resta in voi. Cioè dopo che avete visto un film, cosa ne volete fare? Potete buttare via alcune parti, aggiungerne altre, ecc.” . Si tratta di affermazioni espresse da Kiarostami nel corso di un’intervista di alcuni anni fa. Ma la data, come per la maggior parte delle affermazioni del regista sul cinema, non è molto importante, perché le sue concezioni sul cinema non son mai cambiate nella loro reale sostanza.
In quel passo nel quale Kiarostami paragona il cinema a Dio, nel senso che entrambi non esistono nella realtà oggettiva, ma sono solo nella nostra mente, egli ci offre una chiave interpretativa del suo cinema: lo spettatore. Il suo pensiero è che il cinema senza lo spettatore semplicemente non esiste, così come Dio, senza l’uomo che lo immagina, non esiste.
E altrove è ancora più esplicito sul rapporto film-spettatore e dice: “È vero che un film senza storia non ha molto successo presso il pubblico, ma bisogna anche sapere che una storia deve fornire indizi e alcune caselle vuote. Queste ultime, come nelle parole crociate, devono essere completate dallo spettatore. Chi guarda, come un detective privato in un intrigo poliziesco, dovrà trovare l’intreccio.”
Dunque, dai concetti che esprime emerge tutta l’importanza che egli attribuisce allo spettatore, come fruitore, interprete e (ri)creatore del film. E addirittura – e questo, date le premesse, non stupisce – lo spettatore diventa il protagonista al quale egli dedica un grande e singolare film: “Shirin” del 2008.

“Shirin”

Dire che è un film sperimentale, come detto da qualcuno è in verità riduttivo. E’ un film unico e straordinario. Kiarostami pone la sua macchina da presa di fronte alle poltrone di un cinema occupate da centoquattordici attrici (compresa Juliette Binoche già contrattualmente legata al regista col quale pochi mesi dopo lavorerà come protagonista del film “Copia conforme”). Sullo schermo si sta proiettando la storia narrata dal poema persiano Khosrow e Shirin di Nezami Ganjevi, che risale al XII secolo. Una storia d’amore tormentata e commovente di cui noi non vediamo nulla, perché la macchina da presa di Kiarostami resta sui volti del pubblico e quindi volge le spalle allo schermo. Noi leggiamo i sottotitoli, ascoltiamo le voci degli attori sullo schermo, sentiamo delle note musicali, ma individuiamo la drammaticità della storia solamente dalle reazioni del pubblico. E notiamo naturalmente anche la differenza delle reazioni: come ad esempio le parti più commoventi vengono recepite da alcune spettatrici con un senso di angoscia, da altre con commozione, da altre ancora con vero e proprio pianto.
Kiarostami ci vuole dire che ciascun spettatore vede e “fa” il suo film. Questo è il profondo significato di “Shirin”. Ma già nel 1995 aveva affermato: “Ogni individuo guardando un film crea il suo proprio mondo. Lo spettatore completa il suo film a partire dal nostro semi-film. Un centinaio di spettatori fabbricano il loro film nello stesso momento. Appartiene a loro e corrisponde al loro universo.”
E in una Master class proprio a proposito di “Shirin” afferma che in realtà la sala cinematografica ove siedono le 114 attrici/spettatrici non esiste, né esiste il film che esse guardano. “La verità è che, se vogliamo osservare le emozioni umane, il modo migliore è avere una camera fissa e un luogo unico. Il luogo può essere una sala cinematografica, un’auto, una cucina. Non ha nessuna importanza.”
Insomma “Shrin” è un film/saggio sulla natura dello spettatore e sulle diverse reazioni rispetto a quanto proiettato sullo schermo. Di cui noi, spettatori delle attrici/spettatrici, e quindi spettatori di secondo grado, non sappiamo molto di ciò che si proietta sullo schermo, se non dalla lettura delle didascalie, dalle voci e dai suoni. Perché ciò che interessa al regista in questo momento è solo cogliere le varie reazioni emotive del pubblico. E ogni spettatore vede e crea il suo film. Così come ogni uomo si raffigura il suo Dio in modo diverso.

L’attore.
Un’altra delle costanti di Kiarostami è la sua concezione dell’attore. E’ una concezione che si è andata formando fin dagli albori della sua attività di regista, allorché si trovò a lavorare con attori non professionisti, ma presi dalla strada e che spesso interpretavano le loro stesse occupazioni e i propri modi di vivere. Ma anche quando, successivamente, si è trovato a dover fare i conti con attori affermati, ha preteso una non-recitazione, uno sforzo perché essi si mostrassero come sono nella realtà, nella vita quotidiana.
Se prendiamo gli ultimi due film di Kiarostami questa particolare concezione sul ruolo dell’attore potrà apparire molto più chiara.
In “Copia conforme” del 2010 il regista porta avanti in un certo senso un esperimento: mette insieme un’attrice di grande esperienza e bravura assieme ad un non-attore, tale William Shimell. Alla fine del film Kiarostami si chiede chi abbia lavorato meglio nel film. Nessuno potrebbe affermare che William Shimell era per la prima volta davanti ad una macchina da presa!

“Copia conforme”

E nel suo ultimo capolavoro, “Qualcuno da amare”(2012), girato in Giappone, Kairostami ha dovuto superare innanzitutto difficoltà linguistiche perché nessuno degli attori, né degli altri membri della troupe, parlava una parola di inglese. Per inciso questa mancanza di comunicazione si trasformò poi in una grande solitudine per il regista.
Ma parlare con gli attori non significa comunque dire tutto ad essi. In particolare Kiarostami utilizza con gli attori una particolarissima tecnica (se così la vogliamo definire), che è quella di non svelare l’intera sceneggiatura fin dall’inizio. E’ un tipo di stile nel rapporto con gli attori al quale Kiarostami crede moltissimo. Fa parte in certo senso del suo naturalismo cinematografico. Egli infatti dice: “anche nella vita noi non sappiamo cosa può accaderci domani.” Così anche l’attore non sa la storia da lui interpretata dove andrà a parare. Quindi, egli spiega proprio a proposito di “Qualcuno da amare”, “non voglio che i miei attori sappiano sin dall’inizio cosa accadrà ai loro personaggi. Altrimenti potrebbero essere condizionati nella loro recitazione e nella naturalezza del loro vivere davanti alla macchina da presa. “ La verità per Kiarostami è che bisogna lasciare l’attore libero e senza condizionamenti come nella vita reale.
E proprio per questo suo ultimo film, Qualcuno da amare” Kiarostami si è trovato di fronte al problema iniziale della scelta degli attori, non essendosi formato preliminarmente delle idee in merito. E proprio sulla base della sua concezione dell’attore si è trovato in una difficoltà in particolare per chi scegliere per la parte del professore ottantenne. Ha provato prima a verificare se andava bene uno degli attori professionisti giapponesi, ma la cosa non è andata bene. Questo perché tutti gli attori anziani professionisti erano abituati a “recitare”. E noi sappiamo che per l’intero cinema di Kiarostami la recitazione non è cosa positiva. Lui ha sempre avuto bisogno della naturalezza. Chi ha recitato per cinquant’anni, chi è abituato alla recitazione, non può avere quell’espressione naturale, che è stata sempre una precipua caratteristica dei personaggi di Kiarostami.
Come ha risolto il problema? Ha rinunciato a ricercare il protagonista tra gli attori più importanti del Giappone e lo ha scelto tra le…comparse. Kiarostami stesso ci racconta che il prescelto ha dichiarato di aver fatto sempre, per cinquant’anni , la comparsa, e di non aver mai detto una battuta in un film e quindi inizialmente si reputava non in grado di interpretare tale film. Ma il regista riuscì a convincerlo e a spronarlo ad essere sempre se stesso senza preoccuparsi di altro. I risultati dettero ragione al regista, che aveva scelto l’attore giusto, proprio perché aveva scelto un non-attore, nel solco di una costante del suo cinema, che è quella di non avere grandi nomi, né attori di consumata esperienza per le parti da lui immaginate, ma persone che riproducano il mondo reale ed il modo col quale le persone reali si rapportano al mondo stesso.
Questo dunque è il ruolo dell’attore secondo Kiarostami: una concezione alla quale non ha mai abdicato e che è stato uno degli ingredienti per far diventare tanti suoi film dei veri capolavori.

“Qualcuno da amare”

I bambini.
Far lavorare i bambini presi dalla strada e porli per la prima (e spesso unica) volta davanti alla macchina da presa può dopotutto per Kiarostami rientrare nella concezione dell’attore di cui abbiamo parlato sopra, che deve essere non-professionista, non deve recitare, ma deve innanzitutto essere naturale e spontaneo. E chi se non un bambino risponde a queste caratteristiche, che sono poi esigenze del cinema di Kiarostami?
Eppure il discorso sui bambini ha una serie di specificità che vanno necessariamente messe in chiaro risalto. Innanzitutto perché Kiarostami ha iniziato a fare cinema proprio con i bambini e poi è ritornato in moltissime occasioni sul mondo dell’infanzia. E’ stato inoltre per un periodo incaricato di dirigere film didattici dall’iraniano “Institute for the Intellectual Development of Children and Young Adults”. E tale incarico gli ha fornito ulteriore materiale di approfondimento del mondo infantile.
Riflessione e approfondimento che sono già occasionati dai primissimi “film-corti”. Ne “Il pane e il vicolo” troviamo un bambino che non riesce a proseguire la sua strada verso casa, perché un cane minaccioso gli ringhia di fronte. Resta immobile per molto tempo. Nel frattempo passano davanti a lui (e al cane) alcune persone, ma nessuno si prende cura delle sue paure e dei suoi timori. Egli capisce che dovrà industriarsi e trovare da sé la soluzione: getta un pezzo di pane all’animale, che immediatamente si placa e scorta il bambino fino a casa. Il film si conclude con una scena simile a quella iniziale: un altro bambino si sente minacciato dallo stesso cane. Ma quello che emerge in realtà, al di là della semplicità della storia, è l’estraneità del mondo degli adulti rispetto ai bisogni, alla richiesta di aiuto e di comprensione del mondo infantile. Il piccolo film ci fa vedere plasticamente che gli adulti non sono interessati ai bambini, non ci sono! Questo tema, dei due mondi, dei bambini e degli adulti, come mondi non comunicanti sarà una costante critica del cinema di Kiarostami sull’infanzia.
Nel piccolo film successivo, “La ricreazione”, Kiarostami si sofferma su una delle caratteristiche fondamentali dell’infanzia, il desiderio come motore di ogni storia e come tema narrativo. Il desiderio del piccolo protagonista è quello di partecipare ad una partita di calcio giocata dai suoi compagni e alla quale è stato escluso per punizione dal suo maestro.
Il desiderio diventa poi idea fissa e ossessione quando, in “L’esperienza”, trova la forma di passione amorosa. Una passione non corrisposta e che pure sorregge e conferisce dignità al personaggio maschile del piccolo film.
Il desiderio che si vuole a tutti i costi realizzare e la passione, in questo caso per il calcio, sono gli assi portanti anche del primo lungometraggio di Kiarostami, “Il viaggiatore”. Ghassam, svogliato a scuola, alla quale arriva spesso in ritardo e per questo diviene oggetto di punizioni da parte del maestro, è felice solo di trascorrere ore giocando a pallone con i suoi amici in un campetto improvvisato in un cortile, e coltiva in realtà un unico grande desiderio: andare a Teheran per assistere ad una importante partita. Fa di tutto per realizzare questo desiderio, vendendo le cose più impensate, perfino le porte del campetto e improvvisandosi fotografo ambulante, disposto a fare foto a tutti, purchè a pagamento, con una macchina fotografica sgangherata e per giunta senza rullino. Messi su i soldi necessari, riesce all’alba a prendere la corriera per Teheran, ove arriva tre ore prima della partita. Nell’attesa, vinto dalla stanchezza, decide di riposare su un prato vicino allo stadio. Si sveglierà quando la partita è ormai già finita!
Con questo film registriamo un notevole salto qualitativo rispetto ai film precedenti e non solo perché la dimensione del lungometraggio consente di imbastire una storia con mille sfaccettature, pur raccontata con un linguaggio sempre essenziale, ma soprattutto perché il personaggio del bambino ribelle alla scuola, alla famiglia, alle stesse regole non scritte del sodalizio coi suoi compagni è ricco di connotazioni psicologiche. Kiarostami non si limita a descrivere i fatti, ma offre allo spettatore alcune chiavi di lettura perché i fatti stessi possano essere interpretati e spiegati. E con questa ricchezza di notazioni Ghassam è un parente neppure tanto lontano del quasi coetaneo Antoine Doinel dei “I 400 colpi” di Francois Truffaut. In più siamo in presenza di un vero grande film, perché le ostinazioni, le “prodezze”, le trasgressioni di Ghassam non sono mai solo descritte, ma sono sempre accompagnate da una sorta di ghigno ironico, che trova il suo culmine nella scena finale, col risveglio del bambino a partita finita.
E veniamo ai tre capolavori sul mondo dell’infanzia che costituiscono una trilogia non programmata in anticipo, ma, come vedremo, risultante dallo svolgersi degli eventi.
Il primo film è “Dov’è la casa del mio amico” (1987), forse uno dei film più influenzato dal cinema neorealista italiano, perfino nella tecnica del “pedinamento” e soprattutto nell’impianto e nello svolgimento stesso della storia.

Come spesso succede con i film sull’infanzia, si parte da una scena all’interno di una scuola e con uno spaccato del rapporto autoritario tra maestro e scolaro. Il primo rimprovera aspramente uno degli alunni, Mohamed, di non aver fatto i compiti sul suo quaderno, ma su un foglio volante e minaccia che se la cosa dovesse capitare ancora la sanzione sarebbe l’espulsione dalla scuola. Il suo compagno, Ahmad, tornato a casa, si accorge di aver per sbaglio portato con sé il quaderno dell’amico, mettendolo così nell’impossibilità di fare i compiti. Decide allora di uscire dal chiuso universo della casa, del cortile, della strada e della sua famiglia, altrettante prigioni con regole che Ahmad non riesce a capire, per andare alla ricerca della casa di Mohamed. Con la tipica ingenuità infantile accompagnata da grande ottimismo e fiducia, si mette in cammino per riportare al compagno di classe il quaderno, pur non conoscendo il luogo ove si trova la casa dell’amico e ricordando a stento il nome del Paese. Non riuscirà nel suo intento: quasi si sperderà nella strade tortuose e a zigzag, nei cortili tutti uguali, nelle case prive di ogni punto di riferimento. Ahamd chiede continuamente aiuto ai “grandi”, ma ognuno è indaffarato con le proprie occupazioni e non ha tempo né voglia di andare incontro alle problematiche del bambino. Ahamd alla fine getterà la spugna: tornerà a casa e farà lui i compiti sul quaderno dell’amico e lo riconsegnerà l’indomani a scuola.
Proprio come il primo film corto, quello del cane che sbarra la strada al bambino, anche in questo film emerge in tutta la sua forza e importanza la tematica del rapporto generazionale tra mondo adulto e mondo infantile. E’un tipo di rapporto che Kiarostami trova profondamente sbagliato, di assoluta estraneità. All’adulto non interessano i problemi dell’infanzia, che considera di poco conto, a tal punto che essi non devono distoglierlo dalle proprie occupazioni, produttive o meno. Questo tipo di rapporto quasi non conosce eccezioni e costituisce una modalità di vita standardizzata. Abbiamo già notato infatti che le modalità di questo rapporto sono simili in tutte le situazioni. E questo significa che si tratta di un fatto culturale e sociale profondamente radicato. Gli unici adulti che si interessano ai bambini sono gli insegnanti, perché si tratta del loro lavoro. Ma il rapporto è del tutto autoritario e spesso violento. Il film denunzia proprio questo oscillare dall’autoritarismo dei maestri di scuola alla totale indifferenza del resto del mondo adulto, che in nessun caso vorrà impegnarsi al problema denunziato da Ahamd. Come abbiamo visto il film termina con un messaggio di solidarietà: la soluzione sarà trovata proprio all’interno del mondo infantile. Il che è dimostrazione che in una società che non è fatta per i bambini, dovranno essere proprio questi a vedersela da soli e ad emanciparsi.
Pochi anni dopo, proprio nella zona dove era stato girato questo film, si abbatté un tremendo terremoto che fece cinquantamila morti. Nel 1990 Kiarostami, spinto anche autenticamente dal desiderio di constatare se i giovanissimi interpreti del suo film fossero salvi, costruisce un film in bilico tra realtà e finzione. “E la vita continua…” è la storia di un regista che ritorna nei luoghi devastati dal terremoto alla ricerca appunto degli interpreti del film precedente. Affida ad un attore la parte del regista, lo mette alla guida di un’auto, gli affianca un bambino nella parte del figlio, anche al fine di popolare quel microcosmo che è l’auto, metafora del suo cinema. Il film vive di un continuo passaggio tra la finzione che si consuma nell’abitacolo della macchina e la pesante realtà che sta all’esterno, fatta di devastazione, di morte, di tentativi di salvare vite umane, di richieste disperate di soccorso. Eppure nel film, in tanta desolante devastazione, il regista e suo figlio sono attratti dagli sforzi di alcuni ragazzi di rimettere a posto l’antenna televisiva per poter vedere di lì a qualche giorno i campionati del mondo.
E’ un film in certo senso unico, come unici sono molti film di Kiarostami e sperimentale, come possono esser definite gran parte delle sue opere. Kiarostami non ci dice se i bambini del film “Dov’è la casa del mio amico” sono ancora in vita. E dopo tutto non è questa la cosa più importante. Qui è invece fondamentale il discorso che il regista fa passare sulla funzione del cinema, sulla sua ambiguità di fondo che ne costituisce una delle sue risorse e ricchezze, che nella fattispecie è l’ambiguità e lo scarto tra la finzione e la pesante realtà che sta di fronte ad essa, vista con attento sguardo documentaristico, ma a sua volta anche con la presenza di personaggi inventati o improvvisati sul posto. Il film ottenne il premio Rossellini al Festival di Cannes.
Infine l’ultimo film di questa improvvisata trilogia è “Sotto gli ulivi” del 1994, che ci riporta, quattro anni dopo l’ultimo film, nel medesimo scenario. Le devastazioni del terremoto sono ancora presenti, ma si notano anche i segni di una stentata e dolorosa ricostruzione. Perché la vita continua, sembra voler ripetere il regista. Il quale prova a dare continuità a quel mix di realtà e finzione che aveva caratterizzato il suo film precedente e ritorna a girare un film su un film. E Kiarostami si inventa la storia di un giovane attore che sta interpretando la parte di un regista che torna nello stesso villaggio ove aveva girato in precedenza un film, per una operazione di casting, e cioè per scovare due giovani attori cui affidare la parte di protagonisti del suo nuovo film. Li trova in Hossein e nella giovane Tahereh. Nella vita reale il primo è innamorato (non corrisposto) della seconda. E nel film da girare Hossein deve proprio interpretare la parte dell’innamorato. I due giovanissimi attori simboleggiano la crescita dei bambini dei precedenti film, in un contesto di ambiguità tra realtà e finzione, tra vita e cinema, che ancora una volta parlano la stessa lingua. E così, tra un ciak e l’altro, tra sguardi perduti nella realtà del set, tra battute sbagliate e ripetute, Hossein finalmente deve dire la sua battuta più importante del film e della sua stessa vita: dichiarare il suo amore per Tahereh e chiederle la mano. Ma rimarrà questa una battuta che nel copione non prevede risposta. Alla fine al povero innamorato non resterà che seguire la sua amata nell’uliveto in un ultimo estremo tentativo. Le due figure si allontanano sempre di più dal punto di osservazione iniziale e lo spettatore potrà accorgersi solo che la ragazza dice qualcosa nell’orecchio del suo spasimante. Non sarà dato sapere di cosa si tratti. Il senso di ambiguità che pervade tutto il cinema di Kiarostami, che è poi senso di ambiguità della vita stessa, prevale ancora una volta. Allo spettatore, come al solito, il compito di riempire il vuoto e dare/scoprire un senso alle ultime sussurrate parole dei due protagonisti.

L’abitacolo di un’auto
Potrà sembrare veramente singolare per i nostri lettori il porre “l’abitacolo di un’auto” tra le caratteristiche fondanti del cinema di Kiarostami, accanto al “pubblico”, ai “bambini”, e al “ruolo dell’attore”. Eppure, se possibile, si tratta forse della caratteristica più costante del suo cinema. I discorsi o i colloqui più decisivi, le svolte improvvise delle sue storie, i momenti dialettici più drammatici, avvengono tutti nell’abitacolo di un’auto. Su questa caratteristica, che ha incuriosito molto i critici, Kiarostami è intervenuto spesso.
Intanto ha dichiarato di aver sperimentato nella sua vita privata l’importanza di stare in auto come luogo privilegiato di riflessione sui propri problemi: “un giorno mi sono accorto che passavo in macchina non solo una grande quantità di tempo, ma dei momenti particolarmente importanti. La mia vita interiore è molto più intensa quando viaggio in macchina che non quando sono a casa. Lì, preso da mille occupazioni, non riesco mai a trovare un attimo di raccoglimento. Così lavoro soprattutto al volante della mia auto: la mia macchina è il mio ufficio. Non conosco modo migliore di quello per guardare e per riflettere.” (cit. in Marco Della Nave: “Abbas Kiarostami” – ed. Il Castoro, pag.12). Altrove afferma che l’auto non è solo un mezzo di locomozione, ma un ambiente intimo e raccolto, un piccola casa con una grande finestra davanti dove però il panorama cambia continuamente.
Il cinema dunque, per Kiarostami, non può lasciarsi sfuggire l’occasione di utilizzare questo luogo privilegiato e raccolto per ambientare momenti intensi e decisivi. Perché” viaggiare in macchina, l’uno di fianco all’altra, è la condizione più propizia per l’instaurarsi di un clima di distensione e di intimità reciproca tra due persone…E’ la situazione ideale per dialogare…Se è il caso, possiamo guardare l’altro in faccia, se no abbiamo il diritto di non doverlo fare per forza…” (ibidem).
Dalla teoria alla pratica: per quanto strano può sembrare, le parti più decisive e dirimenti delle storie narrate da Kiarostami avvengono nell’abitacolo di una macchina!
Come per dimostrare l’importanza del pubblico Kiarostami girò il film “Shirin”, di cui abbiamo parlato sopra, interamente girato con la macchina da presa rivolta al pubblico femminile e alle sue reazioni, così, anche sull’importanza dell’auto, il regista gira un film in certo senso esemplare: “Ten”. Come dice il titolo stesso, si tratta di dieci scene tutte girate all’interno di un’auto, nella quale la guidatrice, la brava Mania Akbari, unica presenza fissa, viene ritratta in altrettante conversazioni con le più disparate persone, da suo figlio, a una donna con un particolare modo di pregare, a una vedova, a una prostituta e così via. Il film, in cui Kiarostami vuole essenzialmente ritrarre la vita e i suoi problemi spiati attraverso il parabrezza di un’auto, è ricco di momenti di autentica improvvisazione. E’ stato girato con due camere digitali fisse rivolte rispettivamente alla guidatrice e al passeggero di turno.
In una “masterclass” dal titolo significativo, “Dieci su dieci”, Kiarostami esplicita il suo pensiero sull’importanza dell’auto per il cinema e afferma che “’Ten’ ha costituito una grande opportunità, quella di usare una camera fissa in una sorta di stanza in movimento come un’auto.” E confessa senza mezzi termini che l’abitacolo di un’auto “is my favorite location”: due sedili molto confortevoli e un dialogo intimo tra due persone, che seggono l’una accanto all’altra piuttosto che essere uno di fronte all’altro. “In questa posizione – aggiunge – i personaggi possono interagire insieme, possono guardarsi oppure farne a meno. Possono guardare avanti oppure dare uno sguardo all’altro quando si attende una risposta o una reazione. Questa situazione crea un senso di sicurezza e di atmosfera intima e privata”, nella quale possiamo ottenere prestazioni semplici e naturali da attori professionisti e non professionisti.
Tutta la critica ha colto la novità della lezione di Kiarostami sull’importanza dei “pezzi” di vita che si svolgono all’interno dell’abitacolo di un’auto e non a caso “Ten”, interamente dedicato a questo, è stato giudicato da Empire tra i migliori 100 film tra tutti quelli prodotti al mondo, mentre la celebre rivista Cahiers du cinéma colloca “Ten” al decimo posto tra tutti i film prodotti nella decade 2000-2009.
D’altra parte Kiarostami è così convinto di tale assunto che nel suo film più celebre, “Il sapore della ciliegia”, Palma d’Oro a Cannes 1997, la sequenza più importante, il monologo sul suicidio e il colloquio che ne consegue, si svolge appunto nell’abitacolo di un’auto.

“Il sapore della ciliegia”

Alla periferia di Teheran un uomo vaga con la sua auto. Ha deciso di suicidarsi, ha anche scavato la fossa ove il suo corpo dovrà essere collocato. Cerca un altro uomo che possa aiutarlo nel compiere il suo gesto e poi riempire la fossa. Le prime due persone alle quali si rivolge rifiutano di collaborare, la terza, un uomo anziano, accetta, ma nel corso del tragitto in auto racconta una storia molto significativa: anch’egli un tempo ha avuto lo stesso desiderio di uccidersi. Il lungo e bellissimo monologo arriva al punto più significativo allorchè l’occasionale viaggiatore rivolge alcune domande al guidatore/suicida: “L’acqua fresca di un torrente non la vuoi più bere? Vuoi rinunciare al sapore della ciliegia? Non rinunciare!”
Alte vette raggiunte dal cinema, o, se si vuole, cinema-poesia.
Eppure se riflettiamo sulla storia del cinema, non possiamo non ricordare che in questa grande importanza che Kiarostami conferisce all’abitacolo di un’auto come location ideale per rappresentare gli snodi più essenziali delle sue storie, egli ha un precedente illustre: chi non ricorda il viaggio in auto tra Stoccolma e Lund, occasione per il professore Isak Borg di fare un amaro bilancio della propria vita e per sua nuora Marianne occasione di tristi considerazioni sul suo matrimonio? Parliamo naturalmente de “Il posto delle fragole” di Ingmar Bergman. E, come in un gioco di scatole cinesi, Marianne a sua volta racconta al suocero di un altro decisivo colloquio in auto con suo marito Evald. Un ennesimo litigio ove si scontrano due concezioni diverse della vita. Insomma due decisive sequenze intrecciate tra di loro e collegate dal ricordo, che hanno una medesima location: l’abitacolo di una macchina! Non c’è chi non veda che l’iniziale colloquio nell’auto tra suocero e nuora, assieme agli altri che vengono evocati, costituiscono gli snodi essenziali dell’intera storia narrata nel capolavoro di Ingmar Bergman.
Questo motivo ritorna sempre e non ne sono esenti neanche i due ultimi film di Kiarostami, quelli girati, come vedremo più sotto, fuori dall’Iran: “Copia Conforme”, girato in Toscana e “Qualcuno da amare”, incursione nella realtà del Giappone moderno. Nel primo film si svolge in auto il breve tragitto dei due protagonisti tra Arezzo e Lucignano, ove si scambiano pensieri significativi, ma soprattutto è la natura,, sotto forma di cipressi ai due lati della strada, che sembra fare irruzione nell’abitacolo della macchina, sotto forma di riflessi provocati dal sole. Riflessi che si rincorrono in un gioco di ombre e di specchi funzionale all’assunto che il film vuole mettere in luce che la realtà è ambigua nel suo continuo sdoppiarsi nel vero e nella sua copia conforme.
Nel secondo film invece tutta la parte centrale si svolge nell’abitacolo dell’auto del professore che cerca di avere una chiarificazione col fidanzato della sua occasionale compagna, e poi con la ragazza stessa, senza peraltro venire a capo di una situazione positiva, dato l’intreccio dei rapporti che si è determinato.

Conclusioni: Un nuovo ciclo di film bruscamente interrotto
Nel 2009 Kiarostami decide che è arrivato il momento di allargare i propri orizzonti. L’Iran, col quale il suo cinema ha a lungo convissuto, con qualche ostacolo e incomprensione, comincia ad andargli stretto per le storie che ha in programma di raccontare, alcune delle quali, egli scommette, non piacerebbero alle autorità di laggiù. Decide pertanto che d’ora in poi, salvo successive eccezioni, i suo film saranno prodotti, girati e ambientati lontano dal suo Paese di origine. Kiarostami negli anni ha costruito un saldo rapporto con produttori e cineasti francesi e Parigi è senza dubbio la sua città di adozione, pur non tradendo il suo profondo amore per l’Iran, teatro dei suoi film più belli, che lo hanno consacrato come un dei più interessanti registi contemporanei.
In questo quadro, e maturate queste riflessioni, decide nel 2009 di ambientare in Toscana il film “Copia conforme”, che è un film nel quale ricalca tematiche già affrontate in passato, ma con alcune variabili veramente pregevoli che fanno del film un piccolo gioiello. Kiarostami si avvale di un solo attore professionista, Juliette Binoche, nella parte di Elle, che già gli aveva prestato il suo volto e le sue lacrime per il film esclusivamente dedicato al pubblico “Shirin”, di cui abbiamo già parlato sopra. Il resto del cast, compreso il protagonista maschile, James, , è alla prima prova assoluta davanti alla macchina da presa. Lei ha un negozio di antiquariato ad Arezzo e lui è uno studioso inglese impegnato nella stessa Arezzo per una conferenza.

Per Elle è una sorta di colpo di fulmine. Con una gita improvvisata i due si portano a Lucignano, seggono in un bar per prendere un caffè, ma James deve uscire fuori perché chiamato al telefono. La proprietaria del bar allora parla con Elle dell’uomo appena uscito a telefonare, come se fosse suo marito. Elle sta al gioco, comunica poi il tutto a James, che a sua volta comincia ad interpretare la parte del marito. Anche una volta fuori dal bar, i due continuano ad interpretare i nuovi ruoli assegnati: sono una coppia sposata da 15 anni e sono ritornati sul luogo del loro matrimonio e vogliono visitare quella camera dove hanno trascorso la loro prima notte di nozze.
Come sempre Kiarostami ci conduce per mano in un labirinto di ambiguità, avendo ben presente che la stessa ambiguità è la vera essenza del cinema. D’altra parte il film, fin dal suo titolo, “Copia conforme”, allude all’ambiguità di ogni oggetto che si ritiene originale, ma che alla fine si scopre essere una copia.
Spesso le copie di opere d’arte sono così perfette da essere confuse con l’originale. Altre volte sono perfino più belle dell’originale. E così è per la coppia che esce dal bar a Lucignano continuando ad interpretare ruoli improvvisati. Si tratta di una copia così perfetta, da sembrare originale. Tanto da trarre in inganno lo stesso spettatore, disorientato dal passaggio della coppia, senza soluzione di continuità, da una palese estraneità reciproca ad una consuetudine addirittura quindicennale. Consuetudine quest’ultima che non toglie l’estraneità, ma anzi la accentua sotto le forme di un matrimonio in via di esaurimento.
Pochi mesi dopo questa felicissima esperienza in Toscana, Kiarostami si porta in Giappone per trovare a Tokyo le location per un film che questa volta intende girare lì. Il film vedrà la luce solo nel 2013, dopo una gestazione lunga e una lavorazione faticosa soprattutto per le difficoltà linguistiche trovate sul set, ove nessuno parlava inglese e dove solo con grandi sforzi il regista è riuscito a trovare un modus vivendi per comunicare con gli attori. “Qualcuno da amare” (titolo come sempre orrendamente falsificato dalla distribuzione nel nostro Paese che non si sa perché si arroga il diritto di mutare i titoli dei film assegnati dai propri creatori), che in realtà nella bella versione originale è “Like Someone in Love”, e cioè il titolo della vecchia canzone di Frank Sinatra nella colonna sonora del film. Nulla è a caso in Kiarostami: il titolo della canzone (e il suo testo) e quindi il titolo del film sono perfettamente aderenti alla trama del film stesso, ove il vecchio professore che fa venire a casa sua una giovanissima prostituta a “mezzo servizio” solo per avere qualcuno con cui conversare e per interrompere la propria pesante solitudine, si comporta con affetto e disinteressata attenzione verso la giovane ragazza, proprio “come qualcuno che ama”.
E’ un film sull’ambiguità dei rapporti umani. Ritornano infatti qui alcuni temi cari all’Autore: la difficoltà e l’ambiguità del rapporto tra le persone, soprattutto se sono coinvolte in una qualche forma di sentimento. L’ambiguità rappresenta una delle costanti più salde del cinema di Kiarostami. Quell’ambiguità che in “Copia conforme” porta un uomo e una donna, che si conoscono da pochissimo, a fingere di essere sposati da quindici anni e a giocare con tale finzione fino al punto che lo spettatore comincerà a porsi degli interrogativi se per caso non sia poi vero che in realtà i due si conoscono effettivamente da 15 anni.
D’altra parte il cinema, il vero cinema, è proprio ambiguità, quell’ambiguità che, secondo Kiarostami, dà allo spettatore non un ruolo passivo di pura ricezione, ma un ruolo attivo: è lo spettatore che deve entrare diritto nell’ambiguità, pensare e dare la propria soluzione.
Kiarostami intendeva proseguire questa nuova fase di cinema fuori dall’Iran e in certo senso sperimentare nuove forme, senza però stravolgere i connotati essenziali della sua concezione. Aveva in programma un film in Puglia, di cui ci ha parlato in una delle sue ultime interviste. Era stato laggiù e aveva trovato ambienti e gente perfettamente aderenti alla storia che avrebbe voluto raccontare. E contemporaneamente, sempre in aderenza al suo infaticabile modo di lavorare, stava preparando un successivo film che avrebbe girato in Cina.
Purtroppo qualche mese fa la morte ha privato il cinema di nuovi probabili gioielli, dei quali ci è rimasta solo una grandissima curiosità che non potrà mai più essere appagata.
E’ una perdita grave per il cinema. Potremmo trovare mille argomentazioni a sostegno di tale affermazione. Ma probabilmente nessuno riesce a darci il senso autentico di tale perdita più di un altro grande regista, dal carattere solitamente scorbutico e poco socievole, Jean-Luc Godard, che si è espresso così: “Il cinema è iniziato con Griffith ed è finito con Kiarostami”.

L’UOMO PIPISTRELLO E IL CINEMA
ANATOMIA (FILMICA) DI UN SUPEREROE SENZA POTERI
a cura di Riccardo Poma

Christian Bale nei panni di Batman nella trilogia di Christopher Nolan

Batman nasce nel 1939 dalla penna di Bob Kane e Bill Finger. Inizialmente noto come The Bat-Man, è il secondo supereroe creato da DC Comics dopo Superman. I due personaggi hanno davvero molto poco in comune: un alieno che si veste da essere umano e un essere umano che si veste da mostro, il primo dotato di forza e poteri sovrumani (divini?), il secondo in grado di contare soltanto sulla propria forza di volontà e su capacità fisiche maturate in seguito ad un duro allenamento. I superpoteri possono essere genetici (Superman, Thor) o acquisiti in seguito a un evento esterno (Spider-Man, Capitan America), ma è chiaro che sono l’elemento imprescindibile affinché un semplice eroe possa essere considerato un SUPEReroe. Batman è probabilmente l’unico supereroe ad esserne totalmente sprovvisto. Così come l’incidente, l’evento che porterà il piccolo Bruce Wayne, una volta adulto, a diventare Batman, non è qualcosa che sconvolge il suo fisico, ma qualcosa che sconvolge la sua psiche, il suo carattere. Un evento non straordinario e assolutamente credibile, nessun ragno geneticamente modificato, nessun esperimento governativo, bensì l’omicidio dei genitori da parte di un malvivente. Anche il modo di porsi rispetto all’evento è differente da quello degli altri supereroi. Peter Parker non ha scelto di diventare l’Uomo Ragno: ci si è ritrovato. Ha dovuto scegliere se usare il suo potere per servire il bene o se usarlo per servire il male, ma non ha potuto scegliere chi o cosa essere. La scelta di Batman avviene PRIMA di ottenere le doti che lo renderanno Batman: prima la scelta (combattere il male), poi l’acquisizione volontaria del potere/dote (necessari per lo scopo). Tutto ciò che Batman ha ottenuto è esclusivamente frutto della sua volontà, dello studio, della fatica. L’uomo pipistrello è l’unico supereroe a scegliere di diventare un supereroe. Tutti gli altri lo sono già, devono solo capire se nella storia saranno i buoni oppure i cattivi. Batman è il potere dell’uomo, non degli dei; è il trionfo della scienza e dell’applicazione, non della magia; è un manifesto alla fatica, all’abnegazione, alla forza di un’idea. Batman ci piace perché rimane, pur promosso a supereroe, un personaggio profondamente umano che possiede i difetti e le debolezze (fisiche e psicologiche) che appartengono a tutti noi, esseri non infallibili e molto poco super. L’uomo pipistrello non è soltanto l’eroe portato al cinema con maggiore continuità (il “buco” più grande è di appena una ventina d’anni, dal 1966 del Batman di Martinson al 1989 del Batman di Burton), è anche quello filmato coi toni più diversi. Tante variazioni sul tema che vale la pena raccontare nel dettaglio.

1943 – 1949
Il serial cinematografico

La prima apparizione su grande schermo di Batman avviene in un serial cinematografico di 15 episodi, proiettati nella sale statunitense a partire del 1943 con cadenza mensile. Si tratta, in pratica, di un film di quattro ore spezzettato in piccoli episodi della durata di una ventina di minuti. Nonostante un livello qualitativo non particolarmente eccelso (colpa anche del budget piuttosto ridotto), l’operazione ebbe un discreto successo e fece dei misconosciuti Lewis Wilson (Batman) e Douglas Croft (Robin) due star. Dando continuità alla svolta “legalitaria” voluta da Kane (all’inizio l’eroe era più simile ad un semplice vigilante, un outlaw hero che non si faceva alcuno scrupolo ad uccidere a sangue freddo i malviventi), Batman e Robin diventano due simpatici agenti governativi sempre pronti ad eseguire gli ordini di Mamma America. Il villain è il perfido Dr. Daka, chiara personificazione del nemico giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale. Un prodotto di propaganda bello e buono che, tuttavia, ha il merito di introdurre alcuni elementi tipici del Bat-cinema a venire: la Bat-mobile, la Bat-caverna, un Alfred magro, anziano e baffuto (interpretato da William Austin, molto diverso da quello fumettistico basso e tarchiato) sul quale saranno modellati tutti gli Alfred futuri. Nel 1949, a guerra finita, esce un nuovo serial in 15 episodi questa volta interpretato da Robert Lowery e Johnny Duncan. Il nemico è Wizard, un cattivo incappucciato dall’identità misteriosa. Dall’improponibile maschera di Batman, che si adatta malissimo al volto dell’attore, alla Mercury nera che sostituisce la Bat-mobile, il ridicolo involontario regna su tutto. L’alone misterioso e maledetto del Batman di Kane è oramai soltanto un ricordo, e si fa davvero fatica a pensare che tra i due personaggi ci sia un qualche legame. Tuttavia, i passaggi televisivi degli anni ’60 ottennero un successo tale da spingere l’ABC a mettere in cantiere la celeberrima serie camp con Adam West e Burt Ward.

1966
La serie TV e il film di Leslie Martinson

Trasmessa dal 1966 al 1968 per un totale di tre stagioni e 120 episodi, la serie TV prodotta da ABC si avvaleva di un cast (all’epoca) d’eccezione: oltre ad Adam West (Batman) e Burt Ward (Robin), li comparivano tra gli altri Cesar Romero (il Joker), Burgess Meredith (il Pinguino), Julie Newmar (la donna gatto), Frank Gorshin (l’enigmista). Il notevole successo della serie spinse ABC a produrre, tra la prima e la seconda stagione, un lungometraggio per il cinema con la regia di Leslie Martinson. Eccezion fatta per la durata, il film è la copia a carta carbone di un qualunque episodio della serie: si sbandiera la derivazione fumettistica (celebri le onomatopee che appaiono, vignettate, in sovrimpressione), si enfatizzano gli elementi farseschi e parodici, si immergono le vicende di Batman in uno stralunato stile “camp” fatto di umorismo nonsense, dialoghi surreali, colori pop, colonna sonora beat. Tolti i nomi dei personaggi ed alcune loro caratteristiche manca totalmente qualsiasi legame con l’opera di Kane e Finger. Nessuna riflessione sulla società violenta e priva di valori, nessun discorso sull’identità: quello di Martinson è un Batman ottimista e sempre allegro, immerso in un mondo pieno di colori e costumi sgargianti decisamente lontani dalle atmosfere noir del fumetto. Questo cambio di rotta comporta che anche Gotham City si trasformi radicalmente: dall’oscura metropoli dei fumetti, calderone dei peggiori vizi umani, si passa ad una ridente cittadina pulita e vivibile che racchiude i più nobili valori della società americana. Ecco perché, nonostante alcune trovate che in quegli anni potevano apparire quasi “progressiste” (Batman si dice contento del fatto che i membri delle Nazioni unite, dopo l’attentato ordito dai quattro cattivi, si ritrovino a parlare una lingua non propria: forse così smetteranno di litigare), rimane un film figlio della guerra fredda. Ecco come viviamo qui in America, ecco ciò che il nemico vuole portarci via.

Burt Ward (Robin) e Adam West (Batman) nel film del 1966

Lo stesso ruolo di Batman e Robin rispetto all’ordine costituito è emblematico: non più quello di outlaw heroes, tollerati dalle autorità in nome dei loro successi contro la criminalità ma pur sempre “battitori liberi”, bensì quello di official heroes ben voluti da cittadini, polizia e istituzioni, più simili a degli agenti in costume piuttosto che a dei supereroi. In virtù di questa svolta legalitaria, il pipistrello cambia addirittura le proprie abitudini: cessa di uscire la notte e di celarsi nel buio e prende ad uscire quasi solamente di giorno, in modo da far conoscere anche allo spettatore la bellezza di questa Gotham così ben amministrata, fiore all’occhiello di un’intera società. Dai baffi di Romero ben visibili sotto il cerone (l’attore rifiutò di radersi) agli imbarazzanti gadget di Batman (celebre il “Bat-repellente per squali”), dagli imbarazzanti dialoghi alla totale assenza di qualsivoglia logica narrativa, non è facile capire come il film sia divenuto un piccolo cult del cinema di serie B. Un’operazione per certi versi spassosa ma oramai lontana anni luce dalle tavole di Kane e Finger, che dovranno attendere il 1989 del Batman di Tim Burton per ottenere una adeguata – e di certo più fedele – trasposizione cinematografica.

1989 – 1992
I Batman di Tim Burton

Sul finire degli anni ’70 la Warner Bros acquistò i diritti del personaggio e si mise al lavoro per progettare e realizzare una nuova serie di film sulla figura dell’uomo pipistrello. La regia del primo adattamento fu affidata a Tim Burton, ai tempi non particolarmente conosciuto ma apprezzato per il suo lavoro di animatore alla Disney e per un piccolo film che aveva conquistato il grande pubblico qualche tempo prima, “Beetlejuice – Spiritello Porcello”. Burton torna alle atmosfere noir del fumetto e concepisce una Gotham City fumosa e dark che mescola design anni ’40 e tecnologia steampunk, una megalopoli gotica e verticale ispirata in maniera piuttosto esplicita alla Metropolis di Lang e intrisa di miasmi e criminalità, pioggia battente e corruzione imperante. Scelta azzeccata perché, nonostante guardi al passato dell’eroe, nasconde riflessioni decisamente attuali: questa Gotham è lo specchio deformato di una serie di problemi molto reali, come ad esempio l’aumento della criminalità riscontrato nelle grandi città americane tra il 1975 e i primi anni ’90 o l’esistenza, nelle gerarchie sociali, di colpe organiche non attribuibili ad un nemico esterno ma alla società stessa (in fin dei conti la Guerra Fredda stava giungendo al termine proprio in quegli anni). Ovvero, il sogno americano che cresceva rigoglioso nel film di Martinson sembra essere oggi totalmente appassito. E infatti il film è quasi tutto ambientato di notte, con rarissime tappe diurne nelle quali tuttavia il sole non esiste, oscurato da un’asfissiante cappa di nuvole plumbee e smog. Anche il fatto che il film faccia riferimento a Corto Maltese, immaginario stato del Sudamerica inventato da Frank Miller nel suo The Dark Knight Returns, è significativo a livello politico: l’evento è ricalcato sui molti interventi militari americani che la storia ha giudicato decisamente illegittimi, dalla baia dei porci all’intervento militare a Grenada, passando ovviamente per la guerra in Vietnam (a Corto Maltese gli Stati Uniti supportano il governo dittatoriale, i sovietici i ribelli). Il riferimento è fugace, ma il semplice fatto che Burton e il suo sceneggiatore Sam Hamm abbiano comunque voluto inserirlo è emblematico per comprendere il forte sottotesto politico del film.

Michael Keaton in “Batman” di Tim Burton

Decisamente interessante è anche il lavoro che Burton compie sui due personaggi principali. Al di là dell’affascinante trovata narrativa di base – Batman crea il Joker buttandolo nell’acido non sapendo che il Joker, uccidendo i suoi genitori, creò lui – essi si distinguono per un notevole valore simbolico. Partiamo dal Joker di Nicholson. Meno folle e più aristocratico del suo epigono cartaceo, il più noto dei nemici del pipistrello diventa qui una sorta di aberrazione del mafioso tipico ed è raccontato come un bambinone viziato che si diverte a sfregiare e spaccare tutto. Ma non si tratta solo di questo. Nel definirsi un artista dell’omicidio, il Joker si fa metafora dell’arte odierna. Prendiamo la scena in cui rovina le opere del museo di Gotham. Spesso citata come una delle più geniali e beffarde rappresentazioni del concetto di iconoclastia, la sequenza racconta in realtà un periodo artistico piuttosto preciso: il Joker è l’arte in un periodo in cui tutto è arte e tutti sono artisti (quindi non lo è nessuno?), in cui basta mettere in discussione il passato per essere considerati qualcuno. Il problema è che si scaglia contro il culto delle immagini ma ne ricrea immediatamente di nuove col proprio stile fatto di nulla. Di fatto, cancella un culto e lo sostituisce con un altro, il suo: ecco i quindici minuti di celebrità professati da Warhol, in cui anche chi non ha una sola idea originale può definirsi un artista e finire in televisione col solo merito di aver rotto con il passato. Anche gli omicidi che perpetra – dall’ex capo Grissom a un gangster che rifiutava di eseguire i suoi ordini – non sono altro che una demagogica rivalsa atta a sottolineare che il vecchio è una schifezza e il nuovo è grande, indipendentemente dal fatto che sia davvero così o meno. Proprio come un certo tipo di arte degli ultimi anni.

Passiamo a Batman/Bruce Wayne. A partire dalla scelta dell’attore, Burton va controcorrente rispetto ai clichè sui supereroi. Michael Keaton non è di certo un sex symbol, non è particolarmente prestante a livello fisico e possiede una corporatura tutto sommato mingherlina, lontana dalla strabordante fisicità muscolare del personaggio vista nei fumetti di Kane. Una scelta che fa di questo Batman un eroe particolarmente umano, imperfetto a mai davvero infallibile ma contraddistinto da una forza di volontà tale da sopperire a qualunque (apparente) mancanza fisica. A Burton non interessa quanto sia cool essere Batman: il suo scopo è quello di chiedersi COSA, a livello caratteriale, psicologico, sociale, comporti esserlo. Il Batman di Burton è un uomo che ha scelto di convivere con la propria solitudine (non può mai davvero essere sincero con nessuno), chiuso in se stesso e incapace di relazionarsi col prossimo in maniera genuina. Un tormento che viene nascosto sotto l’eccentrica mondanità di Bruce Wayne, tanto celebre quanto irrimediabilmente fasulla. La vera maschera è questa, non quella di Batman: l’essenza di Wayne – bisogno di giustizia, tendenza alla solitudine, incomunicabilità – è molto più vicina a Batman che allo stesso Wayne, o meglio, al Wayne che la gente pretende di conoscere. Questo supereroe tormentato, raccontato come un uomo “normale” con i suoi dubbi e le sue nevrosi irrisolte (non ha mai superato il trauma della morte dei genitori), fece breccia nel cuore degli spettatori e, inconsapevolmente, gettò le basi per molti futuri personaggi del cinema di Burton, da Edward mani di forbici a Willy Wonka. Uomini in qualche modo “diversi” (per scelta, per questioni genetiche, per scelte altrui) costretti da quella diversità a vivere in solitudine, lontani dai propri simili. Anche a livello psicologico il film convince: Wayne si veste da Batman per esorcizzare la paura che a qualcun altro capiti ciò che è accaduto a lui, una missione che pesa come un macigno sulla sua vita privata ma che ben riflette il suo spasmodico desiderio di giustizia.

“Batman – Il ritorno”, uscito nel 1992, si rivela da subito molto più vicino al precedente “Edward mani di forbici” piuttosto che al primo capitolo del franchise. Gotham rimane una metropoli verticale fumosa e piena di miasmi, ma il registro noir è raffreddato da un’atmosfera fiabesca e surreale, spesso spruzzata dalla neve e perennemente cullata dalle sonorità oniriche composte dal fido Danny Elfman (straordinario il prologo che racconta le origini del Pinguino). I mostri si rivelano più umani degli esseri umani, gli esseri umani danno sfogo a tutta la loro mostruosità. Nonostante il vero cattivo del film sia il Pinguino mutante di DeVito, infatti, l’unico villain esulato dalla pietà del regista è il malvagio imprenditore Max Shrek (“orco”), che si diletta a giocare al Papà Natale di Gotham ma sotto sotto progetta di costruire centrali tossiche che metteranno a repentaglio la salute dei cittadini. Si veda il modo in cui Burton mette in scena la morte dei due personaggi: Shrek viene fulminato da una vendicativa Catwoman e il suo cadavere ci viene mostrato carbonizzato e in un’atroce espressione di dolore; il Pinguino invece, una volta accasciatosi a terra, è raccolto dai pinguini che, come in un solenne corteo funebre, lo accompagnano verso le acque delle fogne in cui è cresciuto. Una scena particolarmente poetica che racconta le due diverse facce del male: c’è chi ne è vittima inconsapevole (il Pinguino, abbandonato nelle fogne perché diverso e cresciuto dai pinguini come uno di loro) e c’è chi invece ha scelto consapevolmente di perpetrarlo (Shrek, imprenditore che si è fatto da solo e che non conosce scrupoli). Batman è umano come Shrek, ma mostra maggiore affinità con il Pinguino e Catwoman. Tutti e tre sono costretti ad indossare una maschera, tutti e tre sono contraddistinti da una notevole insicurezza che li ha portati ad essere ciò che non sono: Catwoman è una donna fragile che si veste da femme fatale per ottenere dagli uomini il rispetto che non ha mai avuto; il Pinguino è un essere animalesco che si veste da gentiluomo per tentare di conquistare Gotham (il fatto che scelga di farlo entrando in politica è emblematico); Batman è un uomo insicuro e solitario che fa ai criminali ciò che loro fecero a lui, ovvero li fa morire di paura. Burton riflette così sui concetti di identità e diversità, ma anche sulle paure dell’infanzia (la gang del Pinguino è formata da clown cattivi) e, più in generale, sulle paure della società di oggi. Sia a livello visivo che a livello tematico, dunque, questo “Batman – Il ritorno” si rivela un film burtoniano al 100 %, molto più di quanto lo fosse il primo capitolo (anche perché nel 1989 il regista aveva dovuto lavorare su uno script praticamente terminato). La cosa interessante è che, nonostante questo punto di vista così esplicitamente personale, lo spirito del personaggio è mantenuto e rispettato. Probabilmente per la prima volta.

1995 – 1997
Morte di un eroe

Tre anni dopo il successo di “Batman – Il ritorno” esce il terzo film della saga, prodotto da Burton ma diretto da Joel Schumacher. “Batman Forever” ottiene un buon successo, ma il cambio di rotta voluto dalla Warner Bros lascia sbigottiti molti fan del supereroe: le atmosfere fiabesche e gli echi noir della Gotham City di Burton sono del tutto aboliti e sostituiti da scenografie posticce ed estremamente kitsch che mescolano la New York degli anni ’30 con i neon della Tokyo odierna; lo stile diventa smaccatamente post-moderno, con inquadrature sghembe, macchina da presa mossa a schiaffo, colori saturati; Batman è decisamente meno tormentato e più sicuro di sé (al posto di Keaton arriva un roccioso Val Kilmer) e così l’introspezione è soffocata dall’azione forsennata. L’errore maggiore fu probabilmente quello di voler girare un film molto simile a un fumetto, scelta poco felice se non altro per la grande diversità dei due mezzi in questione. E così i fondali dipinti lasciano il posto ad una terrificante computer grafica, la sceneggiatura arranca senza soluzioni di continuità o pretese di verosimiglianza, Tommy Lee Jones (Due facce) e Jim Carrey (l’Enigmista) recitano così tanto sopra le righe da rendersi presto insopportabili. Nonostante Batman e la dottoressa Chase Meridian snocciolino continuamente saggi di psicologia teorica e applicata (sic), i personaggi sono assolutamente privi di spessore. Il film accenna fugacemente un discorso sui media – l’Enigmista vuole conquistare Gotham succhiando cervelli attraverso la televisione – ma alla fine la vera chiave di lettura del film è extrafilmica ed assolutamente non consapevole: “Batman Forever” è lo specchio di un certo tipo di intrattenimento fracassone e sopra le righe che si avvicina alla pubblicità piuttosto che al cinema, al videogame piuttosto che al fumetto. Ovvero, l’esasperazione stilistica per compensare un tragico vuoto di idee. Roger Ebert scrisse che il film non era altro che “gomma da masticare per gli occhi”. Mai commento fu più azzeccato: si può anche provare ad apprezzarlo, ma presto il sapore svanisce e allora tanto vale gettarlo via.

George Clooney e Chris O’Donnell in “Batman e Robin”

Proprio quando i fan cominciarono a convincersi che più in basso di così non si sarebbe potuti cadere, la Warner Bros assestò la stoccata finale girando il quarto capitolo della saga, ancora diretto da Schumacher. “Batman e Robin” non è considerato soltanto il più brutto film della serie, bensì anche uno dei peggiori film tratti dai fumetti mai realizzati in tutta la storia del cinema. Tutto ciò che pareva esasperato nel primo film viene esasperato ulteriormente. Se possibile, questo è ancora più cartoon, ancora più giocattolone, ancora più post-moderno a livello visivo (non c’è una sola inquadratura dritta!); si accentuano gli elementi parodici e farseschi (cosa che rende il film più vicino alla serie camp degli anni ’60 piuttosto che ai primi due capitoli di Burton), si trasforma Gotham in una megalopoli di teutonica pesantezza piena di statue bronzee giganti che reggono gli edifici. Il personaggio di Bane, nei fumetti (e nel film di Nolan) dotato di una fine mente criminale, viene trasformato in uno stupidone muscoloso, in bocca a Mr. Freeze appaiono tremende battutine da commedia di costume, mentre Clooney fa il solito Clooney e sfoggia con sferzante senso del ridicolo una serie di gadget improponibili, dalla Bat-mobile spider al Bat-flessibile, passando per un costume dotato di Bat-capezzoli che fa rabbrividire anche gli amanti del trash. Non solo: dopo una serie di azzeccate frecciate politiche, viste soprattutto nei due film di Burton, qui ecologisti e ambientalisti fanno la figura degli idioti, rivelando un’incoerenza di fondo che fa spavento. Come può spiegarsi una disfatta così epocale? La colpa fu probabilmente della stessa Warner Bros, che non solo puntò tutto sul merchandising infischiandosene della qualità, bensì addirittura coinvolse le aziende produttrici di gadget e di giocattoli nella lavorazione del film. Secondo Chris O’Donnell, interprete di Robin, a stare sul set “si aveva la sensazione di essere in una enorme pubblicità di giocattoli”. Una dichiarazione che conferma proprio questa teoria. “Batman e Robin” affossò definitivamente il franchise, che sarebbe stato ripreso da capo soltanto nel 2005 (quando uscì “Batman Begins” di Nolan). Tuttavia, è emblematico notare come anche questo film sia un fedele specchio dei tempi in cui fu concepito: da un lato racconta l’avvicinamento del cinema alle logiche, visive e strutturali, dei videogame (siamo nel periodo d’oro delle console), dall’altro sottolinea che l’emblema del boom economico della seconda metà degli anni ’90, in cui ci si convince di poter vivere di capitalismo sfrenato per sempre (credenza disintegrata appena dieci anni dopo, con la crisi economica), è forse proprio l’espansione trasversale della pubblicità, che entra in ogni ambito e in ogni anfratto delle nostre vite. Come la televisione qualche anno prima, anche il cinema diventa quindi pubblicità: uno spot per vendere qualcosa di ben preciso. Sia esso un concetto, un ideale. O, come in questo caso, un giocattolo.

2005 – 2008 – 2012
Cronache dall’11 settembre. Il Batman di Christopher Nolan

Nel 2005 la Warner Bros annuncia il primo film di una nuova trilogia sull’uomo pipistrello interamente diretta dal regista Christopher Nolan e interpetata da Christian Bale (Bruce Wayne), Morgan Freeman (Lucius Fox), Michael Caine (Alfred). Cancellato qualsiasi riferimento alle atmosfere grottesche del dittico di Schumacher, ma anche a quelle fiabesche ed oniriche di Burton, Nolan concepisce una Gotham City moderna ed assolutamente realistica molto vicina alla New York odierna. I villains, eccezion fatta per Rasalghul, non sono supercattivi romantici e sovrumani ma semplici cattivi: Falcone è un mafioso come tanti, mentre il colpevole dell’omicidio dei Wayne (che nei film di Burton era nientemeno che il Joker), è soltanto un piccolo rapinatore di mezza tacca che aggredisce la gente per fame e finisce vittima di un ingranaggio criminale (e sociale) decisamente più grande di lui. Scelte emblematiche che rivelano il tema latente (e molto attuale) di questo film, quello della paura raccontata nelle sue molte facce: Batman utilizza la paura per combattere il crimine (“voglio volgere la paura contro coloro che la usano per depredare”, dice Wayne); Ra’s Al Ghul, ex maestro di Batman, vuole far crollare Gotham attraverso la paura (il suo piano prevede una tossina che instilla il terrore nel cervello umano); il gangster Falcone detiene il potere attraverso la paura (“potrei spararti ora”, dice a Wayne, “e nessuno farebbe nulla: questo è il potere della paura”). Anche le scelte “teatrali” di Batman sono legate alla paura: Ra’s Al Ghul dice a Wayne che se vorrà combattere il crimine dovrà essere qualcosa di più di un semplice uomo per i criminali, ed ecco spiegate tutte quelle scelte “scenografiche” che sembravano inconciliabili col realismo di Nolan e che, così motivate, si rivelano assolutamente coerenti con la poetica del regista. Molti elementi – dal modo di agire di Ra’s Al Ghul ad alcune frasi particolarmente forti (emblematica una di quelle professate dallo spaventapasseri: “l’unica cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa”) rivelano il riferimento alla più grande paura del nuovo millennio, quella del terrorismo. Un discorso che viene ripreso e ampliato nel capitolo successivo della trilogia, “Il cavaliere oscuro”. Nolan rilegge il lato reazionario del personaggio – la famiglia Wayne è una famiglia di tradizione democratica, e per rispettare quella tradizione Bruce deve capire la differenza tra giustizia e vendetta – e riesce a fare della vera psicologia sul suo carattere: Batman teme la SUA collera, non quella degli altri, teme di diventare identico a coloro che combatte.

Christian Bale ne “Il cavaliere oscuro”

Per analizzare – e capire – il secondo film della trilogia, è necessario soffermarsi sul cattivo. Il Joker di Heath Ledger (morto poco dopo la fine delle riprese) è un agente del caos che evoca le paure del terrorismo: egli rappresenta un male indefinito e folle che non riusciamo a codificare, a capire. Il primo film raccontava la paura, questo si chiede di cosa dobbiamo avere paura. Proprio come i terroristi, Joker attacca gli ospedali, i mezzi di trasporto, ed è assolutamente lucido nel dare sfogo alla propria follia. In questo Batman post-11 settembre il nemico è – per dirla con l’Alfred di Caine – uno “cui basta veder bruciare il mondo”. Dunque, come puoi combattere qualcuno che non vuole nulla che non sia distruzione totale? Non vi sono risposte, non vi sono certezze, anche perché Batman è l’eroe che Gotham merita, non quello di cui ha bisogno: l’unico modo di uscire dalla paura è rinunciare agli outlaw hero come Batman e affidarsi agli official hero come il procuratore Harvey Dent (Aaron Eckhart), poco importa se alla fine il primo salva la situazione e il secondo rischia di farla precipitare impazzendo. Servono eroi cristallini, positivi, servono eroi imbevuti di legalità e chiarezza. Batman, così oscuro e misterioso, non potrà mai essere un eroe simile. Dent, figlio delle istituzioni, deve ricostruire la fiducia nello stato e mostrare alla gente che le cose si possono cambiare attraverso la democrazia. Per vederla con l’iconografia del western, il mondo ora ha bisogno di Wyatt Earp piuttosto che di Doc Holliday. Poco importa se questo porterà ad un finale per nulla lieto, anch’esso specchio di questi tempi in cui di lieto sembra non esserci più nulla. Ma il film si interroga su molti argomenti “attuali”: è giusto dare al popolo menzogne se queste servono a far trionfare il bene? È giusto lasciarci controllare in ogni momento con la scusa della sicurezza? Lucius, alla fine, spia controvoglia un’intera città. Lui lo fa a fin di bene, ma se a farlo è un criminale? Se un mezzo può essere utilizzato in maniera negativa, è comunque giusto mantenerlo attivo? Nolan si riavvicina a Burton nel modo in cui concepisce l’essere Batman: è di nuovo una fatica, una maledizione, un qualcosa che porta dolore e sofferenza (la morte di Rachel). Ma di cui Wayne non può proprio fare a meno.

Heath Ledger ne “Il cavaliere oscuro”

Il primo film era uno studio sulla paura, il secondo si chiedeva DI COSA dobbiamo avere paura. Il terzo ed ultimo film della trilogia racconta DOVE può portarci questa paura. Bane, interpretato da Tom Hardy, è un terrorista che sfrutta le paure odierne – del terrorismo, ma anche della crisi economica – per ottenere il potere. Si fa strada che l’effetto più pericoloso della paura sia il populismo: nel mettere a ferro e fuoco Gotham, Bane dice ai suoi cittadini che gli sta restituendo il potere da troppi anni rimasto nelle mani dei politici cattivi. Ovvero, li convince di essere migliori di coloro che li governano. Nolan inserisce nel film molti riferimenti ai rischi delle tante cosiddette primavere, in cui spesso dittatori nuovi sostituiscono dittatori vecchi, ma riflette anche sulle svolte populiste di molti paesi europei e non (l’America dovrà attendere qualche anno, ma con l’elezione di Donald Trump – che nel suo discorso d’insegnamento citerà proprio una frase di Bane – anch’essa finirà vittima di tutto questo). Anche Wall Street viene spostata a Gotham: una licenza necessaria per raccontare che Bane conquista la fiducia del popolo (o comunque di una fetta di esso) professandosi un novello Robin Hood che ruba ai ricchi per dare a tutti gli altri. “Arriverà una tempesta”, dice Selina a Bruce, patteggiando per Bane, “come avete potuto vivere così alla grande, lasciando così poco a tutti gli altri?”. Gli scopi sono nobili, i modi sono barbari e di nuovo molto simili a quelli del terrorismo (gli uomini di Bane sono disposti a morire per la “causa” senza fare una piega). Nolan concepisce una serie di scene davvero impattanti, sia a livello prettamente filmico che simbolico. Si pensi a quella dello stadio: mentre un bambino canta l’inno americano, vediamo Bane attraversare i cunicoli dello stadio; terminato l’inno il campo di gioco implode, Bane prende un microfono, uccide in diretta l’unico uomo che poteva disinnescare la bomba atomica e poi, sorridendo, dice agli abitanti di Gotham che ora sono nelle sue mani. Ecco la perfetta rappresentazione della nuova morte del sogno americano. Il luogo: lo stadio in cui si gioca una partita di football, sport americano per eccellenza, simbolo dell’intratteninemto USA ma, più in generale, dell’american way of life. I modi: quelli di un terrorista senza scrupoli che però sa benissimo come vendere il proprio prodotto (la paura), perfettamente a suo agio con un microfono in mano e assolutamente consapevole del bisogno di spettacolarizzare le proprie azioni (avete presente l’ISIS?). Altra scena notevole è quella del processo tenuto dai criminali con imputati poliziotti, politici, membri delle istituzioni: vi si racconta un altro rischio del populismo, quello di dare poteri fondanti della democrazia in mano ad individui che non hanno alcuno strumento per poter amministrare quei poteri nel modo più consono e oggettivo. Chiaramente nel film di Nolan il concetto è portato all’estremo, ma quanti partiti populisti professano il giorno del giudizio in cui gli onesti cittadini arrabbiati potranno finalmente processare la “casta”? Un’ultima sequenza che vale la pena raccontare è sicuramente quella della battaglia finale tra poliziotti e criminali. Una battaglia decisamente “proletaria”, un corpo a corpo senza armi in cui anche Batman e Bane combattono sferrandosi calci e pugni. Solitamente, nei film sui supereroi (e non solo), eroe e cattivo si affrontano su un livello “altro” rispetto ai personaggi “non super”: sul tetto di un palazzo, volando, in una vecchia fabbrica, al porto, su una nave, ecc. Batman e Bane, generali di due eserciti contrapposti, combattono invece a fianco delle loro truppe senza che vi sia alcuna distinzione tra loro e i loro compagni di battaglia. È la prima volta che accade nella storia del cinema sui supereroi, e infatti si è in qualche modo straniti dinnanzi alla particolarità di questa battaglia finale così umana, così primordiale. Nolan non nasconde la speranza – il film termina con un elogio alla polizia e con un “risolleviamoci dopo la tragedia” che ricorda i tentativi di rinascita post 11 settembre – ma il suo Batman rimane il più cupo della storia, anche perché il momento in cui è stato concepito – quello in cui viviamo – è probabilmente uno dei più cupi della storia.

Un tono che si riflette anche sul personaggio di Batman: la vita di Bruce Wayne è sempre più grama, tra il rimorso per aver perso Rachel nel film precedente e la constatazione di dover portare un costume che pesa come un fardello. Il finale però è all’insegna della positività, con Batman che, ricordando il primo incontro tra lui e Gordon, svela al commissario la propria identità: “eroe è anche un semplice poliziotto che mette la sua giacca sulle spalle di un bambino cui hanno appena ucciso i genitori”. Ecco la tesi ultima – e forse più significativa – della trilogia di Nolan. Batman non è che un simbolo, ed è proprio di un simbolo positivo che abbiamo bisogno ora più che mai. Batman è Bruce Wayne, è Gordon, è Alfred, è Fox, è i poliziotti che sfidano l’omertà e tornano a lottare, è chiunque cerchi di fare dignitosamente il proprio dovere nonostante tutto. Interessante anche il lavoro che Nolan compie sui personaggi secondari, mai come in questa trilogia così approfonditi e raccontati nelle loro peculiarità. Si pensi all’Alfred di Michael Caine, diverso da tutti gli altri perché non si limita ad essere la coscienza buona di Wayne, bensì è una figura che agisce, sbaglia, chiede scusa (ad esempio, quando nasconde a Wayne l’ultima lettera di Rachel in cui quest’ultima rivelava di aver scelto Dent). O all’agente di polizia interpretato da Joseph Gordon-Lewitt, vero e proprio simbolo della circolarità della vita (quanti altri Wayne ci saranno o ci sono stati?). Insomma, dopo la mediocre parentesi di Schumacher, Nolan ha saputo rivitalizzare il pipistrello inserendolo in un mondo incredibilmente attuale. E dimostrando ancora una volta la lungimiranza e le infinite chiavi di lettura cui può essere sottoposto il personaggio di Kane.

2016
Nuove vie (?)

“Batman v Superman – Dawn of Justice”, diretto da Zack Snyder e prodotto da Nolan, arriva in sala nel marzo del 2016. La vicinanza con la fortunata trilogia nolaniana – appena quattro anni dal terzo capitolo – è probabilmente dovuta al fatto che la Warner voleva tenere alto l’entusiasmo per un personaggio non nuovo a improvvisi crolli di popolarità (dagli anni ’60 al 1989 del Batman di Burton il personaggio rischiò spesso di finire nel dimenticatoio). La scelta di Snyder ha fatto storcere il naso a molti: a differenza di Burton e Nolan, il regista di “Watchmen” ha spesso diviso il grande pubblico a causa di uno stile compiaciuto e sovreccitato che può facilmente non piacere. Tuttavia Snyder aveva appena diretto “L’uomo d’acciaio”, reboot sul personaggio di Superman che, nonostante le detrazioni della critica, aveva ottenuto un notevole successo di pubblico. Questo “Batman v Superman”, lontanamente ispirato ai fumetti di Frank Miller e interpretato da Bel Affleck (Bruce Wayne) e Henry Cavill (Clark Kent), è stato massacrato in sede critica e poco apprezzato dal pubblico e dai fan del fumetto. Sorvolando sullo stile del regista, che può piacere o meno e appartiene quindi alla sfera della soggettività, il film si fa notare in negativo per l’inconsistenza di una sceneggiatura che, oltre a non riuscire a concepire una sola trovata originale, si diletta a tradire spudoratamente il personaggio: il Batman di Affleck non è solo vendicativo ed arrogante, è anche decisamente stupido nell’attribuire a Superman colpe non sue, e il suo odio viscerale verso l’uomo d’acciaio snatura un personaggio che è per antonomasia umile, riflessivo, clemente, molto intelligente. Snyder non riesce a dare spessore ai personaggi (l’Alfred di Irons è il peggiore mai apparso su uno schermo), e spesso il film scivola nel ridicolo (Batman e Superman smettono di lottare perché scoprono che…le loro mamme si chiamano uguali!).

Ben Affleck in “Batman v. Superman”

Anche la geografia del mondo dei supereroi è totalmente arbitraria: da quando Gotham City e Metropolis si trovano ad un chilometro di distanza? Questo incredibile passo falso rivela che DC non riesce ad inventarsi una linea coerente e condivisa che diventi un marchio di fabbrica. Cosa che invece ha fatto – molto bene – la Marvel: i registi dei film possono metterci del loro, ma c’è un fil rouge che attraversa TUTTI i film che appartegono alla casa e a cui nessuno – registi, sceneggiatori, attori – può sottrarsi. DC dimostra di essere ancora molto lontana dalla creazione di uno stile riconoscibile. Le cose vanno molto bene soltanto nel momento in cui il regista scelto per la trasposizione è un grande regista (Burton, Nolan). Quando il prescelto è uno Schumacher o uno Snyder, tutto precipita rumorosamente verso il basso. E una casa di produzione che vuole fare concorrenza alla più grande azienda di intrattenimento del mondo (Marvel Studios è una proprietà Disney) non si può permettere tonfi simili.

SAGGI

DALLO SPAZIO SIDERALE DI 2001 AL “MEDIOCONSCIO” DI EYES WIDE SHUT: I NAUFRAGHI ESISTENZIALI DEL CINEMA DI KUBRICK
di Roberto Lasagna

In Schnitzler, come in Kubrick, la crisi dei protagonisti si modula secondo una griglia esperienziale di turbamenti paralleli, tanto speculare da giustificare in pieno il titolo di “Dopplenovelle” (“Doppia novella”) che, ancora nel 1924, lo scrittore voleva dare al racconto (G. Farese, Nota su “Doppio sogno”, in A. Schnitzler, Doppio sogno, Adelphi Edizioni, Milano, 1977; terza edizione, Milano, 1999). L’avvio, nel film come nel libro, precisa con pochi tratti situazioni e personaggi, pervenendo al culmine della maestria narrativa. La bambina sorpresa dal sonno mentre legge una fiaba, il sorriso affettuoso dei genitori, l’ingresso della governante che accompagna a letto la piccola, Fridolin e Albertine, finalmente soli, sotto il chiarore morbido della lampada: una tranquilla famiglia borghese nella Vienna di Schnitzler. Il Valzer dalla Suite per Orchestra Jazz di Dmitrij Šostakovič sui titoli di testa, Bill che cerca il suo portafogli e lo trova nella stanza da bagno dove la moglie Alice è intenta ad asciugarsi le parti intime, i coniugi mentre attraversano le stanze e si preparano a lasciare la loro casa non prima di aver salutato la figlia prossima ad andare a letto con l’aiuto della baby-sitter: una rappresentazione post-moderna dell’alta borghesia americana nella New York di fine secolo di Kubrick. Nel racconto come nel film, dietro la facciata che inganna, la realtà è un enigmatico serbatoio di aggressività, di angosce, di desideri repressi che, una volta liberati, coinvolgeranno i personaggi in una successione di avventure reali, fantastiche e sognate, costringendoli a percorrere le fasi della loro crisi alla ricerca affannosa di una tregua che corrisponda a un nuovo, per quanto momentaneo, grado di consapevolezza. In Kubrick, Schnitzler diviene un tracciato di senso minuziosamente rispettato e opportunamente reinterpretato. La scrittura schnitzleriana viene assorbita in Kubrick in quel che di irriducibilmente simbolico essa possiede, e viene modulata dalla scrittura musicale complessa del film, il cui sviluppo, come già in “Barry Lyndon”, obbedisce a ritmi compositivi precisi cadenzati su scelte figurative allineate nella tessitura semantica di un’opera autosignificante. A più riprese è stato notato che il film si propone come una summa d’autore. Sarebbe legittimo proporre differenti elementi a sostegno di questa interpretazione. In Kubrick, artificio e realtà collimano e confluiscono in una visione immaginativa, dove l’ambiguità feconda origina dalla priorità riposta nell’elemento visuale. Nell’opera del regista l’ambiguità apparente è nella ricerca delle inquietanti opposizioni che cogliamo nel Settecento lyndoniano, contraddizioni che l’epoca raffigurata nel film del 1975 cerca di sciogliere o risolvere al suono della logica, fornendo così sempre nuove contraddizioni al vivere sociale. L’ambiguità apparente è nel ritratto di una civiltà sobillata dalle immagini, che cerca antidoti contro la proliferazione delle alterazioni psico-sociali indotte dalle immagini violente adottando metodi violenti identici o peggiori di quelli osteggiati (“Arancia meccanica”), fornendo così sempre nuove contraddizioni nella compagine civile e nella gestione politica del presente. L’ambiguità apparente è nel ritratto di una società in cui le superpotenze si dichiarano guerra noncuranti della disfatta globale che prefigurano e perseguono (“Il dottor Stranamore…”), fornendo così la formula stessa della contraddizione, che porrà fine ai nostri giorni. L’ambiguità apparente è nella rappresentazione di una scena in cui il nemico ha gli stessi volti del protagonista (“Fear and Desire”), o non ha nessun volto (“Eyes Wide Shut”), in una sintesi di fantasmagoria e crudeltà che sconcerta per la scomoda portata allusiva, dove la maschera nasconde il doppio spettrale, rimosso e inavvertito come tale. Ma questa ambiguità apparente, per definizione, appare in Kubrick come un tentativo, costante e via via più raffinato, di disambiguazione.

“Eyes Wide Shut”

 

Dietro le maschere rituali e archetipiche di “Eyes Wide Shut” è allora legittimo poter scorgere un universo di rimandi, volti della penombra cui il regista non offre identità certe, perché il discorso, come sempre nell’opera dell’autore americano, volge tanto all’universale quanto all’individuale. Ognuno può proiettare, nella compagine figurativa stilizzata e artificiale di “Eyes Wide Shut”, le sue paure e i suoi desideri, in quello che si propone come un nuovo viaggio nel tempo fuori dal tempo, dove il contingente è sostituito dal possibile e dove il reale è un territorio trasfigurato dal racconto dagli echi onirici oltremodo evocativi di un’“altra scena”; la stessa che talvolta si trasfonde nel fantasmatico e al contempo offre sprazzi di senso ad una rappresentazione la cui densa stratificazione coniuga l’artisticità del film in chiave psicoanalitica e simbolica. Ma “Eyes Wide Shut”, almeno nelle intenzioni, va ben oltre il “film-summa”, ponendosi come il film delle domande interrotte, delle intenzioni rinviate, delle esitazioni manifeste. In quella che si propone, già in Schnitzler, come “la commedia dei disinganni e dei desideri insoddisfatti”, nessuna delle avventure erotico-surreali di Fridolin/Bill giungerà a compimento, e anche l’orgia di piacere incontrollata di Albertine/Alice è solo un sogno.

La vicenda dei due coniugi si dipana, sia in Schnitzler sia in Kubrick, lungo il filo dell’alienazione, della vicendevole estraniazione dei due personaggi principali. Non a caso, in Schnitzler, la novella si apre con il racconto delle vicende del veglione mascherato della sera precedente. E in Kubrick, come in Schnitzler, l’eccentrico intermezzo presso il mascheraio, così come la partecipazione notturna al ballo in maschera nel club segreto e l’assenza di volti che contraddistingue l’episodio – che si concluderà con il doloroso confronto con il cadavere della donna nella sala anatomica – , sono il segno della perdita d’identità che connota la crisi dei protagonisti. In Kubrick i protagonisti significano sia per identità sia per dissomiglianza. Detto diversamente, i due coniugi sono nel film al contempo i coniugi Bill e Alice Harford e i coniugi Tom Cruise e Nicole Kidman: la coppia formata dal medico e dalla gallerista d’arte momentaneamente “disoccupata”, e la coppia di star acclamate del firmamento holywoodiano. Per tutto il film, Kubrick mette a nudo la coppia, la spoglia dei suoi ornamenti sovrastrutturali, e così facendo ci mette a parte della sua costitutiva fragilità. Uno dei momenti più interessanti di “Eyes Wide Shut” è anche uno dei momenti più rischiosi: la lunga sequenza in cui Alice/Nicole racconta a Bill/Tom il suo “sogno ad occhi aperti”, il desiderio di tradire il marito con l’affascinante marinaio danese visto da Alice durante una vacanza dei coniugi. Nel testo di Schnitzler, il riferimento alla nazione di origine del marinaio, la Danimarca, ritornerà come una coincidenza persecutoria – espressione della compenetrazione tra dimensione onirica e realtà – e sarà il nome della parola d’ordine che Fridolin dovrà pronunciare per accedere al ballo in maschera. Kubrick sostituirà tale parola d’ordine con la più autoreferenziale “Fidelio”, mentre alla figura del marinaio danese dedicherà echi musicali dal sapore evocativo. “Fidelio”, unica opera teatrale di Beethoven, rinvia a più di un punto di affinità con le peripezie non catartiche di Bill, sia in materia di amore coniugale, sia di travestimenti e identità nascoste, sia per ciò che pertiene le visioni dettate da sogni allucinatori: il rimando più generale è però al mondo parallelo e notturno della non ordinarietà e del détour erotico-sessuale. La composizione musicale di Jocelyn Pook, Naval Officer, a tal proposito, ha opportunamente il compito di avvolgere l’entrata in scena dell’ossessione amorosa, il marinaio danese ridestato dal lirismo di un violoncello che si appoggia a quinte d’archi “alla Ligety” durante le rivelazioni che Alice porge a Bill dei suoi passati turbamenti erotici a Cape Cod; suoni che riverberano sull’ossessività dei ricordi “allucinatori”, fantasie ad occhi aperti, del marito attonito, ogniqualvolta immagina sua moglie disposta a concedersi allo sconosciuto ufficiale di marina.

“Eyes Wide Shut”

La struttura iterativa del film si scopre lentamente come sollevante un senso di estraneazione, le cui declinazioni riflettono al contempo la natura “stratificata” della rappresentazione, composizione polifonica e insieme “circolo ermeneutico”, dove gli elementi interagiscono a livello estetico e, al contempo, intersignificano a livello simbolico. Laddove, in ”Arancia meccanica”, il linguaggio obbediva alla logica di significare in guisa di una cinestetica lisergica, in cui il montaggio omaggiante Ėjzenštejn muoveva il reale e ne diveniva manifesta allegoria, con “Eyes Wide Shut” i molti riferimenti al mondo kubrickiano, qui riepilogati nell’intento enciclopedico, sono inglobati dal racconto come allarmanti epifenomeni, immagini lontane dall’originale, scene che rimandano ad altri film ma anche ad una densità di senso che nella New York di fine Novecento lascia il posto alla deriva. E’ il caso ad esempio della sequenza in cui Bill, dopo aver visitato l’abitazione della donna rivelatasi inaspettatamente invasata di lui al capezzale del padre defunto, viene a scontrarsi, dopo il momento già sorprendente e oltremodo spiazzante, con un gruppo di bulletti, situazione che potrebbe rimandare alle scorribande dei Drughi di “Arancia meccanica”. Siamo però ben lontani, in “Eyes Wide Shut”, dalla carica di un’espressività bestiale ovvero “primitiva” e “lisergica”, dagli impulsi di una violenza scatenata al suono di Ludovico Van, da una messa in scena che intende ibridare le più diverse suggestioni estetiche e divenire mimesi delle contraddizioni oggettivanti una cultura. Ora il conflitto, declinato in chiave di cattivo costume e di cattive maniere, è uno sfondo sul quale stagliare il movimento di un personaggio moderno che si confronta con le insidie della grande città, luogo abbacinante e, nella sua luce, a tratti radioso, evocante un eterno stato favoloso (le luci nella festa di apertura, ma anche quelle nel Sonata Café dove Bill incontra l’amico ritrovato Nick e, più in generale, le strade di New York sembrano derivare la loro artefattualità da un cromatismo orientato in chiave onirica), ambiente in cui si realizza il teatro simil beckettiano dell’indifferenza, del cammino-scontro tra le ossessioni di Bill, che pensa di continuo alla moglie nelle grazie di un altro uomo, e del reale che lo avvolge e lo assale, presentandogli un vasto ventaglio di propositi; ma New York, beninteso, anche come luogo in cui ogni cosa è in vendita, perfino i valori, come dimostra bene Milich, il signore che noleggia i costumi per le feste, polemico con la figlia ninfetta-prostituta ma subitaneo trasformista pronto a vendere il corpo della giovane figlia-Lolita. Uno stesso personaggio e un’analoga situazione sono presenti pertanto nel testo di Schnitzler, che anticipava l’ambiguità morale dei personaggi. Kubrickiano in senso stretto, invece, è il personaggio di Victor Ziegler, mentore della festa di apertura, seduttore d’alto bordo e probabile votante la “grazia” (se mai ci fu una votazione…) per Bill nella sequenza dello smascheramento di questi nella villa dell’orgia. Figura enigmatica, doppiogiochista, Ziegler appare quasi un’evocazione del fantomatico Quilty, lo “zio” che rapiva Lolita nell’omonimo film di Kubrick del 1962.

“Eyes Wide Shut”

L’insospettabile artefice delle feste a scopo sessuale, l’autore di “finzioni” e di planimetrie anch’esse doppie: per tutti è il demiurgo di serate classiche ed accoglienti, dal sapore quasi hollywoodiano, che sembrano obbedire a rituali di ufficialità (quella sontuosa e sognante con cui si apre il film); ma per molti egli è probabilmente tra gli occulti traghettatori di rituali “proibiti”, di mascherate dove ci si nasconde per rendere possibili e concrete le proprie ossessioni (l’orgia erotica nella villa abitata dalle maschere). E’ il trionfo della doppia morale, quella che Quilty mascherava in “Lolita”, quella che Ziegler legittima rivendicando per sé il ruolo di regolatore delle pulsioni e della divisione sociale. Per una volta, Kubrick sembra denunciare il male, in una sua personificazione sardonica, che, opportunamente, non ha connotati precisi, perché non sapremo con certezza se Ziegler o altri come lui sia davvero fino in fondo l’artefice della mascherata. Ma i sospetti sono troppi così da non permetterci di gettare la spugna. Kubrick, nel mantenere una calcolata nebulosità nella sciarada portata in scena con la sequenza della festa in maschera, non fa che alimentare i nostri sospetti e invogliare lo spirito “investigante” dello spettatore, che egli vuole attivo e partecipe, sperimentatore intellettuale del discorso o dei discorsi agitati dal film. Kubrick peraltro non scaglia accuse dirette. I suoi infingitori, quelli che organizzano la festa in maschera e che tengono le fila della massoneria non hanno un volto riconoscibile con certezza perché a lui non interessa una logica della rappresentazione come adeguazione a dati di realtà. La sua rappresentazione finzionale e inventiva si erge su un terreno culturale e simbolico in cui le referenze sono prefigurate in un mondo di lignee e scostanti finzioni, istante sociali e antropologiche da cui il suo mondo poetico prende le mosse nella comprensione pre-narrativa di una scena sociale che in “Eyes Wide Shut” contempla il teatro di un’aristocrazia implicata nei grandi capitali ed esprime la preoccupazione di controllare i movimenti di chi possa minare la salvaguardia del potere. Anche in “Arancia meccanica”, dopo tutto, Kubrick non lanciava strali contro questo o quel politico di turno.

“Eyes Wide Shut”

La visione di una scena sociale in cui l’individuo è mercé di istanze regolate da altri, dall’oppressione sistemica, è in Kubrick riconducibile alla dialettica ben più complessa tra la natura dell’individuo, che la società cerca di adattare alle sue esigenze, e le domande della contemporaneità, dove si affacciano istanze nuove mentre sopravvivono e si agitano tensioni arcaiche e valori contraddittori, contraddizioni non più risolvibili al suono della logica come nel Settecento lyndoniano, ma che oggi richiedono, quantomeno, un lavoro di analisi sui significati del profondo.

Sidney Pollack, il regista-amico che sostituisce in corso d’opera la performance di Ziegler già avviata dal più irrequieto Harvey Keitel – intollerante nei confronti del perfezionismo di Kubrick – è la personificazione del demiurgo-ingannatore, che denuncia la sua natura di mentitore. Anche lui, come i coniugi Harford-Cruise, significa sia per identità che per dissomiglianza. E’ il regista hollywoodiano “liberal”, autore di moderni classici quali “I tre giorni del condor” e “La mia Africa”, che si mostra perfettamente calato nelle pose del cerimoniere, del moderno e accomodante intrattenitore. Ma al contempo, egli è l’acrobata di un mondo di finzioni, nel senso latino di fingere come ingannare, manipolare. Il suo gioco, d’altronde, è sottilmente mascherato sin dall’inizio, allorquando, all’arrivo della coppia Harford-Cruise alla festa annuale nella sua dimora, il loro scambio di saluti rammenta che entrambi, allegramente e confidenzialmente, si atteggiano l’uno con l’altro adeguandosi ai soliti convenevoli, salvo poi mostrarsi complici quando l’uno ha realmente bisogno dell’altro (presto Ziegler contatterà Bill per aiutarlo nella faccenda della prostituta Mandy). Ziegler, dunque, come l’affabulatore che conosce i rituali ed è un nome di peso, con buona probabilità, nella setta massonica al centro del culto orgiastico che popola la sequenza della festa notturna. Un teatro di regole non scritte struttura la doppia vita, come doppia morale, legittimata dalla New York aristocratica di “Eyes Wide Shut”, in cui Kubrick ritrova la veemenza allucinatoria di un mondo in cui il vedere è il primo elemento del conoscere, ma al personaggio non basta avere gli occhi bene aperti per poter vedere. Come in “Arancia meccanica”, ciò che il personaggio vede è

un reale che prende una forma singolare, sul crinale tra il dato manipolato e la proiezione immaginifica di ossessioni personali. La forma del vedere contempla d’altro canto, in senso kantiano, una domanda sulle condizioni di possibilità del vedere. “Eyes Wide Shut”, trasportando la Vienna di Traumnovelle nella New York di fine Novecento, condensa e relativizza i dati temporali, e al contempo li soggettivizza, calandoli nella finitezza temporale degli individui. Come per “Arancia meccanica”, il tempo appare rappreso in una visione in cui l’elemento visivo, quello più intrigante e avvolgente, sembra confluire in una dimensione “terza”, nell’ibridazione degli strati di tempo, in una sorta di presente del futuro (e, in “Eyes Wide Shut”, di presente del presente), o, per dirla evocando il capitolo XI delle Confessioni di Agostino, con la replica rovesciata di una distentio animi, nell’imperio di un vitreo perceptum visivo, in cui il presente è l’unica dimensione legittima da cui partire per pensare passato presente e futuro. Kubrick, il grande artefice delle macchine temporali, di quel gioco narrativo e cronologico che si chiama “Rapina a mano armata”, con il suo cinema ci ha però sempre rammentato che il tempo è una condizione della percezione, e in “Eyes Wide Shut” il tempo del racconto tragico, quello che attraversa con enfasi le vicende di “Barry Lyndon”, diviene strato della dimensione emotivo-simbolica di cui si colora il “medioconscio”, il teatro della mente e dell’afasia dei personaggi. Come nota Sandro Bernardi (Kubrick e il cinema come arte del visibile, Edizioni Pratiche-Parma, 1990; riedizione Il Castoro, Milano-2000, pag. 15) “il percorso del protagonista di questo film – che non possiamo considerare compiuto, se non altro perché è uscito postumo, ma anche per altri imprescindibili motivi, come il montaggio, che è abbastanza lontano dallo stile kubrickiano – è presentato come un percorso visivo, un attraversamento simbolico di tutto il mondo metropolitano moderno e forse anche dell’immaginario del nostro secolo, che viene qui delineato nella sua incredibile povertà o nella sua ricchezza solo apparente”. Ancora una volta, per “Eyes Wide Shut”, ci torna in aiuto Arancia meccanica, tanto che quel film del 1971, proiettato in un futuro non lontanissimo, comtempla echi di senso che ritroviamo negli anni Novanta del film tratto da Traumnovelle. Alex, in prigione, si distraeva con i testi sacri in biblioteca, grazie ai quali immaginava di essere beato tra i baccanali dei romani, pronti a giustiziare ma soprattutto ad umiliare Cristo.

“Arancia meccanica”

In questa raffigurazione del carcerato che usava la Bibbia per sollazzarsi, era palese la critica di Kubrick a qualsiasi pretesa di “rieducazione”: ogni individuo è troppo complesso, troppo imprevedibile, perché formulette e istituzioni sappiano coglierne la natura radicale. L’opulenza che Alex sognava, con le sue visioni immaginifiche e nuovamente lisergiche che facevano di lui una visione implodente di individuo mercificato, anticipavano in una precisa misura l’attualità di “Eyes Wide Shut”. L’ultimo film di Kubrick sembra, infatti, attraversato da un profondo atteggiamento di disillusione nei confronti del secolo appena concluso, il secolo che ha profetizzato le danze delle astronavi di “2001” e che viene evocato come una grande fiera di immagini, uno sfarzoso carrozzone di belletti e colori dove libertà e sperpero nascondono e alimentano una miseria umana cui ci avrebbe “spalancato” gli occhi l’ultimo cinema di Bresson. In “Eyes Wide Shut” le immagini hanno un ruolo egemone in quella che possiamo leggere come una nuova servitù, alla cui mercè gli individui, presenziando al teatro sociale, alla rappresentazione che non ha più nulla di sacrale, obbediscono ad una nuova esteriorità. Essere chiamati alla visibilità, all’esibitio, culmina orbene, nell’inquietante di film di Kubrick, in un senso di pericolo, nonché di nuova estraneazione. La ricerca esistenziale di questi nuovi naufraghi, più o meno contemporanei a quelli prefigurati nel film kubrickiano del 1968, vacilla oltremodo allorché le traiettorie del senso paiono abitate da nuovi sorveglianti, i guardiani dell’esteriorità al soldo del nuovo culto delle immagini. All’automa H.A.L, che sbagliava quando mostrava il suo lato umano, si sono sostituiti sorveglianti oscuri che rimandano a tremori primordiali. Bill Harford, il medico integrato che nell’incipit del film si muove in casa come in un labirinto in cui la voce della moglie lo aiuta a non perdersi, a ritrovare il portafogli, non vede pienamente quanto lo circondi. Interpellato dalla moglie seduta sul water – lei statua perfetta volutamente dimessa in questa situazione – mentre gli chiede se sta bene così agghindata per la serata, Bill le risponde di sì senza nemmeno guardarla. Lei glielo fa notare e lui risponde che non ha bisogno di guardarla (perché, sottintende, egli conosce la sua bellezza). Le immagini esercitano il loro potere seduttivo mentre la loro “inflazione” fa il suo corso sin da subito nel nuovo lavoro di Kubrick. Sono le stesse parole di Kubrick, comparse in un intervento in difesa ad una feroce stroncatura nei confronti di “Arancia meccanica”, ad avvalorare la nostra convinzione che il film contenga un messaggio impietoso e lucido sulla società dell’apparenza e della crudeltà che essa maschera.

“Shining”

“Lungi da sperare che venga data una seconda possibilità al fascismo, il film ammonisce contro il nuovo fascismo psichedelico – il condizionamento multimediale, stordente, quadrosonico e indulgente alla droga degli esseri umani ad opera di altri esseri umani – che molti ritengono inaugurerà l’abbandono della civilizzazione umana e l’inizio di zombilandia. E’ piuttosto vero che la visione dell’uomo presente nel mio film è meno lusinghiera di quella con cui Rousseau aveva sollazzato gli animi in un racconto similmente allegorico – ma, al fine di evitare il fascismo, è davvero necessario considerare l’uomo come un nobile selvaggio piuttosto che un ignobile selvaggio? Essere pessimista non è ancora sufficiente a qualificare qualcuno come un tiranno (almeno spero!)” (S. Kubrick, Now Kubrick fights back, “The New York Times”, Section Two, febbraio 1972). In un altro intervento di Kubrick, questa volta un’intervista dedicata al film tratto da Burgess, la riflessione del cineasta si allarga a comprendere la città di New York che apparirà molti anni dopo in “Eyes Wide Shut”: “L’uomo non è un nobile selvaggio, è piuttosto un ignobile selvaggio. E’ irrazionale, brutale, debole, sciocco, incapace di essere obiettivo verso qualunque cosa che coinvolga i propri interessi – ecco un efficace riassunto di come siamo. Sono interessato alla natura violenta e brutale dell’uomo perché si tratta di un ritratto veritiero. E ogni tentativo di creare istituzioni sociali su una visione falsa della natura dell’uomo è probabilmente condannato al fallimento (…) le istituzioni sociali che devono affrontare il problema dell’ordine pubblico potrebbero infatti scegliere di diventare oppressive fino a rasentare il grottesco. Il film propone due estremi: mostra Alex nel suo stadio precivilizzato e la società mentre commette crimini ancora più grandi dei suoi cercando di curarlo (…) New York City, per esempio, è un posto dove le persone non si sentono per niente sicure. Quando qualcuno viene aggredito non c’è mai nessuno nei paraggi ad aiutarlo. Se ci aggiungi un po’ di malcontento per la situazione economica e l’idea sempre più in voga che i politici siano nient’altro che un branco di incompetenti perditempo disinteressati ai problemi che richiederebbero una soluzione immediata, ecco che ottieni un clima di agitazione sociale molto serio negli Stati Uniti, che molto probabilmente causerà la repressione da parte di un governo altamente autoritario. A questo punto puoi solo sperare di avere un despota benevolo piuttosto che uno completamente malvagio. Un Tito piuttosto che uno Stalin – anche se di destra” (C. McGregor intervista S. Kubrick, Nice boy from the Bronx?, “The New York Times”, Section Two, 30 gennaio 1972).

“Arancia meccanica”

La New York di Kubrick non è la New York come rapsodia che Woody Allen tratteggia in “Manhattan” (1977), film carismatico di un regista peraltro apprezzato da Kubrick. Quella del regista di “Eyes Wide Shut” appare una città flaccida, sporca e insana, un pachiderma di violenza travestito da un arcobaleno di sembianti; un luogo fantasmagorico privo di baricentro, in cui le immagini sono fulgide apparizioni di quel grande mercato delle attrazioni che è il mondo contemporaneo. La città appare come la continuazione logico-cronologica della Vienna di Schnitzler, così che l’intero secolo, compreso tra le due raffigurazioni, pare giudicato con gli occhiali dell’intellettuale newyorkese di origini ebree amante di Schnitzler e della psicoanalisi. Tra una città piena di aspettative, la Vienna d’inizio secolo, e la New York di fine Novecento, è legittimo avviare un confronto. Come scrive Sandro Bernardi: “Le grandi speranze di partenza del Novecento trovano una messa in scena che somiglia molto a una pietra sepolcrale” (S. Bernardi, op. cit. pag. 17). Imparentando New York alla Vienna di Schnitzler, il Novecento viene inquadrato dentro queste due metropoli dell’illusione e del disinganno; in un secolo che ha visto le maggiori scoperte tecnologiche, la nascita e il perfezionamento di nuove discipline scientifiche, lo studio dell’inconscio, lo sviluppo della comunicazione globale, l’impulso all’innovazione si è confrontato con il travaglio di un grande disagio, mostrando la disfatta, le guerre, la repressione. Dietro le immagini pensate e voluttuose di “Eyes Wide Shut”, Kubrick mostra, ancora una volta, la paura della morte. Non a caso, Bill, il giovane medico che attraversa New York di notte per scrollarsi di dosso l’inquietudine della sua ossessione (la gelosia che lo infiamma dopo che la moglie gli ha confidato i suoi desideri di tradimento), ovverosia per “scaricarla” attraverso qualche esperienza inattesa che le sirene della città sembrano promettere, somiglia ad un buon ragazzo ordinario, cui l’interprete Tom Cruise restituisce fanciullesca immedesimazione, e nel ripetuto imbattersi con situazioni ordinarie, che tradiscono la sua repressa illusione eroico-erotica, egli rinvia ad una patetica parodia di Ulisse, il grande naufrago con cui, secondo Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’illuminismo (Einaudi, Torino, 1997), prende avvio il lungo viaggio nella cultura occidentale. Come Ulisse, infatti, anche Bill crede di vedere e di sentire il richiamo di un altrove immaginifico, quel canto delle sirene cui lui stesso, educato e benpensante, si abbandona, nella smania di un desiderio sempre più fonte di sola allucinazione (alla moglie attraente finisce per preferire, almeno per una notte, le illusioni di una trasgressione che ha connotati di adeguazione a regole di irreggimentazione sociale seppure calati nell’anonimato di una strategia mimetica insospettabile), fonte irrefrenabile a cui attingere al momento in cui viene a sapere dall’amico Nick che in una villa dal sapore non più fiabesco si consumano riti di indicibile ebbrezza. Quell’altrove delle feste massoniche, tratteggiato nella fantasmagorica riproduzione kubrickiana dentro la villa-castello che somiglia a tratti alla stessa dimora del regista situata tra le campagne londinesi, diviene scena rappresentativa di un erotismo che non ha più nulla di liberatorio, ma che si propone come un rituale, il luogo di un culto che necessita di una comunità pronta a sottoscriverlo. E il cosiddetto moralismo kubrickiano, a ben vedere, qui è radicale disinganno. La New York di Kubrick, regista che altrove ci aveva abituati ad ambientazioni avveniristiche (“2001: Odissea nello spazio”, “Arancia meccanica”), a détours di senso sul piano architettonico-simbolico (“Full Metal Jacket”), appare simile ad una gigantesca scenografia in cui si mostra tutto, allorché la macchina si smonta da sola alle prime luci dell’alba. La produzione d’immagini fini a se stesse sembrava essere uno dei vizi dell’Occidente, e in questo la psicoanalisi, principale ambizione scientifica del secolo, trova un teatro su cui mettere alla prova le sue competenze. In questo scenario cangiante e al contempo sempre uguale, in questa eterna e contraddittoria luminescenza, l’individuo trova davvero arduo quel cammino verso il Sé di junghiana memoria. Ma si tratta forse di un cammino che, a detta di Kubrick, difficilmente può essere eluso. Ciò che l’individuo si trova dinanzi è, pertanto, un’infinita serie di depistamenti. Bill, medico inseritissimo nell’alta società newyorkese, ha gli occhi sempre più dilatati e stanchi, senza riuscire a capire davvero nulla. Se la prima festa, quella inscenata dall’amico Ziegler, è come il momento di accesso mondo infero in cui Bill sta per iniziare la discesa, con quelle due misteriose ragazze sinuose e ammiccanti che lo invitano a venire “là dove finisce l’arcobaleno”, e andare evidentemente anche oltre, la seconda festa, quella delle maschere, è una sequenza di algidi coiti ridotti a spettacolo meccanico-funereo, in cui fantomatiche maschere stile Settecento assistono a un rito antico e banale, groviglio di coiti esibiti e multiformi, dall’aspetto macabro e forzato, “uno spettacolo tetro che solo il protagonista potrebbe scambiare per un luogo di piaceri, non certo gli spettatori” (S. Bernardi, op. cit., pag. 18). Nonostante Kubrick e lo sceneggiatore Frederick Raphael si siano tenuti strettamente fedeli al racconto, Kubrick, per la sequenza della festa, ha rivoluzionato ogni cosa: in Schnitzler non solo mancava la situazione orgiastica e anzi si lasciava spazio all’immaginazione, ma non c’era quest’insistenza sull’atto del guardare, che qui diventa, nell’ossessione di uno sguardo rapito dal proibito, l’ennesima configurazione in Kubrick di uno sguardo che osserva senza vedere, perché il vedere, nel Novecento di “Eyes Wide Shut”, è un vedere tutto di superficie, modulato sul rito dell’esibizione erotica sempre uguale a se stessa nel suo essere tetro spettacolo di uno spettacolo. Tutto è come congelato in una specie di eterna ripetizione, in un ultimo kubrickiano rimando all’iteratività musicale e meccanica dei movimenti dei personaggi che, come in “Barry Lyndon”, danzano, per così dire, sulle note dolenti dell’estraneazione, mentre le situazioni acquisiscono sapori kafkiani e lo spettacolo mostra tratti di opulenza mercenaria. Una composizione immaginifica della scena contemporanea decodificabile anche attraverso il pensiero di Guy Debord, che in La società dello spettacolo, nella quarta tesi, definisce lo spettacolo non come insieme di immagini ma come “un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini”, una “visione del mondo che si è oggettivata” (G. Debord, La società dello spettacolo, 1967, ed italiana, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano, 2008, pag. 54). Le immagini del mondo dettate dalla necessità di produzione capitalistica si sono staccate dalla vita, al punto che lo spettacolo per Debord è considerato come l’inversione della vita. Ma non bisogna però pensare che lo spettacolo sia semplicemente irreale. Lo spettacolo inteso come inversione del reale è effettivamente realtà, una realtà reificata: l’obiettivo dello spettacolo è quello di legittimare se stesso oltre che i rapporti sociali di produzione dei quali è guardiano.

“Barry Lyndon”

Come in “Shining”, il protagonista sperimenta la perdita dei riferimenti, e allo spettatore che guarda il film è consegnato un destino altrettanto impervio. Allo spettatore che perde le staffe connotative è data però la possibilità di vedere e rivedere il film, di assistere alla sinuosità cinestetica del racconto per immagini e di ripercorrere gli strati temporali sovrapposti dal film che rende pertanto legittima e carica di senso una sua lettura anche secondo un ordine non rigorosamente cronologico. Se Jack Torrance è da sempre il custode dell’Hoverlook Hotel, la scena rappresentata è un presente sovrapposto sulle scorie di un passato famelico che allude ad antichi ed universali delitti. Il passato storico viene a connettersi con il presente allusivo, solo apparentemente silenzioso. Ma in “Shining” lo spettatore che segue il film dall’inizio alla fine vive ancora una qualche forma di catarsi, seppure sbeffeggiata da quell’ultima immagine di Jack fotografato nella Gold Room degli anni Venti, a testimoniare la persistenza e la perseveranza di antiche e irrisolte ossessioni. In “Eyes Wide Shut” la realtà è come in Shining ciò che il protagonista e lo spettatore percepiscono di essa, dimensione a più dimensioni, ovvero dimensione percettiva, modellata dalla capacità di focalizzazione, a testimonianza dell’ossessione ipervisiva che caratterizza il percorso del cinema di Kubrick e quello dei suoi personaggi. Si pensi all’intero cammino di Bill durante la sua “notte brava”. Dopo la festa in cui gli officianti dicono di graziarlo soltanto perché una fantomatica donna urla di volersi sostituire a lui in quello che viene annunciato come un destino di morte, al cospetto di un teatro arcaico e pagano dove gli individui con le maschere veneziane riverberano un rigurgito spettrale e tutt’altro che dionisiaco per una festa erotica, Bill vive nel dubbio, sottolineato da quel puntellante cursore sonoro corrisposto al pianoforte dalla Musica ricercata di Ligety (S. Bassetti, La musica secondo Kubrick, Torino, Lindau, 2002, seconda edizione 2005, p. 165), reiterata con palese intento modulatorio la sensibilità e lo smarrimento del giovane dottore. Il quale fa incontri fortuiti come la prostituta Domino – dal nome evocativo di una partita con il caso – una tenera e accomodante “non professionista” che tra gli scaffali conserva testi di sociologia (forse una studentessa?) e che si scoprirà più tardi essere sieropositiva. Bill che sogna una notte euforica non vive alcuna ebbrezza, ma lentamente viene a patti con una realtà altra, quella della strada dove lui, alto-borghese, è sceso raramente. I suoi modi garbati e di convenienza non esprimono una conoscenza veritiera di chi, come Domino, deve sbarcare il lunario accontentandosi di un lavoro ingrato. La sua vita di facciata, d’altronde, non gli ha permesso neppure di cogliere le inquietudini della moglie; il suo pragmatismo non lo aiuta a focalizzare le gradazioni della realtà, che possono essere mediate simbolicamente e attraversate dalla densità immaginifica di uno sguardo capace di contemplare anche il mondo onirico. Questa impreparazione “immaginifica” di Bill, equivalente della sua immaturità emotiva, lo porta a brancolare. A livello inconscio, la sua “fuga” notturna è una reazione al desiderio di tradimento confessatogli come un ricordo palpitante dalla moglie. Quasi una ripicca quella di Bill, che lo porterà “oltre l’arcobaleno”, oltre le promesse di seduzione della città delle illusioni, per sprofondarlo in situazioni in cui la realtà più vera viene ritratta in quadri di desolazione privi, nella raffigurazione di Kubrick, di qualunque patetismo. Una volta illuminata dalla luce del giorno, la realtà appare ancora più povera del sogno, e se il sogno ha i suoi enigmi, la realtà non ne ha di meno (il pedinatore che somiglia in modo sorprendente alla figura del picchiatore-giocatore di scacchi di “Rapina a mano armata”, che contribuisce a colorare la notte di Bill di una nota persecutoria e allucinata, come un incubo ad occhi aperti, sancito definitivamente, nella sua solo apparente irrealtà, dalla scritta a piena pagina “lucky to be live” sul giornale in cui Bill legge la notizia della morte per overdose della sua misteriosa “salvatrice”); essa è come il retroscena squallido di questi misteri, dove si aggirano, come ne “Il bacio dell’assassino”, loschi figuri e ragazze sole, guardiani, picchiatori, figure doppie come Quilty.

“Rapina a mano armata”

Sparito l’amico Nick, che viene allontanato dalla festa mascherata sin dal momento in cui Bill è condotto dinanzi al “tribunale” dei mascherati, la città mostra il suo lato inquietante e fustigatore, sotto gli occhi stupiti di Bill che vede e non vede, che tiene gli occhi spalancati ma che, come tanti al pari di lui, si rifiuta di vedere. A smuovere Bill, più che l’eros, sarà il pensiero della morte. Dietro lo sfavillio della città-spettacolo, è il crudo realismo della meschinità umana a qualificare attitudini e comportamenti. Bill, richiamato da Ziegler che lo vuole al suo cospetto per metterlo in guardia sul rischio di presentarsi a feste massoniche senza essere parte del “clan”, non farà che alimentare i suoi dubbi: la donna che si è offerta di salvarlo, è stata realmente uccisa al suo posto come lasciava intendere la sentenziosa gravità degli officianti in maschera, oppure è soltanto una coincidenza quella per cui lei appare a tutti gli effetti morta per overdose appena ventiquattro ore dopo la festa? Mentre Ziegler assicura Bill che si trattò di una “sciarada”, una mascherata dentro la mascherata, per concludere in piena regola la cerimonia, e che la donna sia morta per overdose e solo per puro caso in prossimità dell’epilogo della festa, restano il sorriso di Ziegler e la pacca sulla spalla che questi porge a Bill a darci il tono di una rassicurazione che stride enormemente con le mosse e le pose minacciose e intimidatorie vissute ai danni di Bill la notte precedente; è come se la facciata di prudenza di Ziegler, più che salvaguardare Bill, intendesse preservare da intrusioni pericolose per l’incolumità di un’aristocrazia che si fa beffa di una povera prostituta, la stessa Mandy che Bill aveva curato durante la prima festa e che adesso identifica come cadavere nella sequenza davvero perturbante dell’obitorio, in cui una tarda pagina pianistica, Nuages gris di Franz Liszt, sottolinea il lento e doloroso avvicinamento di Bill alla dimensione più emotiva e intima della sua coscienza. Bill si avvicina al volto senza vita di Mandy, lo osserva intensamente, ricorda il suo ammonimento ad andarsene durante la festa in maschera. Sembra di poter cogliere, in questa disturbante sequenza, lo sgomento di Bill per non essere riuscito a conoscere più nel profondo la donna, e ora che è troppo tardi qualcosa dentro di lui lo tormenta, a tal punto che quasi la sfiora con un bacio. Qualunque sia la vera causa della morte di Mandy, è un fatto che nessuno tranne Bill visiti il suo capezzale, a controprova dell’indifferenza in cui si bea l’aristocrazia implicata. La bellezza della soluzione espressiva raggiunta da Kubrick è ribadita dalla circostanza che il regista evita stratagemmi visivi, forme retoriche, per riprodurre il momento onirico, così come evita sovrimpressioni o flash-back poco convincenti. Modulando la densità del dato visivo su di un reiterato presente immaginifico, in realtà egli ci conduce sul piano, obliquo e sdrucciolo, di un’esperienza dei sensi che diviene, tout court, esperienza del senso, chiave di interpretazione di una condizione umana. Siamo invitati o costretti ad aprire gli occhi come quando Bill, di ritorno a casa in un’abitazione abitata dai dipinti di Christiane Kubrick e immersa nell’azzurro aurorale di una riproduzione fotografica dal gusto onirico raffinatissimo vede sul letto matrimoniale Alice e la rediviva maschera da lui utilizzata per accedere alla festa orgiastica. Ogni uomo, sembra dire Kubrick, quando ritorna in famiglia è condotto a giocare il suo destino confrontandosi con quella maschera. Per Bill che si mette a piangere come un bambino disperato in cerca del perdono materno, la maschera nasconde la persona che gli è o che egli puo’ diventare durante il cammino dell’individuazione (per dirla con Jung o con un esperto di Jung e il cinema come Saverio Zumbo).

La famiglia, chiusa e protetta dall’amore, non sembra però essere il tanto sperato rifugio imperturbabile. Vi è, in essa, la maggiore contraddizione. E’ vero che la famiglia protegge dalle false seduzioni dell’immaginario esterno, dalle torbide attrazioni di quell’arcobaleno poco variopinto che è la città e che reca in sé la morte. E’ propriamente Alice, infatti, a salvare il marito dai pericoli come ad esempio l’AIDS. E tuttavia la famiglia stessa contempla quello stordimento che la fa vacillare e che fa inciampare i suoi protagonisti: ritroviamo allora il perturbante, quell’elemento teorizzato da Freud che si pone al centro di tutta la ricerca kubrickiana sul visibile.

Nicole Kidman, Alice, come l’Alice di Lewis Carrol, porta in scena il lato sconosciuto e nascosto del familiare: mamma carina e tenera che aiuta la figlia nei compiti di scuola, dietro gli occhiali e il sorriso, è capace di trasformarsi in persistente figura di lascivia, in quell’unico smisurato inserto visivo che appare sempre uguale e sempre diverso, alla mente di Bill non appena prova a chiudere gli occhi, allorquando la vede smaniosa tra le carezze impudiche dell’amante immaginario. Mentre nel film possiamo vedere le ossessioni di Bill, quelle di Alice esplodono sotto forma di racconto nelle due sequenze in cui la donna rivela il suo mondo emotivo. Nella prima, dietro l’effetto della marijuana, Alice racconta il suo desiderio di donarsi completamente al fantomatico marinaio danese visto ma non conosciuto durante una vacanza della famiglia Harford. In questa sequenza di grande pathos, il brano per archi Naval Officer della giovane compositrice Jocelyn Pook accompagna lo spettatore dei pensieri di Alice in un viaggio “oltre il visibile”, e oltre il racconto delle immagini, richiedendo un supplemento di partecipazione immaginativa in chi guarda. Nella seconda sequenza, Alice racconta a Bill, mentre lo abbraccia sul letto di casa, il sogno di un’orgia in cui Bill appare in veste di grande umiliato (mentre piange, confida a Bill che nel sogno lei si accoppia con molti uomini in sua presenza; nel racconto di Schnitzler, il racconto vedeva la protagonista ridere e farsi beffa del marito crocifisso). Sia Kubrick sia Schnitzler sono estremamente sottili e al contempo trasparenti nel raffigurare il disagio dell’individuo.

E’ nella dimensione invisibile, nell’inguardabile (e nel rappresentabile soltanto in chiave allegorica, per traslazione, ad esempio nella sequenza della festa che riflette come i sogni affondino le loro tracce sotterranee in archetipi che ritroviamo portati in scena nella vita “reale”), che vanno colte le paurose regressioni, le immagini tremende al centro della vita dell’uomo. Le istituzioni, tra cui la famiglia, non si sottraggono al più evidente paradosso portato in scena dal film: quello di dare necessità e valore alla trasgressione.

Nicole Kidman

“Sa qual è il vantaggio del matrimonio? Che rende indispensabile l’inganno per entrambi i partner”. Questa frase, pronunciata dal misterioso seduttore ungherese ad Alice durante la prima festa – nelle movenze di un ballo lento e vorticoso in cui Kubrick sembra omaggiare i movimenti della macchina da presa di Max Ophuls – esprime con chiara sintesi il pensiero di un autore che indica nella menzogna e nel paradosso il fulcro della vita civilizzata, tanto che “Eyes Wide Shut” potrebbe benissimo intitolarsi, per un’assonanza kubrickiana che ci riporta all’incipit di “2001: Odissea nello spazio”, “il tramonto dell’uomo”. Pare allora naturale che non si possa parlare, in “Eyes Wide Shut”, di inganno e di trasparenza come due ambiti facilmente distinguibili. La vita sociale, che nel settecento lyndoniano era una parata, una rappresentazione modulata su conflitti e inganni, si presenta oggi come una dimensione ben altrimenti infingarda. Con il suo ultimo film, il regista de “Il bacio dell’assassino”, ricreando una New York atemporale che omaggia anche i suoi esordi espressivi e che si diletta di citazioni allusive al senso di un’Odissea del personaggio che continua (la scritta Bowman che compare sul muro di un palazzo nella città notturna attraversata da Bill), traccia orbene una ideale circolarità tra i testi, mentre elabora una riflessione che sottolinea molte contraddizioni inerenti all’atto stesso del guardare e del vedere. Guardare significa non solo vedere, ma anche conoscere e comprendere, e le due istanze, spesso, sono incompatibili. Non si tratta solo di questione di vero o di falso; piuttosto, si tratta di differenti gradi di verità, o di fedeltà. Alla base del pensiero, che trova la sua radice sensibile nell’immagine, Kubrick marca il movente conoscitivo, la spinta che occorre favorire esteticamente e poeticamente (nel suo caso, attraverso una creazione artistica cinematografica) affinché la conoscenza del mondo (quello reale, quello del film, quello dell’autore) sia fondata, in maniera quanto più complessa e veritiera, sul rapporto fra il reale e l’immaginario, fra il conscio e l’inconscio, fra il visibile e l’invisibile. Gli strati di un film come “Eyes Wide Shut” sono molti, e molti sono i livelli della visione. Reale, immaginario, invisibile, si addensano nelle immagini di un’opera che, come già in “Barry Lyndon” o in “Arancia meccanica” – ma qui forse con spunti che ci riguardano più da vicino – appaiono multiculturali, polimorfe, stratificate. In essa una fonte visibile rimanda inevitabilmente ad una fonte invisibile. Il pensiero si fa manifestazione del sensibile attraverso l’estetica cinematografica.

La rappresentazione non si vuole appiattita su un regime rappresentativo che destituisce le immagini dello statuto intenzionale e del rilievo evocativo. In ciò Kubrick compone un film le cui qualità visive non sono modulate semplicemente su un’economia rappresentativa somigliante (e i molti rimandi al passato sono, come abbiamo già anticipato, come epifenomeni in un nuovo regime di significazione). Nel film viene anzi attribuita grandissima attenzione all’aspetto figurativo e ai colori che, in particolare, contribuiscono a forgiare creativamente il senso di un’immagine. Le tinte coprono l’intera gamma dello spettro: il caldo arancio della casa degli Harford, il bianco asettico dello studio medico, il potente rosso nella villa dell’orgia. In questa direzione, possiamo cogliere il personale adattamento di Schnitzler – la sua trasfigurazione inventiva e finzionale -, nel cui testo non sono presenti riferimenti specifici ad elementi cromatici.

Attraverso un’analisi dei colori è possibile osservare anche come il medesimo ambiente in differenti momenti del film possa assumere connotazioni diverse secondo il modo in cui è stato illuminato e le tinte che il regista ha voluto evidenziare; ad esempio la camera da letto dei coniugi, così come tutta la casa, ambienti che nella prima parte del film appaiono caratterizzati da una dominante “calda”, in rosso-arancio, nella parte conclusiva assumono una tonalità blu molto più fredda. Abbiamo qui a che fare con un insieme di testi iconici (le immagini del film) nell’accezione data da Greimas, cioè organizzati non solo in formanti plastici ma anche figurativi con in più alcuni effetti di senso specifici che potremmo chiamare “di realtà” o “di verità”. Quello in cui Kubrick è riuscito è stato far corrispondere ad elementi cromatici altri elementi situati a livello patemico: tornando alla sequenza della camera da letto, il rosso-arancio sta ad indicare l’amore coniugale che unisce marito e moglie, mentre il blu elettrico che si scorge al di fuori della stanza suggerisce il pericolo insito nella trasgressione delle norme su cui si fonda il matrimonio. Queste corrispondenze colore-patema non sono universalmente valide in tutto il film, ma possono di volta in volta rinnovarsi dando vita a nuove connessioni e a nuovi livelli di significazione. Analizzando il film nei suoi aspetti figurativi, pertanto, vediamo come esso sia composto principalmente da inquadrature lunghe con movimenti di macchina per lo più lenti e dolci, e vi è un’assenza quasi totale di soggettive, tranne quella delle scena dell’orgia, che Bill attraversa quasi in trance a sottolineare il suo voler vedere ma anche il suo non poter agire; l’intento di Kubrick, con il rifiuto della soggettiva, non è tanto quello di mantenere a distanza lo spettatore quanto al contrario di farlo immedesimare con il protagonista “bloccato” e di fornire nello stesso tempo una rappresentazione iconica del linguaggio onirico; in un sogno infatti non agiamo mai in prima persona ma vediamo noi stessi agire. Kubrick ha perciò costruito il film come un lungo percorso onirico che ingloba al suo interno altri sogni (Alice che sogna se stessa mentre fa l’amore con altri uomini) ed inserti immaginari (Bill che immagina la moglie con il marinaio); in questo viaggio Bill, e con lui lo spettatore, si perde e guarda ma non agisce mai (il sesso è sfiorato-sognato-immaginato ma mai veramente vissuto). Per di più l’atto di guardare non si realizza del tutto consapevolmente, ma in stato di semi-incoscienza, proprio come in un sogno (quel mediocoscio di cui parla Schnitzler). Altro fatto significativo è che il tradimento di Alice con il marinaio, immaginato da Bill, viene rappresentato in bianco e nero; forse con ciò il regista vuole alludere al fatto che ormai il cinema è penetrato così a fondo nel nostro immaginario che l’immaginazione si struttura necessariamente (soprattutto quella di un cineasta) secondo i codici del cinema.

A confronto con il perturbante, e, in ultima analisi, con la morte, Kubrick sigilla la sua opera rievocando anche la sua celebre ironia, quel disincanto che si permette di presentarci Ziegler, in un’inquadratura che lo ritrae nella sala da bagno durante la prima festa, occupare, come un “malato di sesso”, lo spazio del quadro cinematografico, con la testa che si sovrappone al dipinto (di Christiane Kubrick) raffigurante un corpo di donna nuda e dalle sembianze generose sdraiata quasi come la vicina Mandy, sotto shock per eccesso di eroina. Se Ziegler appare come colui che ha la testa “in overdose dentro un nudo di donna”, Alice, d’altro canto, sembra avere un momentaneo farmaco per il disagio dei coniugi: nel finale dirà a Bill che resterà a loro una cosa da fare al più presto: “scopare”. E’ il verbo-ossessione che mobilita i sensi dei personaggi, e risuona come un beffardo “révenant” da cui sono sorti e su cui si rapprendono i problemi della coppia, in guisa di un ritornello di stile ophulsiano che chiude ma che, al contempo, lascia aperto il film, sui titoli di coda che riprendono la Suite per orchestra jazz di Dmitri Šostakovič con cui le immagini di “Eyes Wide Shut” hanno avuto avvio, a ribadire che la rappresentazione, la danza, non ha mai sosta, almeno finché c’è vita. Ma la sessualità, nel suo singulto evocativo, ci riporta al presente, alla vita, al possibile feto ma anche alla sua negazione. A quell’ambigua presenza del monolite che illumina e oscura. All’animale che si scopre uomo mentre uccide. Ad un approdo che può essere benissimo l’avvio di una nuova deriva, come sanno i naufraghi di un mondo che vede svanire le sue illusioni e possono allora sperare in una realtà vissuta con più consapevolezza.

INTERNET: IL FUTURO È OGGI? A SNOWDEN LA RISPOSTA
di Francesco Saverio Marzaduri

“Mi sembra molto fico entrare negli accessi di sicurezza,” sono le entusiastiche parole di Edward Joseph Snowden, quel trentatreenne prodigio dell’informatica noto ormai negli ambienti della pirateria multimediale, che dopo un fallito tentativo di entrare nei marines trovò modo di farsi arruolare dalla CIA. A consentirglielo fu il superamento d’un arduo test d’accesso, durante il quale la sua innata abilità di entrare nei circuiti elettronici, criptare programmi e rielaborarli in soli trentotto minuti, gli guadagnò le simpatie dell’oscuro Corbin O’Brian. Anelando di aiutare il vessillo Stelle e Strisce a migliorare il mondo, e convinto di sposare la causa al desiderio personale di sentirsi un talento utile, comprese però di non avere il sufficiente cinismo per smascherare le oscure attività di un importante business man pakistano: l’accesso a informazioni troppo personali sulla famiglia di questi avrebbe garantito a Edward una promozione, ma innescato qualcosa di troppo scomodo. Non volendo costruire la propria carriera sulla menzogna, si dimise per collaborare a un’azienda di tecnologia informatica, consulente della National Security Agency, organismo governativo che insieme a CIA ed FBI dovrebbe tutelare la sicurezza nazionale. Divenuto agente del controspionaggio informatico, l’hacker Edward avrebbe compiuto un’insolita operazione spionistica pubblicando scabrosi dettagli di numerosi programmi di sorveglianza di massa, da parte dei governi statunitense e britannico, sino allora tenuti segreti. Ciò, dopo essere entrato in un’insperata spirale bigger than life e compreso che il destino di chiunque, incluso il suo, non è scevro da una massiccia, ininterrotta rete di controlli. A consentire una testimonianza altrimenti impensabile fu un’intervista, rilasciata in clandestinità in un albergo di Hong Kong, a due cronisti di “The Guardian” e alla documentarista Laura Poitras (che avrebbe trattato la materia nel recente “Citizenfour”), ma soprattutto la consegna di un microchip nascosto in un cubo di Rubik, con la prova che denunciava l’illegalità dei sistemi informativi NSA relativi a piani militari, politici ed economici. La collaborazione con un rappresentante di WikiLeaks, che nascose il giovane presso una povera famiglia indostana, permise a Snowden di varcare la frontiera e trovare unico asilo a Mosca, dove tuttora rifugia. Questo lo rese figura controversa, su cui l’opinione pubblica internazionale si sarebbe divisa: difensore dei diritti umani per alcuni, ambiguo delatore per altri. E solo negli ultimi tempi, nonostante destra e sinistra desiderino ancora la sua testa, gli Stati Uniti, compreso il presidente Obama, hanno riconosciuto la gravità della situazione denunciata da Edward.

Una piccola grande figura, d’interesse non indifferente nell’area del medium odierno, congeniale a sufficienza per le corde del produttore Moritz Borman e del settantenne Oliver Stone, firma non nuova a operazioni dove il rischio dell’ambizione va di pari passo con l’onestà degli intenti, invero spesso dubbia. In questo biopic in salsa pamphlet, sospeso fra thriller paranoico e documentario fantapolitico, il cineasta newyorkese segue una narrazione a intervalli temporali e luoghi differenti, con la voce fuoricampo di Snowden a scandire, e si accosta tranquillo a recentissimi lavori di taglio giornalistico, quali “Il caso Spotlight” e “Truth – Il prezzo della verità”. Ma quel che più gli aggrada, e ne fa un ulteriore tassello della sua cospicua filmografia, è la contraddizione di chi, doveroso, sente il compito di riverire con orgoglio il Paese, e soprattutto il senso di responsabilità secondo lo standard americano, che finisce per scontrarsi con le labili certezze di esso. La figurina di Snowden è caratterizzata dal volto pulito di Joseph Gordon-Levitt, la cui inespressività si spiega con la scelta di apparire un candido sotto la scorza, mantenendo inalterato il senso etico quand’anche il rigore professionale gli impone di preservare la sfera personale da quella pubblica. Ma è faticoso, quasi utopico, mantenere inalterata la primigenia purezza e far sì che la contrapposizione fra entrambi i nuclei non vada in rotta di collisione. Se ne ha la riprova quando il labirinto di immagini e informazioni, la cui pesante tornata si accumula sulle spalle di chi vi è inserito, pesa come un macigno finendo per minarne l’equilibrio e la salute. Per due volte Edward è preda di attacchi epilettici, eppure la diabolica spirale in cui il giovane si insinua, che innesca una dicotomia tra reale e virtuale, lo induce a non approvare che Lindsay, la compagna, gli chieda innocente se prenda il farmaco prescrittogli dal medico. Da indiretto spione, Snowden si sente a propria volta scrutato, anche nella più intima sfera. E il sempre più crescente senso di paranoia, scaturito dietro la spia rossa nella webcam di un portatile, costringe chi è del ramo a estreme misure di sicurezza (applicandovi un banale cerotto).

Nonostante la pericolosità dell’area, che camuffa ovviamente i reali intenti dietro un’aura accattivante, il villaggio globale nel quale il protagonista sa di essere un piccolo mito conserva un eguale allettante potere, dove il controllo economico e sociale – gli sentiamo dire – protegge la supremazia del governo americano. Lo stesso incontro con la ragazza che diventa la sua compagna si concretizza dopo interazioni in chat. E in una lunga sequenza che immerge il volto narrante di Snowden in un fascio di luci cibernetiche e fotogrammi virtuali, lo spettatore coglie quell’innegabile, irresistibile sensazione; purtroppo però, a meno che non si tratti di una provocazione, l’esito è una parentesi dispersiva, che trasforma una dissertazione di denuncia civile in uno spot pantografato. In tale ottica, “Snowden” giunge come la centomilionesima variante di un Paese dei Balocchi nei cui anfratti il potenziale Pinocchio coglie in extremis la parete sinistra di un’abnorme balena, dalla quale uscire ricorrendo alle proprie risorse mentali. In tutti gli episodi in apertura a montaggio alternato, in cui Edward risponde alle domande di chi è chiamato a esaminarne le competenze, si coglie un vago sapore kafkiano. Che torna, a mo’ di riprova, nella scena in cui il giovane, davanti allo schermo di un ufficio, si trova vis-à-vis con O’Brian: il volto grandangolare del secondo, deformato nei tratti grotteschi, ne mette a nudo la reale facciata di un cervellone diabolico, la cui posizione di onnipotente Grande Fratello permette di monitorare l’esistenza di ognuno, compreso l’impaurito protagonista, indotto a prendere una decisione.

Nonostante qualche opinabile scelta registica – ma del resto Stone non ha mai brillato per leggerezza autoriale – in “Snowden” la volontà di fare il punto sui forti contrasti della nazione conduce a un’indagine tesa a scavare nei retroterra più sinistri, conciliando con una resa scenica e una spettacolarizzazione dell’evento d’indubbia ambiguità, ma, nonos

tante la pomposità, di sicura efficacia. L’epilogo in cui Snowden si collega da Mosca, e racconta la propria verità a uno show televisivo in diretta planetaria, sembra sospendere la posizione del regista nei confronti del personaggio, che sembra volersi limitare a una narrazione non partecipata sul piano emozionale. E nello spettatore trapela inevitabile un certo sospetto, testimoniato anche dal bizzarro preview cinematografico in cui il cineasta, rivolto allo spettatore, illustra gli agi e i danni nell’utilizzo dello smartphone e invita, se non si vuole restare invischiati nella rete del voyeurismo informatico, a spegnere l’oggetto in sala.

Il regista Oliver Stone

A dispetto di qualunque considerazione possibile sulla materia – e Stone sa bene che ne deriverebbe un’ulteriore catena mondana di superflua finalità – “Snowden” è un lavoro assai più sobrio (e innocuo) di numerosi titoli precedenti, al pari di “World Trade Center” o “W.”. Ma resta invariata la politique del cineasta verso ambigue finestre, dove potenziali eroi smascherano il lato sordido di chi, alla maniera di un Gordon Gekko, mira ad avere il totale controllo dell’esistenza altrui. L’operazione presenta aspetti superati, certo, eppure genuini, cui non si può non guardare con sorriso, a dispetto di lavori a tema che negli anni Settanta costituivano un capitolo della New Hollywood, e che gli anni del revanscismo reaganiano avrebbero ulteriormente ribadito. Di fatto, non si può non pensare alla vicenda, realmente accaduta, che stava al centro di un film (peraltro modesto) di John Schlesinger, “Il gioco del falco,” in cui – spinto dalla delusione – il fattorino di un’azienda che costruisce satelliti-spia per la CIA decide di collaborare con l’Unione Sovietica inoltrando materiale top secret della ditta. In “Snowden” la vicenda di quest’occhialuto Bud Fox, che compiuta un’impresa impossibile si trasforma al ralenti in una piccolissima sagoma nera, e su uno sfondo di mistico biancore arringa la folla come Ron Kovic e si fa oggetto di mitizzazione nell’epoca della comunicazione totale (come Barry Champlain, Jim Morrison, Mickey e Mallory…), sarebbe potuta diventare qualcosa di più coraggioso e feroce nelle mani di un Frankenheimer o di un Lumet. O, stando alla New Hollywood da cui Stone discende, del Pakula di “Perché un assassinio” o del Coppola de “La conversazione”. Piace pensare che la catarsi di Snowden, obbligato a fare la cosa giusta per fuggire da un’altra prigione (come un aggiornato Billy Hayes di un nuovo allegorico “espresso di mezzanotte”), detenga parentele con lo Scorsese di cui Stone e Spike Lee furono allievi. C’è persino un’affinità nel desiderio di americanizzazione progredita di Edward col Jordan Belfort di “The Wolf of Wall Street”: tanto che l’amicizia tra lui e l’esperto informatico Hank Forrester può rammentare quella tra Belfort e lo scaltro broker Mark Hanna. E il principio di salvaguardia dell’onorabilità Stelle e Strisce in senso etico può trovare sponda, volendo, nell’ultimo lavoro di Clint Eastwood, “Sully”.

Il resto è lo Stone abituale che lo spettatore riconosce in molti inserti: la petizione anti-Iraq in luogo di quella contro il Vietnam in “Nato il 4 luglio,” l’addestramento militare che procura a Edward una frattura alla tibia, la contraddizione statunitense nella complicità amorosa tra un wasp e una giovane liberal, il vero Snowden che sostituisce quello fittizio nel finale come il vero Nixon nelle immagini documentaristiche che rimpiazzavano Anthony Hopkins sugli ending credits. E al pregio, come sempre, si contrappone un usuale difetto di manico dovuto a soluzioni ingenue (le bistecche che abbrustoliscono sulla brace quando il terreno per Snowden si fa minato) o didascaliche (il cubo di Rubik che racchiude la soluzione del problema). Il risultato è un’operazione volutamente discontinua la cui utilità, benché vi si assista con piacere come a un normale thriller, non è ripagata da una mordace necessità. Troppa è la zavorra, illustrata soprattutto dal capitolo sentimentale del protagonista col proprio angelo demiurgico.

Quel che resta impresso è il tratteggio psicologico di un mostro del web suo malgrado, tramutato dalla paranoia in una sorta di vampiro che malvolentieri accetta di farsi fotografare, e che per bloccare le radiofrequenze degli smartphone dei suoi intervistatori ricorre a un microonde. Abbastanza vispo però da superare l’estrema responsabilità, avvalendosi della complicità di un collega di colore col quale, per salvare le apparenze, ricorre al più antico (e misconosciuto) dei linguaggi in codice: quello dei segni. E non si può negare che la frenesia di una civiltà fondata su immagine e complotti ad ogni angolo, abbia reso Edward un’effigie apolide come la famiglia che lo nasconde, indotta a pagare un dazio di emarginazione e solitudine, per amore di ciò che resta pur sempre un’etica condannata a quel velo cantato da Peter Gabriel, in chiusura. Tanto meno, negare che un titolo come “Wargames – Giochi di guerra,” dietro l’assunto dell’apologo teen anni Ottanta, abbia trasceso la realtà con l’arma del paradosso, facendosi la realtà concreta che, oggi, prodotti quali “Snowden” possono solo descrivere senza più (voler) graffiare.

IL MOSTRO DELLA BUONANOTTE NELLA FIABA AL CONTRARIO: “BABADOOK”
di Giorgia Pizzirani

Se vuoi dominare le tue paure, devi imparare a conviverci. Dando loro da mangiare, nutrendole ma tenendole alla catena, certo che se non puoi sbarazzarti di loro puoi almeno tenerle sotto controllo. Questa la sintesi dell’originale “Babadook”, uscito nelle sale nel 2014 come opera prima dell’australiana Jennifer Kent.

Anagramma di A bad book (Un libro cattivo), è un film di genere in cui regnano sovrane le paure di tutti i bambini, incarnate dalle tradizioni di tutto il mondo in creature più e meno mostruose.

Vivere con le proprie paure (disegno)

Il Babau del folklore italiano, affine per sonorità e contenuti al Babaroga slavo e al Boogeyman americano (perché chi non ricorda che “se non fai il bravo ti daremo all’Uomo Nero?”); alla Baba Jaga russa al Barbablù gentiluomo decapitatore di mogli curiose di Perrault a El Coco dei Paesi ispanofoni: nello spauracchio che dimora sotto il letto di ogni essere umano che ancora conserva un pizzico di imprevedibile timore di veder succedere qualcosa col favore delle tenebre.

La trama del film è semplice, costruita ad arte intorno alla storia di una madre e un figlio: da un cartonato pop-up per bambini, comparso come per magia al di sopra di un armadio, l’infermiera Amelia, giovane mamma vedova, e il piccolo Samuel, problematico bambino di sei anni, leggono le strane storie del Babadook, un essere del buio dalle forme inquietanti e angolose. Sera dopo sera, Samuel vede l’immaginario protagonista del libro diventare reale, occupando i suoi pensieri e i luoghi fisici in cui vive. Notando in lui un crescente peggioramento comportamentale, la madre decide di distruggere il libro senza però mai riuscirci: il testo ritorna ogni volta intonso nelle loro mani (sinistro e ironico presagio del fatto che il libro di carta non morirà mai). La situazione, già critica per via della condizione familiare ai margini della società, degenera quando Amelia e Samuel si ritrovano più che mai distanti, ognuno apparentemente perduto nel proprio antro di follia, fuori controllo e privi di barriere contenitive, tra ansiolitici e urla paranoidi fino alla risoluzione finale in cui uniscono le forze (e le paure) per dominare il mostro che li sta mangiando vivi da tempo. Non sono lasciati dubbi al caso: la madre, scendendo le scale della cantina con silenziosa reverenza, porta un piatto con cibo nello scantinato da cui arrivano rumori gutturali e profondi. C’è qualcuno/qualcosa legato alla catena, e il pranzo è per lui; la madre risale piano le scale per poi tornare in giardino a festeggiare il compleanno del figlio, finalmente riuniti e in procinto di costruire una normalità.

La paura è il sentimento più forte per l’uomo, e il meno controllabile: proprio su questo ruota la trama di una delicata quanto visivamente impattante fiaba nera e contemporanea. Le ombre e i grigi di Murnau, insieme alla stessa locandina disegnata sfruttando angoli acuti, rimandano all’Espressionismo tedesco; il mostro Babadook non può non farci pensare al “Gabinetto del Dr. Caligari” e ai videoclip anni Novanta del primo Marilyn Manson; alla difficile distinzione tra realtà e allucinazione, alla scenografia a tratti spenta e passiva – i tratti della realtà quotidiana triste e sbiadita dei due protagonisti – a tratti allucinante con deformazioni dell’ambiente e dei contorni – quando la realtà svanisce per lasciare spazio alla notte, al subconscio, ai timori, all’Unheimlich.
La quotidianità ripetitiva e asettica delle giornate viene scandita dai turni in ospedale di Amelia, dalle telefonate esasperate degli insegnanti di Samuel che lo tacciano di sociopatia all’ennesimo comportamento violento, dagli atteggiamenti di compatimento e finta partecipazione delle altre madri di bambini quieti e “normali” che escludono lei e il figlio dal magico cerchio della normalità.

Siamo tutti molto simili a quel bambino e a quella mamma, piccolo mondo ancora non scinto – e ancora in una situazione in cui sono un unicum quasi inseparabile, alle prese l’uno con l’altro.
La madre che incolpa nel subconscio il figlio della morte del marito, ucciso in un incidente d’auto la sera del parto di Samuel; il bambino che non vuole approcci umani né tanto meno sociali con nessun altro che non sia la persona che gli ha dato la luce, e che inesorabilmente si chiude sempre più in se stesso: violento, disadattato, pericoloso per se stesso e anche per gli altri.
Questa opera delicata e impressiva è anacronistica in moto retto e contrario, e qui risiede la sua forza: “Babadook” è una fiaba che può essere letta a un bambino come racconto della buonanotte (o forse come monito a dormire senza capricci e soprattutto conscio del fatto che ha sufficienti attenzioni da parte dell’adulto di riferimento) ma anche una riflessione fredda e oggettiva da parte di un adulto, di un “grande”, che ogni giorno deve comunque misurarsi con le paure di ieri, di oggi e di domani. Contemporanea, perché la paura del diverso è quanto di più radicato nell’antropologia umana ci sia, il sentimento più forte che l’essere umano possa provare. La paura si manifesta nell’archetipo e topos del luogo oscuro, del buio, dell’ancestrale paura dei bambini per lo stare soli, la personificazione delle paure e conseguente richiesta di attenzione che assume magicamente forma nel Buio, dove ogni cosa può accadere.

Ci sono due sovversioni qui a cui lo spettatore deve fare fronte: il rapporto con la madre che, contraria a ogni spirito materno e ragionevole, odia il figlio perché ha causato involontariamente la morte del padre; e il libro, che non è uno strumento buono a disposizione dell’eroe bensì il portatore del male, il veicolo dell’antagonista che per assurdo non è altro che la nostra immagine riflessa. Questo straniamento, tanto geniale quanto fastidioso nella sua originalità, lo connota suo malgrado anche come intrigante venatura horror senza però mai scadere nei cliché che connotano lo stereotipo del film horror. Perché il libro è l’oggetto chiave, semanticamente denso come nella migliore delle fiabe dark: non inteso come strumento di conoscenza, bensì come porta verso un mondo non, questa volta, esterno; bensì interno, verso le profondità dei personaggi che sfogliano le sue pagine, che si avventurano in un sentiero più pericoloso di una semplice avventura ma anche catartico, salvifico, devastante ma vero e incontrovertibile.
Perché il libro sempre ritorna tra le mani della ignara Amelia, fino a crearne il vuoto e spingendola sull’orlo della follia? Possiamo capirlo e addirittura accettarlo, quando questa condizione riguarda solo Samuel che, essendo un bambino, reagisce con atti estremi, non avendo ancora imparato a mediare i dolori e le incomprensioni della vita – non ancora “corrotto” dalla vita di adulto. Ma ci mette con le spalle al muro, poiché il punto di contrasto è la stessa Madre, generatrice di vita (e che, come in ogni fiaba a lieto fine che si rispetti, torna a stare dalla parte del bene) e di furente senso di abbandono di essa stessa, che vede nel figlio (il dono più prezioso per una madre) la causa del suo infinito male di vivere, della sua angoscia, della frustrazione così totale da spingerla sull’orlo di atti omicidi).

La storia avvolge lo spettatore dimostrando che tutti abbiamo un Babadook da cui dipendere, e a cui far fronte. Ci dobbiamo convivere, e chissà che non sia proprio lui a convincerci a lottare ogni giorno, a spingerci a superarci, a incanalare frustrazioni quotidiane in atti propositivi, a lasciare da parte quel senso di impotenza che ci rende schiavi dell’inedia e della rassegnazione, della paura perenne di essere fuori posto, di un passato pieno di dolore e difficile da chiudere come risolto e accettato. Niente altro che la personificazione del domani che, seppure alla luce, è figlio di un ieri pesante con cui dover sempre fare i conti. Una leggenda pellerossa racconta che in ognuno di noi albergano lupi differenti, e che vince – ovvero prende il sopravvento – il lupo a cui dai da mangiare. Non è sempre così: vince il lupo che addomestichi, del quale impari a reggere lo sguardo, su un podio a metà.

UNA FILMOGRAFIA TARGATA LD
di Francesco Saverio Marzaduri

                                                                                  “E se finirai perché lo so che finirai

                                                                                  Da qualche parte arriverà un altro amore, amore, amore

                                                                                  Ho aspettato mille anni

                                                                                  Aspetto altri mille anni

                                                                                  Per veder che faccia hai

                                                                                  Adesso dimmi dove sei

                                                                                  e perché non ti ho trovato mai.”

                                                                                   .                                 LUCIO DALLA, Cinema

“Un uomo come me / si allontana di sera / credeva fosse inverno e muore a primavera…” Uno degli inevitabili, macabri giochi che si fanno quando se ne va un grande e amato artista, di quelli la cui musica è parte della colonna sonora della nostra esistenza, consiste nell’individuare il brano che meglio armonizza il suo sguardo sul mondo e la sua dipartita. E ciò, non necessariamente in filigrana. Nel caso di Lucio Dalla, dalla cui scomparsa ci si sorprende siano volati già cinque anni, chi scrive confessa che la prima canzone a cui pensa era la malinconica, struggente “E non andar più via”. Come se l’eccentricità di un piccolo uomo, alle prese con la quotidianità e i malesseri conseguenti, fossero già stabiliti, come semplici e preziose eredità, in quei versi dove note dolenti accompagnavano una nuvola in fuga verso un infinito carico di nostalgia ed incertezza.

Eppure, proponendosi di riesaminare il personaggio Dalla nelle poche apparizioni sul grande schermo da lui concesse, a conferma di un’ineguagliabile multiformità dell’artista, fa specie ripensare ai versi conclusivi di “Un uomo come me”, scritta insieme a Paola Pallottino e incisa nel 1971 per l’album “Storie di casa mia”, dal momento che neppure le menti sensibili e pensanti sono in grado di programmare con esattezza la propria fine. È, ancora una volta, il Fato, con le sue casualità e i suoi tragicomici schemi a permetterlo. E Lucio si è spento in un mattino di marzo, tre giorni prima di compiere sessantanove anni, eppure non ancora primavera. Anche se lo springtime poetico e artistico l’aveva già descritto, distillato in tanti suoi componimenti, e pazienza se le carte del Destino hanno disposto diversamente. “Un uomo come me”, dai cui versi conclusivi è opportuno partire, fu impiegata come leitmotiv per una dimenticata commedia a firma Adalberto “Bitto” Albertini, “Il santo patrono”, dove Dalla vestiva i panni di un giovane prete del paesino di Ponte Paradiso che cercava di convincere i propri parrocchiani a tornare in chiesa dopo che il Vaticano aveva declassato, togliendolo dal calendario, il santo protettore della comunità. Va da sé che le interpretazioni di Dalla al cinema, oggi più che mai, costituirebbero il principale motivo di culto, e in qualche caso l’unico, di pellicole realizzate talvolta da nomi importanti, e talaltra (come nel caso di Albertini) figlie del tempo e del suo spirito, ingenuo e finanche sempliciotto. Il valore di culto non consiste unicamente in Lucio o nei ruoli da lui impersonati, da identificarsi con la stralunata follia del personaggio nel privato e nel pubblico: ma pure nei registi che quel personaggio hanno impiegato per apologhi difficili da classificare, oggetti misteriosi a metà strada tra la favola dolce-amara e il pamphlet politico, e in qualche circostanza niente più che una provocazione.

Che poi a Dalla sia stata dedicata una favola generazionale cui il tempo e il culto hanno reso giustizia, “Borotalco” di Carlo Verdone, è nella memoria di tutti. E forse proprio la sua presenza extra-diegetica (ma nel contempo diegetica, in relazione al contesto narrato), resta la sua memoria filmica più riuscita, in quanto mitizzata da sogno e illusione. Una memoria che, senza il timore di dirla grossa, persino oscura le principali caratterizzazioni del musicista per il grande schermo, per tacere delle inevitabili partecipazioni nei musicarelli, facendole apparire invecchiate. Dove il pur presente talento è schiacciato dall’icona istrionica e dalla sua filosofica visione del mondo – ora ottimista e picaresca, ora grottesca e disincantata – che sarebbe stata la medesima di un emisfero artistico. La ragione di tale invecchiamento va cercata in un’epoca e in un Paese inesorabilmente lontani anni luce: alla soggettiva volontà di credere in un nuovo spirito di rivalsa politico-individualista, costretto a subire le conseguenze della scomparsa di un capo di partito, si alterna la straniante partecipazione in un feuilleton erotico-adolescenziale di serie B, appiccicata, come un numero di varietà, in un contesto discrepante che non molto ha da spartire con la poesia e il sorriso. Fra un titolo e l’altro, Dalla addirittura si cala nei panni di un avvinazzato clochard dal volto indecifrabile in un horror-thriller di basso livello, “Il prato macchiato di rosso” (di tal Riccardo Ghione), del quale scrive l’omonimo, gioioso brano che apre e sigla il film. Prima di tornare protagonista di una missione religiosa in un ambiente di provincia, con tutti i più ingenui crismi barricaderi, e ridursi a stravagante cameo di un apologo fantasy sospeso tra il Fellini rurale e il Ferreri che, a dispetto del prototipo, non riesce ad essere altrettanto dissacrante. Né andrebbe trascurato il ruolo di narratore-cerniera in una grossolana, trascurabile commedia a episodi (“Franco, Ciccio e le vedove allegre”, regia di Marino Girolami), in cui, va da sé, fa un’ineluttabile introduzione musicale; o il personaggio di Francis Fitzgerald Grawz che in “Little Rita nel West”, a firma Ferdinando Baldi, aiuta la pistolera Rita Pavone prima che lei s’invaghisca di un giovane Terence Hill. Ognuno di questi bozzetti costituisce un tassello utile a definire una mitologia, un fenomeno culturale e controculturale già inarrivabile (e adesso, se si vuole, anche di più): che si cimenti o no in performance musicali, che sia doppiato o meno quando recita, Lucio è un po’ tutti e, invero, nessuno di loro. Per dirla con le sue stesse celebri parole, “l’impresa eccezionale, dammi retta, è di essere normale”.

È l’epoca, prima ancora che i registi di tali prodotti, a permettere che una stralunata parentesi, come una meteora scesa da chissà quale pianeta, rechi l’impressione di un ápeiron, di un enigmatico e non meglio identificato oggetto. Se poi quell’epoca di tenerezza consentiva di tutto, e la voglia di ribellarsi al Sistema conformista non intaccava più di tanto la concessione al sogno nella più ingenua, quando non malfatta delle confezioni, viene da sorridere e commuoversi. E pensare che del fattore-curiosità, allora così insistente in qualsivoglia contesto, oggi non è rimasta che una fossilizzata traccia. Non resta che ripensare a quelle partecipazioni, in un complesso di diciassette lungometraggi, rilasciandosi alla sfera della fabula: a pensarci bene, l’ingrediente che meglio di ogni altro permette di raggruppare titoli differenti nella forma, eppure legati dal pattern del sogno a occhi aperti (lo stesso onirismo che il citato Verdone, a mo’ di matrice, avrebbe astutamente individuato per “Borotalco”). Dopotutto, anche l’ultima apparizione di Dalla per il cinema, “Quijote” dell’artista transavanguardista Domenico “Mimmo” Paladino – qui all’esordio dietro la cinepresa – andrebbe visto come un giocoso (con)tributo al mito di Cervantes in chiave surreale, dove Lucio si cala con spirito nei panni di Sancho Panza. Per tacere della fiction televisiva “Artemisia Sanchez”, in cui oltre a comporre le musiche – operazione sovente condotta per il grande e il piccolo schermo – interpreta il vescovo Falvetti.

A dire della concezione di favola, un po’ per combinazione e un po’ no, contribuirebbe anche il cameo da musicista per “Questi fantasmi” di Renato Castellani. E nell’ambito del cinema d’autore – fermo restando una pellicola datata, troppo debitrice dei dichiarati vezzi godardiani – “I sovversivi” reca un inalterato desiderio di freschezza dove la coralità di più segmenti intrecciati, con al centro cinque personaggi, è indotta a tirar le somme con funeste realtà. Realtà che pongono a disagio gli schemi controcorrenti dei protagonisti, e in qualche caso il bonario candore, conducendone le speranze a una crisi che impone amari ripensamenti. Come nel caso di Ermanno, laureato in filosofia, che lavora con Muzio nel suo studio fotografico: mentre questi è fedele al partito, Ermanno (l’interpretazione più rilevante di Dalla) si rivela, già nel corso dei funerali di Togliatti, ribelle e anticonformista. Il suo percorso è oggetto narrativo destinato, come quello dei quattro compagni, al fallimento. E le sue lacrime da “ventitreenne che dimostra quarant’anni,” nella folta folla che assiste alle esequie di Togliatti, manifestano un pensiero irrequieto e contraddittorio, la cui anima – nel film messa letteralmente a nudo come il suo corpo – incappa nella volontà di far qualcosa. Ma il suo gesto, che poco manca di scatenare una rivolta durante il corteo funebre, è presto sedato per non rovinare l’atmosfera dell’evento. La deflagrazione è etichettata come fuori luogo, un po’ come accade agli innumerevoli paradigmi del partito di sinistra. Eppure si tratta di un’azione-meteora in un contesto conformista e uniforme, sempre uguale a sé stesso, dove le teorie restano belle parole e la pratica si rivela tutt’altro. La varietà di accenti in controtendenza che Dalla conferisce al personaggio tratteggia un trascorso difficile, dalla problematica e osteggiata unione con una donna più grande alla rinuncia a una carriera accademica. E il ritratto che ne consegue è la proiezione di un turbamento agli antipodi dell’Italietta spensierata immortalata da Carosello, simulacro nazional-popolare di un Paese e di un’era che, nel proprio consumismo, abbisogna di quel gramo barlume di fiducia favolista, ridotto a una manciata di minuti, per dissipare alcune lancinanti premonizioni. Proprio i Taviani chiedono a Lucio di rivestire i panni dell’aspirante fotografo à la mode dopo averlo diretto in un Carosello che lo vedeva scanzonato clarinettista e voce del complessino I Flippers, mentre girovagavano per le strade a ritmo di swing.

Se la contestazione sessantottina finisce per far da pretesto anche a basse produzioni o a confezioni sciatte, nel fotoromanzo “Amarsi male” (conosciuto anche col titolo di “Brucia, amore brucia”) di Fernando Di Leo, Lucio è chiamato a rifare il personaggio di Ermanno con in più i ghiribizzi, le stravaganze, le follie del personaggio-mito tipico, e non a caso qui porta il suo nome anagrafico. La presenza di Dalla in questo fotoromanzo soft-erotico molto tedioso, e per nulla pruriginoso, è il solo motivo d’interesse e le sue apparizioni, come assortiti gag televisivi, hanno il solo compito di sdrammatizzare un abusato impianto narrativo: il ménage à trois tra uno studente d’architettura politicamente impegnato e prossimo a laurearsi, la fidanzata figlia d’un ricco imprenditore e una donna più matura, segretaria e amante dell’industriale, con cui il giovane intreccia una breve relazione. Nella vicenda, Lucio è il fool che, amico dei protagonisti, mangia da solo la foglia lasciando che la cosa gli rimbalzi addosso senza intaccarlo: non si fa scrupoli a manifestare come la pensa a chi s’infila nell’intrigo (“Guarda che a me di te non me ne frega niente, eh?”), ma non approfitta di chi, abbandonata in una situazione infelice, gli si propone con avances. Il ruolo è quello di un libertino slegato dal conformismo, ma il suo marcato eclettismo finisce per rubare un’attenzione peraltro scarsa, rischiando di essere debordante, tanto che è il plot sentimentale a passare in secondo piano e non viceversa. Un impietoso Mereghetti, tuttavia, lo definirà “penoso come macchietta comica”.

Del picaresco, che si risolve in una scanzonata e innocua avventura per ragazzi, ha il citato “Il santo patrono”, dove pure la trama è solo alibi per una lunga serie di sketch, perlopiù di grana grossa e dagli altalenanti risultati. Le autorità ecclesiastiche si accingono a sostituire il patrono di un paesino di montagna, santificato per errore, con un altro santo: ma la popolazione insorge. È soprattutto l’intervento di alcuni bambini, insieme al sacerdote don Arcadio, a sventare il piano di alcuni malfattori che speculano sulla presunta preziosità della reliquia di San Satiro vedovo, prima di allestire nel proprio ritrovo una sorta di piccolo santuario, facendo credere che uno dei bimbi sia stato miracolato. Per rendere l’effetto ancor più reale, fanno lacrimare sangue finto dagli occhi della statua e l’idea potrebbe mutare la decisione della curia. Il film si conclude con i paesani e il sacerdote che, accorrendo per rendersi conto dell’accaduto, assistono increduli fra la gente stupita e i devoti che piangono e si prostrano con offerte dinanzi alla reliquia. Rivedendo il filmetto si sorride teneramente, sapendo che le statue religiose lacrimanti non fanno ormai più notizia né effetto. E Lucio, in mezzo a una combriccola di fanciulli, pare uscito da una confezione camp in stile “Avventura”, il mitico contenitore RAI pomeridiano della seconda metà degli anni Sessanta: del resto, Dalla fu conduttore di un altro format per ragazzi, “Gli eroi di cartone”, di cui firmò e incise l’indimenticabile sigla. E ormai niente più che goliardico, benché sempre surreale, è il cameo per l’amico Pupi Avati ne “La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone”: un contadino malato di tifo da bambino, guarito dopo che la madre l’ha fatto salire sul fico del titolo per chiedere la grazia, che si rifiuta di abbattere l’albero. E che, pelosissimo e a bordo di un trattore, dileggia le prostitute lungo le vie di campagna.

A cinque anni dalla scomparsa è inevitabile che il personaggio-Dalla sia divenuto oggetto di ricerca per progetti televisivi e cinematografici, documentari e shorts. Contrariamente alle aspettative, però, è da segnalare che proprio il fattore protagonista dell’assenza restituisce correttamente oggettività al mito, senza il rischio di cadere nel morboso o nel cattivo gusto. Il cortometraggio “Anna bello sguardo” di Vito Palmieri, per esempio, prende spunto da una fotografia e dai versi di “Anna e Marco”: l’autore chiede ad alcuni bambini della scuola media “Testoni Fioravanti” di comporre un soggetto su Dalla, e uno di loro, vedendo la famosa istantanea che lo ritrae con Augusto “Gus” Binelli, lo scambia per un cestista. Il che funge da innesco per un’operina di un quarto d’ora, in cui il piccolo Alessio, troppo basso per giocare a basket e troppo timido per conquistare una coetanea, grazie alla foto in questione trova il coraggio per riuscire in ambedue gli obiettivi. Il cortometraggio vuole esplorare i luoghi tipici di Lucio nella sua Bologna, inclusa la via D’Azeglio ove abitava e in cui la gente, tutti i giorni, interrompe il passeggio per ascoltarne le canzoni, cosa che non accade in nessun altra città. Di recente uscita è “Caro Lucio, ti scrivo”, docu-fiction diretto da Riccardo Marchesini e tratto da uno spettacolo teatrale di Cristiano Governa, il cui intento risiede nel cambiare la prospettiva, l’angolo d’inquadratura intorno alla narrazione del mito. Lungo un itinerario costantemente in bilico tra fantasia e realtà, sono i “figli,” ossia gli immaginari protagonisti di alcune tra le sue melodie più celebri, a parlare di lui. E a tal proposito va ricordato “Senza Lucio”, a firma di Mario Sesti: evitando la strada convenzionale del documentario biografico – costruito su sicure basi d’immagini d’archivio e climax musicali di facile impatto emotivo – il film lavora appunto sulle ragioni dell’assenza che un autore così creativo, curioso e istintivamente empatico ha lasciato nei singoli. Si evita il facile pericolo della convenzionalità e del santino buonista, ed è tale assenza a garantirgli il miglior pregio: a parziale garanzia di ciò è il coinvolgimento, in voce fuoricampo e in veste di autore di molte istantanee inedite, di Marco Alemanno. Cifra che, come scrive Raffaella Giancristofaro, assicura all’opera una linea precisa: la volontà di non fare sensazionalismo ma di condividere con la collettività un lutto per elaborarlo. Preservare uno spirito, una comunicazione altra, impalpabile ma presente, con chi non è più in luoghi, ambienti, persone. E il risultato, più simile a un componimento poetico che alla cronaca apologetica di una carriera, è soprattutto un’indagine sull’instancabile ricerca di uno sperimentatore, amante del cinema e di ogni arte performativa. La cui presenza s’individua in due sole riprese, una pubblica e una privata, laddove i filmati di repertorio sono ridotti all’osso.

In un’era già profetizzata e fotografata con rancida ironia in un malinconico brano – quel mondo di cartone dove i “sogni / sono così pallidi e bianchi / e rimbalzano stanchi / tra le antenne lesse / delle varie tivù / e ci ritornano in casa / portati da signori eleganti / cessi che parlano / tutti quanti che applaudono / non ne vogliamo più” – la prematura scomparsa di Lucio è divenuta, in brevissimo tempo, qualcosa di troppo inatteso. Qualcosa di fronte alla quale l’impreparazione ha dovuto fare i conti con la memoria generazionale e la sua colonna sonora: il che spiegherebbe l’impiego di alcune sue canzoni nei recenti “Sacro GRA”, “Il nome del figlio”, “Nessuno si salva da solo”. Se per ricordarlo davvero basterebbe una canzone (o più d’una, a seconda dei gusti) o chi lo sa, chi scrive vuole rammentarne la presenza scoppiettante di energia ed esuberanza nel rockumentary nostrano “Banana Republic” di Ottavio Fabbri (con un giovane Giacomo Campiotti come assistente alla regia). Nonostante la confezione, elementare ma tipica dello specifico genere, lo si vede al fianco di Francesco De Gregori, di musicisti e roadies sul palco e fuori, in privato e in scena, mentre rilascia interviste o prova le registrazioni. Fattori che non solo testimoniano due distinti sguardi di un’identica medaglia sul concetto di melodia – ruspante e sanguigno l’uno, introverso e finto-snob l’altro – ma rimangono l’imprescindibile testimonianza-specchio di un Paese e un’epoca lentamente volata via: come i fiocchi di cotone che aleggiano in apertura invadendo la stanza dove Lucio dorme, e in chiusura, nel tripudio della folla, a concerto terminato. Volata via come lui, personaggio eclettico capace di improvvise esplosioni e lunari follie, come il bagno in mare con l’immancabile clarino, con cui gioca in costume sulla spiaggia smontandolo, rimontandolo, e descrivendone pezzi e funzioni in un irresistibile grammelot a ritmo di scat. E ancora sedersi pensoso a rimirare il mare al tramonto, o scusarsi in prima persona con gli spettatori paganti per avvertirli che, causa un violento temporale, la serata non potrà aver luogo. Quando non basta(va) saper cantare…

 

VISSI D’ARTE, VISSI DAMORE…
di Barbara Grassi

                                                                                  “Nessuno ha mai scritto o dipinto, scolpito, modellato,
                                                                                   costruito, inventato, se non di fatto per uscire dallinferno”.

.                                                                                                                           (Antonin Artaud)

Ciclicamente, la produzione statunitense cerca di rivisitare i generi, dal noir, ai gangster e war movie, ai film storici, al western sino al musical e oltre. Tendenza che continuerà visto che è già stato annunciato l’ennesimo remake di “È nata una stella” (2018), interpretato da Lady Gaga.

Si può parlare di rilettura anche per il film francese “The Artist” (2011). Scritto e diretto da Michel Hazanavicius, suscitò grande interesse alla sua uscita, conquistando vari riconoscimenti. Debitore tra gli altri di “A che prezzo Hollywood?” (1932), di Cukor e “Cantando sotto la pioggia”, (1952) di Donen e Kelly, possiede molti punti di contatto con svariate pellicole del cinema italiano delle origini. Analizziamone alcuni: un famoso attore cinematografico; una fan, aspirante attrice che sa danzare; il declino del grande attore; la giovane che grazie al suo talento diviene una star. L’aspetto metacinematografico. La depressione dell’ex attore dopo il fallimento professionale, l’oblio, il desiderio di distruggere la propria immagine, l’arte e il glorioso passato, bruciando le pellicole dei suoi film. Il tentativo di suicidio. La nuova star che ama e si prende cura dell’ex divo, riportandolo in auge. Infine, un cane fedele che salva l’attore da un incendio.

Temi che si ritrovano in “Dalle tenebre alla luce” (1910), dove una giovane attrice teatrale, Elena, che mantiene a stento una madre malata e una sorella, viene licenziata dall’impresario per essere arrivata tardi alle prove. Dalla sua parte si schiera il famoso attore Garrich Thorn, che dopo averla consolata le presta del denaro. Anni dopo, Elena è divenuta una grande artista, e Thorn è stato dimenticato dal pubblico. Ora sarà Elena a prendersi cura di lui. Meno fortunato è il protagonista de “I diritti del passato”, (1912). Antonio, ex attore teatrale, caduto nell’oblio e ridotto in miseria, viene trovato svenuto sopra un cumulo di rifiuti. Portato in un ospizio per ristorarsi e riposarsi, si abbandona al ricordo di quand’era il beniamino del pubblico, e centinaia di mani applaudivano il suo solo apparire sulla scena. Tornato alla desolante realtà, fugge via dal rifugio, verso l’ignoto. Senza addentrarci troppo nell’analisi, si pensi a quanto sia stato importante, per la cultura degli attori, soprattutto cinematografici, l’invecchiare. Già nel XV secolo, Zeami, fondatore del teatro classico giapponese Nō, lo considerava il problema dei problemi per l’arte dell’attore. Se l’attore teatrale, poteva ripensare, alla propria carriera, l’attore del cinematografo poteva anche rivederla. L’attore di cinema è attore del fatto compiuto. Il personaggio è un’esperienza conclusa, di cui l’attore stesso diventa spettatore. Circostanza immortalata in molte sequenze che mostrano attori e attrici anziane, guardare sullo schermo la propria immagine giovane, e in essa rispecchiarsi, essere preda del rimpianto, inorgoglirsi o compatirsi. Come accade a Elena Makowska in “La valigia dei sogni” (1953) di Luigi Comencini, che si confronta con la propria immagine, (mentre le scende una lacrima) o meglio col suo doppio. La vediamo giovane sullo schermo e contemporaneamente matura in platea. La scena è resa ancora più amara dalle risate e battute di un pubblico di giovani, degli anni ’50, che non è più in grado di apprezzare una tale recitazione. Da una parte l’illusione dell’attore per ciò che fu la sua arte, dall’altra la sua età-aspetto, e infine i gusti del pubblico, legati al proprio tempo. Restando in ambito metafilmico, troviamo “La perla del cinema” (1916) diretto da Giuseppe De Liguoro, dove Francesca Bertini, oltre che come interprete, cerca di affermarsi come soggettista (Frank Bert) e immagina che una contadina diventi una stella del grande schermo. Zingarella, fidanzata con Sergio, un pastore, resta affascinata da una troupe cinematografica arrivata in paese. Presto diventa l’amante del primo attore, Max (Gustavo Serena) che la fa scritturare. La ragazza ha talento e inizia a lavorare nel cinema. Nel racconto subentrano i tratti tipici del dramma passionale: Sergio che non sa darsi pace per l’abbandono della fidanzata, aggredisce l’attore e lo uccide . Condannato all’ergastolo, implora il perdono di Zingarella. In questo caso, il dramma funge anche da escamotage per il film nel film: la giovane attrice sentendosi colpevole, decide di girare una pellicola autobiografica, e alla fine del film, si uccide. Attorniata dalla troupe che l’aveva soprannominata “La perla del cinema”.

Morire o suicidarsi sulla scena era tutt’altro che inusuale nelle produzioni degli anni ’10 e ’20. Torniamo in ambiente teatrale con “La ribalta” (1912), pellicola diretta da Mario Caserini, sceneggiatura di Arrigo Frusta, soggetto tratto dal dramma La Rampe (1909) di Henti de Rotschild.

Maddalena Grandier, (Maria Caserini Gasparini) agiata borghese, lascia un marito brutale per fuggire col famoso attore teatrale Claudio Bourgue, (Febo Mari). Presto l’allieva supera il maestro e la gelosia artistica uccide l’amore dell’uomo. Claudio abbandona Maddalena. La donna, disperata, ormai vive solo per il teatro. Tempo dopo, vuol incontrare l’attore per l’ultima volta, lo contatta col pretesto di farlo assistere in privato alla prova di una scena madre, per avere i suoi consigli. L’uomo, lusingato, accetta. Alla fine della prova, nuovamente in balia della gelosia, non si accorge di nulla, ma quando si china sulla donna caduta a terra, comprende che non si tratta di una finzione. Maddalena si è tolta la vita avvelenandosi. Chiaro esempio di come nella maggior parte dei film che hanno come soggetto gli ambienti attoriali, l’impianto drammaturgico e gli stessi intenti, siano simili alle pièces della medesima natura, da cui spesso discendono. Numerose, sono anche le trasposizioni di romanzi di vario genere. Arrigo Frusta uno dei più apprezzati soggettisti dell’epoca, che ha spesso preferito raccontare pene e sacrifici di donne virtuose, piuttosto che le passioni distruttive delle Femme Fatale, non plasma il personaggio di Maddalena come la classica figura della donna angelo. Restituisce una figura a metà strada tra l’ex angelo del focolare o angelo caduto e la donna nuova, contraddistinta da tratti di moderno anticonformismo.

In “Ma l’amor mio non muore!” (1913), regia di Mario Caserini, soggetto di Emiliano Bonetti e G. Monleone, capostipite del Diva film, la poliedrica Eisa Holbein (Lyda Borelli) decide di avvelenarsi in teatro, mentre recita “La Signora dalle camelie”, alla fine dello spettacolo, la vediamo vacillare, cadere e morire tra le braccia del suo amato, proprio come nella rappresentazione teatrale. Ne “La commedia dal mio palco ” (1918), soggetto, sceneggiatura e regia di Lucio D’Ambra, l’attrice teatrale, Rosetta D’Aprile, (Mary Corwyn) è follemente innamorata del cinico scrittore Ettore Brema (Uberto Palmarini). L’uomo però si stanca presto di lei. L’attrice decide di togliersi la vita durante la rappresentazione dell’ultima commedia scritta da Ettore, sostituendo la pistola di scena con una vera. Brema rappresenta il Superuomo, il carnefice della donna-nemica. L’unico essere a poter tenere testa alla Femme Fatale, che spesso coincide con la Diva. Ma è anche la sua parodia com’è nello stile di D’Ambra. La donna morente era un clichè socio-culturale veicolato da letteratura, teatro e arte pittorica di cui si nutriva e a sua volta nutriva l’arte, la società maschilista dell’Ottocento; affascinata dal tema della dedizione femminile fino alla morte e oltre. Il pensiero dell’angelo del focolare salvifico, come quello della donna passionale, folle per amore, che si sacrificava per l’uomo, rassicurava e allo stesso tempo inebriava. Si può intravedere anche un tentativo, da parte di soggettisti e sceneggiatori, vedi Frusta ne “La Ribalta”, di creare personaggi femminili più moderni, l’intenzione di delineare tramite il Diva film una Donna Nuova. Queste artiste sembrano voler affermare la propria identità e autonomia, scrivere una sorta di manifesto politico: se la società e l’uomo ci deludono, l’arte no! L’emancipazione attraverso il successo professionale, pagato ancora con la morte, per colpa di una società impreparata al cambiamento già in atto. Infine, come non pensare al riferimento storico, alle circostanze della dipartita di Jean Baptiste Poquelin (Moliere). Una sorta di legittimazione artistica che sottolinea la stessa dedizione e sacrificio da parte di queste attrici?

Continuando col tema del suicidio o tentato, aggiungiamo quello della sindrome da pigmalione ne “La vita e la commedia” (1921), regia di Alfredo De Antoni, soggetto tratto dal un romanzo di Ruggero Palmieri. Giorgio Giorgi, (Alberto Capozzi) acclamato attore drammatico, decide di chiedere la mano della fanciulla di cui si è innamorato, ma il padre della ragazza gli comunica che è fuggita con un altro. L’attore, sconvolto, inizia a frequentare i locali malfamati della città. Una sera, in una taverna, vede una giovane (interpretata da Antonia Korda) maltrattata dal padre adottivo. Giorgio offre del denaro all’uomo perché la lasci libera. L’attore si accorge che la fanciulla ha disposizione per la danza e la fa studiare. Qualche anno dopo è diventata una celebre danzatrice. La ragazza, follemente innamorata del suo protettore, spera di poterlo conquistare, ma lui è sempre innamorato della donna che gli ha spezzato il cuore. Durante una festa in maschera, la ritrova e scopre che la donna che ha adorato per anni, in realtà non sa amare nessuno. Profondamente disilluso torna a casa e trova la lettera della ballerina che gli annuncia i sui propositi suicidi. Dopo essere riuscito a salvarla in extremis, l’attore troverà la felicità tra le sue braccia. Dalla morte reale dell’artista passiamo a quella virtuale, il tema della distruzione dell’opera d’arte, intesa come distruzione della propria immagine, ma anche di quella della rivale, se le protagoniste sono artiste, o della distruzione/punizione della donna amata se sono artisti. Un filo rosso che unisce molte pellicole: “Vita d’artista” (1910), dove un pittore distrugge il ritratto dell’amante, spinto da rabbia e gelosia per l’inganno e il tradimento della sua modella. In “La luce che si spegne” (1915), regia di Umberto Paradisi, soggetto tratto dal romanzo “The Light that Failed” (1903), di Rudyard Kipling, è la modella a distruggere il ritratto. Il pittore Riccardo (Nello Carotenuto) a causa di una brutta ferita di guerra è stato congedato e la sua fidanzata, Margherita, lo spinge a riprendere il lavoro. Il pittore assume una modella, ma comprende presto che la donna è pericolosa. Quando Mario, amico del pittore, s’innamora di lei, Riccardo cerca di dissuaderlo. Intanto il quadro è terminato, ma l’artista è diventato cieco. La modella per vendicarsi del pittore, racconta a Margherita di essere l’ amante dell’uomo. Non paga e colma d’ira distrugge il quadro di Riccardo. Resasi conto del folle gesto, chiede perdono al pittore e confessa a Margherita il suo inganno. In “La fuga degli angioli” (1912), regia di Giuseppe De Liguoro, la principessa Marinka Orloff (Clara Sylvanire) pittrice di talento, prendendo a modello il suo promesso sposo, il musicista, Wladimiro (Attilio De Virgillis) realizza un quadro con al centro un pianista che suona attorniato da angeli e lo intitola “La fuga degli angioli”. L’opera vince il primo premio dell’esposizione d’arte che si tiene in città (siamo in Russia), suscitando l’ammirazione di molti, soprattutto di suo padre e del fidanzato. Sonia, sorella della pittrice, rosa dal rancore e dalla gelosia (anche lei è innamorata del musicista) decide di vendicarsi, convincendo lo stalliere di casa a cospargere il dipinto di solvente. Alla consegna del premio, davanti agli invitati, quando viene tolto il drappo che copre la tela, tutti vedono solo un’informe colatura di colori. Marinka, non resistendo alla vergogna e alla vista della sua opera orribilmente sfigurata, morirà poco dopo.

Ne “Il quadro di Osvaldo Mars” (1921), regia di Guido Brignone, il pittore del titolo, impersonato da Domenico Serra, viene trovato morto davanti a una sua tela strappata. Il racconto della vita e il mistero della morte del pittore, passano attraverso la distruzione dell’immagine divistica: il mistero della tela squarciata. S’innesta un altro tratto tipico del Diva film, il tema del doppio. La contessa A. Maria di S. Giusto viene accusata di avere una relazione extraconiugale col pittore Osvaldo Mars, la prova sarebbe un quadro di Salomé con viso e corpo della contessa. La contessa però non conosce il pittore, e decide allora di recarsi a casa dell’uomo per chiarire il mistero. Sulla porta del pittore viene vista da un uomo che ne rimane sconvolto. La conferma di un caso di somiglianza straordinaria, si ha quando si legge la lettera di Mars, dove dà istruzioni per la cura della tomba della sua amante, morta qualche tempo prima. Il suicidio del pittore, viene rivelato da una testimone, la bambina che per il trauma, aveva perso momentaneamente la voce ed era semicosciente a causa della febbre. “Il quadro di Osvaldo Mars” è un film come dicevamo metadivistico, in cui il corpo della diva viene raddoppiato, non solo nelle due protagoniste, ma trasfigurato nelle sembianze della Salomé del quadro, equivalente delle schermo.

Per chiudere il capitolo scultori e pittori che divengono folli per amore e distruggono il proprio capolavoro, simulacro della donna amata, che spesso uccidono non solo simbolicamente abbiamo: “Il gruppo della felicità” (1912), dove uno scultore credendo che la sua fidanzata lo tradisca con un cantante d’opera, distrugge il suo capolavoro, ispiratogli dalla donna, in verità innocente. In “Ombra e luce” (1913), diretto da Baldassarre Negroni, Andrea Boni, (Ignazio Lupi) uno scultore distrugge la sua creazione per disperazione, dopo aver saputo che la sua musa, Mada la gitana, (Hesperia) che diceva di amarlo, in realtà, l’aveva illuso per derubarlo.

In “Plasmò… distrusse…”(1920), soggetto, sceneggiatura e regia di Nadir De Lucia, una scultrice famosa (che ha il volto di Gianna Terribili-Gonzales) cerca ispirazione nei canoni della bellezza classica. Trova il modello ideale in un marinaio, che oltre a posare per lei, diventa il suo l’amante. Ma quando tra i due l’amore si esaurisce, la scultrice distrugge la sua opera.

In “Circe moderna” (1914), diretto da Alberto Degli Abbati, soggetto tratto dal racconto La Venere orgiastra di Luigi Chiarelli, lo scultore Mario Zenni (Mario Bonnard) non riuscendo a liberarsi della donna che gli ha avvelenato la vita, decide di suicidarsi, gettandosi da un monte. Portando con sé la donna e la statua ch’egli aveva scolpito. Circe è chiaramente debitrice dello stereotipo della Donna Fatale, per lei sono previste poche alternative: la morte o la redenzione attraverso l’amore. Il rapporto uomo donna si trasforma in battaglia tra i sessi, e la donna diventa la nemica che si oppone ai sogni degli uomini. Abbandonarla o ucciderla, sono per l’artista, come per tutti i protagonisti maschili, l’unico modo per tornare alla vita e alla propria opera. Se non vi si riesce si è destinati al ruolo di schiavi, all’annullamento fisico e morale ed infine, alla morte. Nel film si nega ai protagonisti il ritorno all’ordine borghese, simboleggiato dalla famiglia, dal matrimonio e dalla redenzione per la tentatrice. Perciò l’unico rimedio all’amore demoniaco della femme fatale, resta l’omicidio o omicidio/suicidio.

In “Idolo infranto” (1913), regia di Emilio Ghione, lo scultore Alberto (Alberto Collo) è rimasto vedovo con un figlio in collegio. Incontra Francesca, (Francesca Bertini) una graziosa pastorella. Lo scultore domanda alla ragazza se voglia posare per lui e lei accetta. Il busto di Francesca rende Alberto uno scultore apprezzato e i due vivono d’amore e d’accordo. Fino a quando, Francesca, divenuta elegante e raffinata signora, abbandona lo scultore, dopo aver dilapidato le sue ricchezze, per diventare l’amante di un banchiere. Lo scultore in miseria, non vuole che il figlio rinunci al collegio e vincendo l’orgoglio, va a domandare a Francesca di posare ancora una volta per lui e di dargli l’ispirazione. La donna lo scaccia irridendolo, poi, ci ripensa e si reca allo studio dell’uomo. Lì c’è ancora il suo busto, che Alberto non ha mai voluto vendere. Udendo arrivare lo scultore, Francesca toglie dal piedistallo il busto e ne prende il posto. Alberto, ebbro e disperato, vedendo quel volto sorridergli, diviene furibondo, afferra un martello, e si scaglia contro il busto, uccidendo Francesca. Il pittore o lo scultore che prende come modella una contadina o pastorella che diviene sua amante, e si trasforma in donna elegante che sperpera il suo patrimonio, fino a rovinarlo, per poi scappare con un altro con più mezzi per soddisfare le sue brame di lusso, è un clichè ottocentesco molto usato non solo al cinema. La critica dell’epoca ci avverte che la scena finale non è molto verosimile: “Nella scena finale dovremmo credere che lo scultore uccide la sua ex-amante, nell’illusione di colpire il busto sul piedistallo; invece vediamo trascinare la donna e -per quanto ubriaco – a questo punto non era più ammissibile ch’egli non si rendesse conto di avere a che fare con una creatura palpitante, piuttosto che con un busto in marmo o gesso.”

Infine, uscendo dalla sfera dell’arte figurativa e plastica, ne “La rinunzia” (1913), diretto da Ugo Falena, Ettore Berti (Andrea Aurispa) è un poeta che tradisce la moglie con un’attrice teatrale. Per la quale scrive un dramma. La moglie dopo aver scoperto il tradimento, diviene cieca e perde la ragione. Il poeta vinto dal rimorso e dall’amore per lei, distrugge la sua nuova opera teatrale intitolata la “Rinunzia”.

Altro elemento che accomuna “The Artist” col cinema nostrano è il fedele amico a quattro zampe: ne “La figlia del cieco” (1910), dove un anziano non vedente suona la chitarra per la città aiutato dal suo cane. Ne “Il cane del cieco” (1912), un violinista non vedente, si guadagna da vivere suonando nelle osterie, lo aiutano sua sorella Rosa e il cane Medoro, che raccoglie le monete girando col cappello tra i tavoli. Quando un malvivente rapisce la ragazza, il cane si mette alla ricerca della padrona, la trova e corre a chiamare aiuto, viene persino ferito durante il salvataggio. Ancora un fido cane in “Sogno e risveglio” (1914), dove un trasformista e una chanteuse, tramano per uccidere un ricchissimo americano, sosia del trasformista. Sarà il cane dell’ex fidanzata dell’americano a sventare il piano delittuoso.

I film ambientati tra palcoscenici, set cinematografi, studi e atelier sono un’ottima cartina di tornasole per individuare stereotipi, luoghi comuni, miti e metafore sugli artisti che si rinnovano continuamente. Infatti, in ogni momento storico cantanti, ballerini, musicisti, attori e scrittori sono stati distinti dall’uomo comune grazie a talento, creatività, sensibilità, ma anche a difetti quali l’essere egocentrici, lunatici, nevrotici, ribelli, infidi, licenziosi e stravaganti. Spesso nella costruzione di tali personaggi, il soggettista avrebbe dovuto focalizzare meglio la condizione sociale dell’artista, la sua psicologia e le difficoltà del mestiere. Per non ridurre tutto ad un abbozzo stereotipato, che vede gli artisti divisi in due categorie senza sfumature. Personaggi o positivi o negativi, deboli o dal carattere indomito, sino a sfiorare la crudeltà. Dominati da sentimenti contrastanti quali la speranza di successo e il timore del fiasco, l’amore per l’arte e l’avidità, la solidarietà tra compagni e una concorrenza spietata. Le vite d’artista, rappresentano un forte richiamo per pubblico, ma ciò che lo spinge e spingeva ad entrare in una sala cinematografica era la Diva o oggi il Divo di turno. Si pensi agli studi sul ruolo sociale della diva, l’impatto sul pubblico e il cambiamento dell’immaginario collettivo. Gli studi sulla relazione tra celebrità, cultura figurativa, letteratura italiana, ed estetica delle nostre dive, tutte caratteristiche che fanno del “Diva film” un genere italiano specifico, dove la genesi del mito dello scrittore/drammaturgo/poeta rappresentata e pianificata da D’Annunzio ha un peso altrettanto importante. Genere che già alla fine degli anni ’10, del secolo scorso, era stato canonizzato e andava verso il declino, come mostreranno gli anni ’20. L’era della diva per il film, aveva lasciato il posto a quella del film pensato per la diva e sulla rivista La Cine-Fono” di Napoli del 27 febbraio 1915, il critico C., ammoniva i soggettisti così:«“…Che cosa significa fare una serie di films recanti il nome di un’artista? Significa scegliere un repertorio – parlo in questo caso dei soggetti – in cui l’arte personale e le attitudini dell’artista possano rifulgere in tutta la loro interezza…Infatti, se la scelta dei soggetti va subordinata alle qualità artistiche dell’interprete, bisogna considerare che non per questo soltanto si debbono trascurare le qualità dei medesimi, perché nell’opera d’arte ogni singolo elemento deve concorrere alla perfezione di essa.”

ANALIZZARE IL PILOTA DI THE YOUNG POPE
di Davide Parpinel

Che cos’è il pilota di una serie tv? Il pilota è il primo episodio della prima stagione di una serie tv e come dice la parola stessa deve “pilotare”, introdurre lo spettatore al suo interno, fornendogli le coordinate narrative e visive. Il pilota, quindi, è l’aggancio, l’innesco per la visione dell’intera stagione.
Francesca Negri nel suo libro “L’âge d’or della fiction televisiva contemporanea: il caso 24 (Edizioni Cadmo, 2009) in riferimento all’analisi del pilota della serie creata da Robert Cochran e Joel Surnow fornisce una teoria di studio. Questo episodio deve avere una doppia funzione: “da un lato deve istituirsi come prototipo dell’intera serie, sintetizzando tutti gli elementi che andranno a costruirla, puntando a enfatizzare l’elemento caratterizzante che la definisce […]; dall’altro lato deve comprendere le principali piste narrative che verranno sviluppate in seguito, presentare personaggi e protagonisti, cercando allo stesso tempo di mantenere un’autonoma organicità tale da porlo come prodotto completo in sé”(p.21). La Negri poi aggiunge che nel caso della serie “24”, ma si può allargare la teoria anche alla serialità contemporanea in generale, il pilota non deve dimenticarsi di perdere di vista il suo obiettivo primario ossia creare aspettativa nello spettatore.
Neil Landau nel libro Showrunner (Dino Audino editore, ed. it. 2015) aggiunge altri elementi alla definizione del pilota. Stando allo sceneggiatore americano al primo episodio è destinato il compito di fondare un mondo, narrativo e visivo, a cui lo spettatore è invitato a entrarci, così da legarsi a quanto accade. È quindi necessario che il pilota lo porti velocemente nell’ambientazione, nell’organizzazione, nei personaggi della serie (p.42), fornendogli, dunque, una promessa, un appiglio a un tema centrale forte, implicito o esplicito nella narrazione, attraverso la formulazione della domanda centrale che può essere un mistero, un personaggio o un percorso di sviluppo narrativo. Il pilota, prosegue Landau, non si deve affrontare in maniera sbrigativa per non lasciare indietro la reale portata drammatica di tutte le storie, l’impatto emotivo e l’effetto domino che lo accompagna (p.110).
Il primo episodio di una serie televisiva deve, quindi, indicare le principali linee narrative della serie, da cui si sviluppano le iniziali presentazioni dei personaggi, le loro caratterizzazioni e gli intrecci delle loro storie. Deve, inoltre, suggerire una definizione dello stile visivo e quindi esplicare la sua grammatica di determinate inquadrature, di una precisa fotografia e musiche finalizzate ad evidenziare determinati passaggi narrativi o personaggi. La stesso discorso vale anche per il montaggio così da rendere chiaro e manifesto il tema centrale, il mistero cardine della serie, l’appiglio a cui lo spettatore si aggancia per creare la sua attesa di visione.
Si evince, pertanto, che la componente principale del pilota è lo spettatore. Ogni scelta sembra indirizzata a catalizzare immediatamente la sua attenzione, per permettergli di affezionarsi alla storia e a un personaggio, solitamente quello principale. Stando alle definizione, infatti, il pilota deve concentrarsi primariamente sul personaggio principale, sulla sua costruzione e definizione iniziale che avviene per ciò che fa e per come è proposto, ossia per quella particolare visione che la regia ha deciso di conferirgli.
A tal proposito, Landau, afferma che nel pilota è importante proporre lo scontro positivo-negativo dei personaggi ossia presentare adeguatamente gli obiettivi positivi dei personaggi a cui si contrappongono le cariche negative portate da altri. Attraverso questo duopolio si crea il conflitto, il dramma o la commedia e quindi lo schieramento dello spettatore per una parte o per l’altra (p.47).
Tutto questo apparato di teorie e indicazioni si organizza in una narrazione auto conclusiva ossia la puntata pilota deve avere una sua indipendenza compositiva all’interno della stagione della serie, seppur rimandare alla puntata successiva.

Il pilota di The Young Pope. Le premesse.

Per rendere tutto quanto più chiaro è meglio verificare queste teorie nell’analisi del pilota di una serie tv. La scelta è ricaduta su “The Young Pope” (2016), scritta e diretta da Paolo Sorrentino, prodotta da Wildside, Haut et Court Tv, Mediapro, Sky Italia, HBO e Canal+.
Lo studio del primo episodio di “The Young Pope” comincia con il comprendere perché Sorrentino, regista cinematografico, abbia deciso di scrivere e dirigere una serie tv. Le motivazioni sono rintracciabili innanzitutto in una scelta produttiva. Nel documentario “The Young Pope: a tale of filmmaking” diretto da Fabio Mollo il produttore della serie Lorenzo Mieli afferma che Sky voleva affidare al regista partenopeo il compito di dirigere una serie televisiva incentrata su Padre Pio. Sorrentino dopo alcuni giorni di riflessione portò, invece, a Sky l’idea di “The Young Pope”, una riflessione sul Papa, ambiziosa e sorprendente come ha affermato il produttore stesso. Questo interesse è nato in Sorrentino per la sua voglia di cimentarsi con l’espressione visivo-seriale, come lui stesso afferma sempre nel documentario. Il pensiero di dirigere una serie tv, infatti, secondo lui, ad oggi è naturale per ogni regista di cinema. Ciò perché il racconto visivo in puntate offre la possibilità di scrivere una bella pagina di letteratura e cinema, unendo ai tempi lunghi della narrazione romanzesca, la ricerca cinematografica. “The Young Pope”, infatti, è un lunghissimo film di 10 ore, a sua detta, che gli ha permesso di descrivere gli uomini celati sotto le toghe da cardinali, da prelati. Il suo interesse, infatti, non era centrato sul Vaticano, né sui racconti di un Papa, né a riguardo di curiosità agiografiche o di pettegolezzo.
In un’intervista a Paolo Nizza di Sky Atlantic, dal titolo “The Young Pope: l’intervista a Paolo Sorrentino” rilasciata in occasione della presentazione delle prime due puntate della serie alla 73. Mostra del Cinema di Venezia Sorrentino aggiunge a quanto riportato in precedenza la sua intenzione di infrangere un tabù. Ha voluto raccontare gli esseri umani che devono continuamente rapportarsi con il Divino in una perenne contraddizione tra la natura umana e la volontà del Creato.
A Gianmaria Tammaro dell’Huffigton Post (intervista pubblicata l’11 ottobre 2016 dal titolo “Paolo Sorrentino lancia la serie tv ‘The Young Pope’: “Il mio Papa vuole una Chiesa più islamica”) il regista partenopeo ritorna sul format delle serie tv come scelta primaria per il suo Papa. Ha prediletto il racconto televisivo, afferma Sorrentino, perché gli ha consentito, più del cinema, di lavorare sulla durata senza troppe rigidità, senza dover restare entro le due ore di narrato. “Un’opportunità che io ho inseguito non da poco, devo dire. Ma per tanto tempo.”
Aggiunge poi che è stato facile seguire anche le altre regole che governano la costruzione di una serie tv come lasciare allo spettatore la curiosità e la voglia di scoprire cosa accadrà nella puntata successiva attraverso un elemento di interesse che fidelizzi il pubblico.
Sembrerebbe, quindi, che Sorrentino nelle serie televisive abbia trovato quel terreno narrativo adeguato per espandere i suoi racconti cinematografici in continua crescita di storie e visioni. Le serie televisive, infatti, sono il regno dell’ampiezza del racconto, danno un’ampia capacità di divagazione e di creazione di un atmosfera che conquista lo spettatore come è il cinema sorrentiniano. A ciò si unisce il tema di “The Young Pope” ossia la spettacolarità di santi, beati, rivelazioni e piccoli e grandi uomini che offre il mondo clericale a cui un regista esteta e sontuoso come Sorrentino non poteva non rimanere suggestionato, come afferma a Paola Zannutini di Repubblica nell’intervista “Papale papale: intervista a Paolo Sorrentino su “The Young Pope” del 26 settembre 2016.
Non resta da capire come tutto questo apparato di premesse e indicazioni si sono riversate nella serie e cosa di tutto questo è mostrato nell’episodio pilota.

I primi 3 minuti.

Il primo episodio di “The Young Pope” mostra inizialmente un neonato che gattona sopra alcuni corpi nudi di neonati addormentati. La camera si pone alle spalle del bambino, inquadrandone le difficoltà di equilibrio, per poi superarlo e arrivare a vedere un buco posto in fondo al “cumulo” da cui fuoriesce, sempre a quattro zampe, un uomo di spalle vestito con gli abiti del Papa. Questo una volta postosi in piedi, si incammina verso Piazza San Marco deserta, mentre in sottofondo risa e pianti di neonati accompagnano il suo cammino. Uno stacco di inquadratura porta lo spettatore su un occhio di un uomo che di apre nell’esatto momento in cui squilla una suoneria di un telefono. La camera indica allo spettatore ciò che l’uomo osserva ossia un crocifisso posto sopra il suo letto inquadrato dal basso. Questo poi si alza, procede verso il bagno e il sottofondo di una musica evangelica proveniente dalla radio posta sul comodino comincia la cura mattutina del suo corpo. Un’interferenza del segnale radio distrae l’uomo che successivamente si sposta verso l’armadio e qui trova gli abiti papali, mentre la camera delicatamente esce dalla sua stanza. Stacco su un inquadratura laterale in slow motion in cui si vedono uscire da quella stessa stanza il Papa a capo fila della corte dei cardinali.
I titoli di testa danno inizio a “The Young Pope”.
Sorrentino inizia la narrazione con delle immagini simboliche che da subito raccontano la trasformazione di un neonato in un uomo intento a percorrere la sua strada con passo deciso. È, ritratto, quindi, primariamente un uomo descritto nei suoi gesti più comuni di igiene mattutina. Poi diviene un Papa attorniato da una schiera di cardinali vecchi e piegati su loro stessi. E Venezia che valore ha in questo breve ritratto? Forse un mistero è già suggerito.

I nuclei narrativi

Successivamente inizia il pilota di “The Young Pope” che si può suddividere in 8 nuclei narrativi.
Nel primo si vede l’uomo, Lenny Belardo, chiamato Pio XIII, interpretato da Jude Law, andare verso il balcone della Basilica di San Pietro per salutare la folla di fedeli in attesa sotto la pioggia delle sue parole. Per mostrare al pubblico gli sguardi degli altri protagonisti della serie che il Papa incrocia in questo passaggio, il regista utilizza un piano sequenza che si conclude in un suo primissimo piano il cui volto è tagliato da bande nere su cui compare il titolo della serie, lasciando così scoperti il sorriso beffardo e lo sguardo tagliente dell’uomo.
Secondo nucleo narrativo. Il discorso di Pio XIII alla folla si focalizza sui concetti di gioco inteso come armonia nella vita privata e Dio. Con tono sicuro e deciso il giovane Papa accusa la Chiesa Cattolica di essersi dimenticata dei contraccettivi, dell’amore gay, di quello tra i sacerdoti, delle suore e della masturbazione. Il Papa inneggia a una vita senza colpe, alla ricerca della felicità che passa attraverso la libertà. Tutto questo, però, si rivela un sogno. A interrompere questo flusso di parole ci pensa un Cardinale, vestito da Papa che dice di essere lui il vero Pontefice. Lenny così si sveglia.

Il terzo nucleo narrativo è connesso al precedente da un piccola scena in cui il Papa, vestito da Cardinale, si confessa a un Cardinale più anziano, James Cromwell, affermando che egli stesso è una contraddizione, come Dio, uno e trino, come la Madonna, Vergine e Madre e come l’uomo buono e cattivo. Subito dopo inizia la prima giornata del giovane Papa. Questo si presenta scortese e distante dalle cortesie e dalle familiarità proposte a lui dalle suore destinate ad accudirlo in Vaticano. L’uomo richiede solo rapporti formali e ordine, mentre la camera lentamente si avvicina e lo scruta mantenendo quella stessa distanza che lui cerca dalle persone.
Il quarto blocco narrativo è dedicato alla presentazione di alcuni personaggi secondari. Innanzitutto il Cardinale Voiello, interpretato da Silvio Orlando, indaffarato, sempre al telefono, distratto anche nel momento della confessione. Il Cardinale Caltanissetta (Toni Bertorelli) a colloquio con altri tre cardinali. Questi posti in cerchio esprimono la loro sfiducia nei confronti del giovane Papa, burattino nelle mani del Segretario di Stato, Voiello, e indicano nel cardinale Spencer (James Cromwell) il grande sconfitto delle elezioni del conclave. La camera non li circonda, ma li inquadra separatamente come a voler suggerire i loro pareri discordanti. Caltanissetta, infatti, sembra quello più convinto nell’affermate che il giovane Papa sarà uno strumento nelle mani di Voiello, mentre quello africano osserva che Pio XIII è molto più furbo di quanto possa apparire. Una domanda chiude la scena ossia come farà Spencer a sopportare che il suo protégé è divenuto Papa.
In risposta Sorrentino propone due scene. Nella prima si vede il tentato suicidio di Spencer e il suo urlo di disperazione soffocato nel silenzio; nella seconda la camera conduce lo sguardo dello spettatore verso il Papa che inginocchiato prega Dio e ripete “Il silenzio infinito di Dio” quasi fosse il monito del suo papato.
Quinta parte. Una ripresa aerea propone dall’alto Roma silenziosa e in attesa delle prime mosse del nuovo Pontefice. Subito dopo è presentato il personaggio di Don Tommaso, interpretato da Marcello Romolo, il confessore di tutti i prelati in Vaticano. Lui appare timido e remissivo, fedele e un po’ dubbioso nel dialogo con il Papa mentre questo gli spiega la funzione del suo ruolo in Vaticano. Si accende, così, l’arguzia di Pio XIII e come portare il potere del sacerdote a suo favore. Ciò è suggerito dalla camera che si muove e si avvicina ai due personaggi senza mai contrapporli in un campo e controcampo in quanto lo spettatore assiste a un esercizio di potere di Lenny.
Arriva Suor Mary, interpretata da Diane Keaton. La scena si svolge all’eliporto sulla cui pista è in corso una giro sui rollerblade di alcuni bambini guidati da una giovane ragazza bionda. Atterrato l’elicottero questi scappano e dal velivolo scenda l’anziana sorella attesa da Pio XIII. La narrazione al presente è interrotta da un flask back di Lenny che ricorda quando da bambino entrò nell’Istituto per orfani di Suor Mary. L’elemento di connessione tra passato e presente è un pezzo di una pipa, regalo del padre, che mostra alla suora nel loro primo incontro e quando si ritrovano in Vaticano. La complicità tra i due personaggi è, quindi, stabilita e sottolineata da una luce abbagliante che circonda il giovane Papa quando vede la donna. Questo nucleo narrativo assume anche più importanza quando successivamente in una camminata tra i due inquadrati di spalle Suor Mary dialoga con Lenny dei suoi genitori che lo abbandonarono per andare a vivere a Venezia. Questa pena, però afferma la donna, ora deve passare in secondo piano perché lui deve farsi carico di quelle di tutti i fedeli. Sembra quasi, quindi, che l’anziana sorella voglia responsabilizzare il giovane Papa. Ciò è intuibile anche dalla camera che stringe sempre più su di loro e dalla luce intorno al Papa che si fa sempre più illuminante nel procedere del discorso della donna.

Con la nuova forza conferitogli dalla donna, Pio XIII si appresta ad affrontare Voiello.
Nel settimo nucleo narrativo il segretario di Stato si presenta al nuovo Papa nelle sue vesti ufficiali. Ricorda infatti al Pontefice l’importanza della sua prima omelia ai cardinali, di alcune funzioni e di un tasto posto sotto la scrivania che se premuto chiama una suora a interrompere il dialogo tra il Papa e il suo ospite. Voiello appare ironico e falso, simpatico e tagliente, misterioso e accondiscendente. Dal canto suo il Pontefice non lo ascolta e le sue parole sono percepite come un eco lontano. A dare maggiore forza a Lenny ci pensa Suor Mary. Una musica la accompagna mentre porta al tavolo le sigarette del Papa. Con questa azione il Papa si sveglia come suggerisce la scelta del regista di passare da una inquadratura singola dei volti dei personaggi a un campo e controcampo sempre più stretto a mano a mano che il discorso si accende. Prima, infatti, di premere il pulsante a interruzione volontaria del colloquio, Pio XIII precisa le sue volontà ossia che il potere della Chiesa Cattolica è nelle sue mani e non in quelle del Segretario e che d’ora in poi la sorella vigilerà anche su di lui. La camera segue il giovane Papa fino a inquadrarlo frontalmente al fianco di Suor Mary, illuminati entrambi dalla luce radiosa proveniente da una finestra aperta alle loro spalle.
Ottavo nucleo narrativo. Lenny è a colloquio con il Cardinal Gutierrez, interpretato da Javier Càmara. Dalla politica e dai rapporti di potere, qui si parla dell’uomo. Di fronte alla Pietà di Michelangelo i due protagonisti parlano del valore della madre, sempre inquadrati singolarmente e accompagnati da una musica che porta in evidenza il problema. Il giovane Papa afferma al Cardinale il valore assoluto della conoscenza come elemento fondamentale per il suo papato. Afferma con decisione che vuole sapere tutto quanto accade in Vaticano, nulla può essergli nascosto. Una musica più tragica indica il cambio di battute che introduce alle scene conclusive della puntata.
Innanzitutto Voiello impone a Padre Amatucci (Gianluca Guidi) suo braccio destro, una ricerca capillare sul passato del giovane Papa, allo stesso modo sul tetto di San Pietro Lenny ordina a Padre Tommaso di raccontargli tutte le confessioni da lui ascoltate. Il Pontefice, vestito con una tuta, è inquadrato dal basso, mentre il prete dall’alto come a sottolineare i rapporti di forza. Quando, però, il primo confida al secondo di non credere in Dio, la camera li inquadra alla pari. Padre Tommaso rimane basito, mentre Lenny ammette di aver scherzato. Il suo sguardo restituisce allo spettatore l’aggancio narrativo alla seconda puntata.

Il primo episodio è, quindi, davvero un pilota?

Il primo episodio di “The Young Pope” più che proporre le principale linee narrative si concentra sul personaggio del protagonista, Lenny Belardo e sull’uomo dietro gli abiti da Papa. Ciò è evincibile in quanto il regista partenopeo mostra primariamente la quotidianità della cura mattutina e il fatto che nonostante sia un Papa sogna di avere il potere. L’attenzione su Lenny si fortifica, poi, nella descrizione degli aspetti del suo carattere, da quelli più spigolosi, a quelli più teneri e commoventi come si evince quando arriva Suor Mary. È interessante, infatti, che il giovane Papa si occupi ben poco della gestione politica del suo papato come gli suggerisce Voiello, per concentrarsi invece su tre questioni: potenziamento della radio vaticana, costruzione di un appartamento per contenere i regali ricevuti, richiesta del Triregno dalla Basilica di Washington per celebrare la sua omelia, come chiede espressamente al Segretario di Stato al termine del colloquio. Lenny è interessato alla sua vita, al suo essere, a capire la funzione della madre, vedi dialogo con Gutierrez, per questo Suor Mary gli ricorda la sua funzione apostolica. Lenny cerca la conoscenza, perché vuole vedere chiaro su ogni aspetto, vuole conoscere ogni segreto, perché la sua vita è circondata da un mistero, da un segreto ossia perché i genitori l’hanno abbandonato?
Questa forse è la chiave di lettura dell’intera serie suggerita dall’episodio pilota. Più che quindi il suo apparente non credere in Dio proposto sul finale è Lenny e il suo essere umano il vero enigma.
La regia di Sorrentino valida questo punto di vista ponendo in ogni scena al centro il giovane Papa, il centro delle inquadrature. La camera, infatti, lo segue, lo scruta, si avvicina a lui senza mai toccarlo in primissimi piani, salvo se necessari come all’inizio. L’eco della parole di Voiello nel dialogo tra questo e il Papa è dentro la sua testa; lo sguardo che fissa il crocifisso capovolto nelle prime immagini è quello di Lenny; il centro di ogni discorso, da quello dei cardinali, a quello del segretario, alla disperazione di Spencer è sempre Pio XIII che infatti, è subito presentato allo spettatore come una contraddizione.
Il pilota di “The Young Pope”, quindi, più che fondare un mondo visivo e narrativo in cui lo spettatore possa immergersi come afferma Landau è un’introduzione, un inizio di un percorso ancora molto da costruire, un pilotare lo spettatore al personaggio di Lenny. Eppure nonostante Sorrentino non sembri attenersi ciecamente alle regole di costruzione di un episodio pilota, rimane intatta la portata drammatica della serie e il conseguente impatto emotivo. Ciò è dovuto al linguaggio della regia. La grammatica espressa è, infatti, parte del repertorio di Sorrentino: piani sequenza lenti, stacchi sui volti, immagini oniriche, suggestioni, come quella che Voiello prova nei confronti della statuetta della Venere di Willendorf, elementi simbolici, come i bambini che corrono sui rollerblade all’eliporto che rimandano al personaggio di Suor Mary, una camera che conduce sempre lo sguardo dello spettatore all’elemento linguistico in grado di spiegargli il senso della scena, e un montaggio che più che portare all’emersione del problema centrale si lascia andare alla narrazione, alla spiegazione della storia, sorretto da una musica utilizzata come accento per la comprensione delle immagini.
Questo impianto linguistico , inoltre, è in grado di evidenziare il dramma e conquistare emotivamente anche il pubblico delle serie tv solitamente abituato a inquadrature in stretta connessione con il copione evitando quindi di porre lo stile sopra al contenuto, come afferma Federica Pellegrini in Entrare nel Contemporaneo, Bulzoni Editore, 2015 (p.112). Secondo la studiosa lo stile visivo delle serie si caratterizza per l’uso di primissimi piani, campo e controcampo, carrelli, campi lunghi e panoramiche (p.116), che invece Sorrentino utilizza solo se necessari.
L’attenzione dello spettatore è quindi catturata e ciò che lo fidelizza alla visione è un atmosfera in cui si muove il mistero di Lenny. Il pilota di “The Young Pope”, infatti, abbozza il personaggio principale, racchiudendo già in sé lo scontro negativo-positivo in quanto l’antitesi tra cariche è in lui stesso. In questo modo lo spettatore non parteggia per un personaggio piuttosto che per un altro, ma solo per Lenny, per Pio XIII, al fine di comprenderne la contraddizione.
In conclusione Sorrentino dirige una serie tv come fosse un film di 10 ore, piuttosto che 10 puntate. Il pilota, infatti, seppur proponga il piccolo dubbio finale sorretto dall’indagine di Voiello, non è auto conclusivo, perché la narrazione si interrompe, più che giungere a un momento di conclusione. Non c’è suspence, non ci sono personaggi tipizzati, c’è sicuramente l’assoluta centralità del protagonista e una serie di figure che gravitano attorno a un impianto visivo che celebra anche fotograficamente sempre il giovane Papa.
Che cosa lascia nello spettatore il pilota di “The Young Pope”? La storia di un uomo alla ricerca di sé stesso il quale è stato investito dal potere ma non sembra sentirlo. Il tutto raccontato in maniera atipica rispetto agli schemi della serie tv. Per questo la scelta è ricaduta su questa serie, per capire quanto il primo episodio può seguire altre regole visive e narrative, anche se impostato diversamente ed essere comunque efficace nel suo scopo ossia porre al centro del suo interesse lo spettatore e il suo desiderio di osservare e capire.

INCONTRI

FLORESTANO VANCINI:
INTERVISTA RILASCIATA AD ALCUNE STUDENTESSE DEL LICEO ARIOSTO DI FERRARA
a cura di Simonetta Savino

NOTE SULL’INTERVISTA
L’intervista a Florestano Vancini che di seguito riportiamo, risale all’inizio del 2006 e fu rilasciata dal regista ad alcune studentesse del Liceo Classico Ludovico Ariosto di Ferrara, impegnate in un lavoro di ricerca sul rapporto tra lo scrittore Giorgio Bassani e il cinema, con una speciale attenzione al rapporto tra scrittura narrativa e linguaggio cinematografico; ne consegue, da una parte un taglio preciso che, senza tralasciare gli aspetti personali della collaborazione tra Vancini e Bassani, punta a mettere in evidenza la dialettica che lega il racconto di Bassani Una notte del ’43, con il film di Vancini “La lunga notte del ’43”; dall’altra, il tono informale, semplice, in alcuni momenti anche didascalico (come nelle spiegazioni di alcuni basilari elementi del linguaggio cinematografico), appropriato per il contesto, con cui Vancini ha trattato l’argomento, ottenendo quella chiarezza indispensabile per arrivare ad interlocutori non esperti.

Per tali motivi, anche se nei 57 anni trascorsi dall’uscita del film di Vancini un’ampia letteratura su di esso ne ha sviscerato gli aspetti formali e ne ha trattato, spesso in modo controverso, la tematica storica e gli intendimenti politici, ci sembra ugualmente opportuno pubblicare questa intervista che ricorda due grandi talenti e offre lo spunto per qualche precisazione di carattere linguistico, dunque più legata alla personalità di Bassani, utile soprattutto ai più giovani per i quali potranno risultare nuove tutte le risposte di Vancini, anche quelle dal contenuto già noto.
E’ Di tutta evidenza che le recensioni coeve all’uscita del film, molte delle interviste rilasciate da Vancini anche negli anni successivi e pure di recente, e l’attenzione degli intellettuali di parte, si sono concentrate sulla fedeltà dell’opera di Vancini all’episodio storico da cui prende le mosse il racconto bassaniano, tralasciando per lo più i rapporti tra la scrittura narrativa e la sua trasformazione in scrittura per il cinema e poi in film.
Vancini ha sempre sostenuto che le differenze tra racconto e sceneggiatura, tutte per addizione, di personaggi (l’amante di Anna, la protagonista femminile, Franco Villani e la sua famiglia), di situazioni (le scene d’amore tra Anna e Franco, e il finale, politicamente scorretto, collocato venti anni dopo), non abbiano affatto disturbato la sensibilità di Bassani che all’epoca, il 1960, era già fuori dall’ambiente del cinema e proiettato completamente in quello letterario, nel progetto e nella scrittura de Il giardino dei Finzi-Contini (1962).
La verità è un’altra perché Bassani aveva invece espresso delle riserve sul film di Vancini (il regista ne fa cenno fugacemente alla fine di questa intervista, come se ne fosse venuto a conoscenza molto più tardi), senza intendimenti polemici ma con la rassegnazione di chi è consapevole che non esiste soluzione alla questione “fedeltà perfetta del film al romanzo da cui è tratto”, in particolare se il romanzo/racconto era dello stesso Bassani. Egli affronta il problema in una intervista rilasciata all’amico Claudio Varese e pubblicata sulla rivista Il Punto l’8 ottobre 1960, cioè subito dopo l’uscita del film.(1)
Bassani è ormai estraneo al suo lavoro di soggettista, sceneggiatore, scrittore per il cinema, durato una decina d’anni: ha vinto il Premio Strega nel ’56 e questo l’ha portato definitivamente nei territori che prediligeva come la poesia, ma ora soprattutto la narrativa; questo lo induce ad esternare il suo pensiero sulla scrittura per il cinema, come un autentico bilancio di una attività ormai conclusa. Dunque prende le distanze dai tanti scrittori che negli anni ’50 hanno lavorato per il cinema dando vita ad una forma di scrittura intermedia, flessibile, permeabile, quella della sceneggiatura (2), che Bassani apprezzava come importante occasione per l’arte della parola e che aveva consentito il transito della sua scrittura, saldamente letteraria, nella evidenza e nella concretezza dell’immagine; la destinazione precisa, la necessità di farsi comprendere chiaramente e diventare cosa (il film) avevano, secondo lui, modificato o comunque fortemente influenzato il suo sistema di lavoro. E ne era soddisfatto.

Giorgio Bassani

Ma questo non lenisce il disagio che egli provava di fronte alla trasposizione cinematografica delle sue opere. Bassani non era come Moravia che sapeva staccarsi dai suoi romanzi (molti per la verità) dopo la loro trasformazione in sceneggiatura e in film, e accettava invece senza riserve la convivenza delle due opere appartenenti a generi diversi.
Bassani pur sapendo che il cinema deve mostrare anche ciò che la scrittura semplicemente suggerisce, rimaneva legato al suo testo senza mai trovare una trasposizione per lui davvero convincente. Lo spiega con grande lucidità all’amico Varese partendo proprio da una caratteristica fondamentale e ineludibile della sua scrittura (che gli portò le pungenti critiche del Gruppo ’63 ): l’uso costante del cosiddetto discorso libero indiretto. Dice Bassani “ Con tutto il rispetto per il film di Vancini, senza dubbio interessante, i cui intenti sono soltanto parzialmente quelli del mio racconto (…) manca il corrispondente cinematografico dello strumento linguistico di cui mi servo per stringere da vicino la realtà: il cosiddetto discorso libero indiretto. (3) La particolare poetica di Vancini che è quella del neorealismo, è efficace soltanto nella rappresentazione dei momenti di maggior tensione (…) ma non gli consente di razionalizzare tale tensione e di articolarla.” Bassani parte da questa discrepanza linguistica per spiegare anche le carenze nell’interpretazione storica degli avvenimenti, la cui complessità politica non viene lontanamente affrontata dal film che non riesce a superare l’impasse della rappresentazione con stilemi appropriati a popolani neorealistici, di personaggi borghesi con sentimenti e passioni borghesi. Non il finale diverso (che, come ricorda Vancini, non piaceva a Pasolini), non l’invenzione di un amore che nel testo è solo suggerito, ma motivazioni profonde e sottili determinano il giudizio non proprio benevolo di Bassani.
Vancini rimase dunque lontano dai meandri della poetica bassaniana, confezionando tuttavia un prodotto onesto, con alcuni virtuosismi linguistici (ad esempio l’oggettiva impossibile della fucilazione), aperto al pubblico e attento, senza esagerare, alle esigenze dell’industria del cinema di quei rigogliosi anni ’60.
E ottenne un grande e meritato successo.

NOTE
(1) Il testo è riportato per intero in Critici eccentrici a Ferrara. A cura di Guido Fink , Liberty House, Ferrara 1988, pp. 90-92.
(2) Pier Paolo Pasolini cercherà di dare una definizione a questa scrittura altra individuandone le caratteristiche, nel saggio La sceneggiatura come “struttura che vuole essere altra struttura”, sta in Uccellacci e uccellini, Garzanti, Milano 1966 ora in Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972 e successive edizioni.
(3) Il discorso libero indiretto accorcia fino ad eliminarla, la distanza tra il narratore e il lettore, riportando senza virgolette e senza un verbo dichiarativo, ma con dovizia di punteggiatura, e dunque di espressività, ciò che pensa un personaggio; fu ampiamente sperimentato da Verga e dai veristi perché permette di entrare nella realtà con tutti i suoi particolari, senza mai però penetrarvi davvero.
E’ certamente complicato e forse anche noioso, ottenere l’equivalente del discorso libero indiretto nel cinema (con una falsa soggettiva?) e certo lontano dalla poetica del neorealismo a cui V. si richiamava [n. d. r.].

BIBLIOGRAFIA di RIFERIMENTO

Florestano Vancini
Il testo che fornisce la bibliografia più completa sul film è senz’altro
Micalizzi Paolo, Florestano Vancini fra cinema e televisione, Longo Editore, Ravenna 2002, pp. 47- 52 e 175- 177; contiene tra l’altro l’elenco accurato delle recensioni dell’epoca dell’uscita nelle sale del film.
Da segnalare per sagacia interpretativa ed eleganza formale
Fink Guido, Introduzione a La lunga notte del ’43, sceneggiatura originale di Ennio De Concini, Pier Paolo Pasolini, Florestano Vancini, Liberty House, Ferrara 1993.
A questi testi si possono aggiungere:
Napolitano Valeria, Florestano Vancini, intervista a un maestro del cinema, Liguori Editore, Napoli 2008
Florestano Vancini, un documentario di Fabio Micolano, DVD, Cinecittà Luce, 2008; contiene numerose interviste a registi, storici, critici cinematografici e allo stesso Vancini su tutta la sua produzione artistica.
Giorgio Bassani
Per un quadro completo dell’attività di Bassani nel cinema e una bibliografia aggiornata al 2016, si veda
Castaldi Rita, Bassani tra letteratura e cinema, sta in Carte di Cinema, n. 27, 2010/1, prima serie cartacea, ora in Scritti su Bassani. Articoli, testimonianze e interviste tra letteratura e cinema, con la collaborazione di Antonietta Molinari, Diogene Multimedia, Bologna 2016, che contiene una bibliografia aggiornata a cui aggiungiamo
Fink Guido, Una lastra invisibile: Bassani e il cinema sta in Giorgio Bassani. Lo scrittore e i suoi testi, a cura di Antonio Gagliardi, Nuova Italia Scientifica, Roma 1988
Savino Simonetta. Lucci Alda., Bassani, Pasolini, Trenker. Una singolare collaborazione, Quaderni dell’Ariosto n.59, Ferrara 2010
Di particolare interesse
Bassani Giorgio, Le parole preparate, Einaudi, Torino 1966 ora Giorgio Bassani, Opere, I Meridiani, Mondadori, Milano, 2001 (2 ed.)
.                                                                                                                     Simonetta Savino

L’INTERVISTA

  1. L’idea di fare un film sull’eccidio del Castello del 15 novembre 1943 fu, come lei stesso racconta, di Valerio Zurlini. Perché Zurlini suggerì a lei di farlo? Che tipo di collaborazione c’era tra voi due?

Fra me e Valerio Zurlini c’era un rapporto di amicizia; è iniziato immediatamente quando io arrivai a Roma nell’autunno del ’49 (per un anno e mezzo, quasi due, io facevo la spola Roma-Ferrara / Ferrara-Roma, in quanto giravo i documentari qua a Ferrara, poi tutta la lavorazione, il montaggio e la sonorizzazione bisognava farla a Roma).
Cominciai a conoscere amici, fra cui Valerio, poi mi stabilii a Roma nel ’52 e più che un’amicizia divenne un sodalizio quasi quotidiano. Quindi c’era questo rapporto stretto, ci scambiavamo impressioni e letture e poi parlavamo del nostro passato: lui aveva la mia età, mi raccontò il suo periodo di guerra (io avevo vissuto qui a Ferrara quel periodo della Repubblica di Salò, lui l’aveva vissuto a Roma e si era anche arruolato in quello che era il nascente Esercito Italiano, affiancato agli Alleati che avanzavano lungo la penisola verso il nord per liberare l’Italia dal nazismo e dal fascismo), lui raccontò le sue avventure dall’altra parte, sia nel periodo di occupazione tedesca a Roma, che successivamente il suo volontariato (arrivò fino a Ravenna con questo nuovo esercito, fu mandato a combattere); io gli raccontai le mie esperienze fra cui questa giornata del 15 novembre 1943, quando un mattino, a 17 anni, andando a scuola, mi trovai i morti per la strada.
Era un racconto che avevo fatto varie volte, di quello che aveva significato per me, un’esperienza traumatica che in qualche modo cambiò proprio la mia vita. Avevo conosciuto anche Bassani, per un film che poi non si fece, scrisse anche un commento narrato su un mio documentario ambientato a Ferrara sui filodrammatici ferraresi (si riferisce a Teatro minimo, 1957. ndr); era un uomo con qualche anno più di me (a quell’età 10 o12 anni di differenza sembravano un abisso, ma si stabilì un rapporto di confidenza). Quando presentò la prima pubblicazione delle Cinque Storie Ferraresi con cui vinse il premio Strega, una delle cinque storie era Una notte del ‘43. Valerio legge il libro, o io gliel’ho consegnato, non ricordo, e mi telefona; dice: “Ho finito adesso di leggere… ma quella è la storia che mi hai raccontato, tu li hai visti quei morti!” “Si…” “E perché non ne fai un film?”

Valerio Zurlini

La cosa mi folgorò, era qualcosa a cui io non avevo pensato, seppure già cominciavo a pensare ad un primo film (io facevo i documentari per arrivare a fare il lungometraggio, non è che intendevo fare il documentarista tutta la vita, come un po’ tutta la mia generazione: io stesso, Maselli, Pontecorvo… in gran parte, venivamo da queste esperienze sui documentari). Perché non ci avevo pensato io? Perché forse era stata talmente un’esperienza personale, vissuta, che mi aveva traumatizzato, che non pensai di poterla tramutare in un film, dove devi avere un po’ di distacco dalla materia che racconti (come uno scrittore, devi avere sì partecipazione ma anche un certo distacco).
Fu così, quasi casuale; cominciai a lavorare immediatamente (siamo nel ’58, ’59), scrissi quello che chiamiamo un primo trattamento, che ho ritrovato, ce l’ho fra i le mie carte, 80 – 90 pagine mi pare. Che cos’è un trattamento? È la trasposizione cinematografica in prosa narrativa, senza nessuna ambizione letteraria, del progetto del film, quindi i mutamenti rispetto al racconto, una pre-sceneggiatura si può dire, e i mutamenti immediatamente furono notevoli. Feci leggere a Giorgio Bassani questo trattamento, e lui non ebbe alcuna obiezione rispetto alle modifiche che avevo fatto al suo racconto, anche perché Bassani in quegli anni ha fatto molte esperienze di sceneggiatore: lui nel mondo, diciamo, “romano”, scriveva sì per riviste molto raffinate, di letteratura, ma svolgeva anche quest’attività di sceneggiatore, che era anche ben retribuita. Anche lui, da sceneggiatore, si rendeva conto che il suo racconto non è un romanzo, è un racconto bellissimo ma il plot, la vicenda, è un po’ esile, per cui [nella sceneggiatura, ndr] c’è l’introduzione di un personaggio che nel racconto non c’è, l’amante di Anna. Quella notte, mentre davanti casa, alla sua farmacia, succede quel che succede, lei non c’è perché è con l’amante; Bassani non dice chi sia, io l’ho fatto diventare un personaggio. Ci sono stati cambiamenti nel finale, altri mutamenti, e la trasformazione del carattere, della personalità della protagonista femminile Anna, che nel racconto di Giorgio è una donnetta di scarsa importanza, anche nel finale: a me è venuto fuori un personaggio positivo, rispetto ai tre uomini che ha intorno, che sono uno peggio dell’altro. Nacque così, in questo senso la prima idea me la suggerì Zurlini, poi ne feci il film che ho fatto.

2. Il suo rapporto con Bassani com’è proseguito?

Bassani seguì tutte le fasi di questo film; dicevo prima che lesse tutta questa pre-sceneggiatura. Nei titoli di testa del film, se si guarda attentamente, c’è “adattamento cinematografico di Florestano Vancini”, poi c’è un cartello che dice “sceneggiatura di Ennio De Concini, Pier Paolo Pasolini, Florestano Vancini”. Io ero al primo film, questi produttori giovani ebbero molta fiducia in me: l’esordio è sempre un punto interrogativo (ogni film lo è in effetti, ma per il debuttante particolarmente); chiamano uno sceneggiatore di mestiere com’era Ennio De Concini, che in quegli anni aveva lavorato in molti film, poi avevo conosciuto qualche anno prima, proprio perché me l’aveva presentato Giorgio Bassani, Pier Paolo Pasolini. Elaborammo rapidissimamente, in 4-5 settimane, la sceneggiatura. Rileggendola venti, trent’anni dopo, era già definita. Bassani lesse anche questa e non fece nessun commento, nessuna riserva.

3. I vostri rapporti continuarono negli anni, dopo questo film?

Sì, addirittura i film allora non si giravano in presa diretta, si faceva quella che si chiama la colonna guida; venivano tutti doppiati dagli stessi attori, quand’era possibile. Belinda Lee, che era inglese, recitò in italiano, imparò proprio le battute in italiano; si sentiva che era straniera, ma per facilitare il doppiaggio e rendere più credibile che quella voce uscisse da quel corpo, lei recitò in italiano (con uno sforzo enorme, perché poi lo imparò anche abbastanza bene, ma allora sapeva poco della nostra lingua).

Pier Paolo Pasolini e Giorgio Bassani

Facemmo quella che si chiama la revisione del dialogo, un’operazione che si fa prima del doppiaggio. Facendo revisionare il dialogo, tu puoi cambiare completamente anche una battuta rispettando il labiale; c’è una polemica, oggi, tra chi fa presa diretta e il doppiaggio. La tendenza oggi è la presa diretta, che ha sicuramente enormi vantaggi, ma tutta la mia generazione, e anche la precedente (tutto il cinema italiano degli anni ‘50, ‘60, ‘70, insomma Fellini, Visconti…) i film li doppiavano. Consideravamo il doppiaggio un’ulteriore fase di creatività, questa è la verità; invece, con la presa diretta, quello che hai, hai; non puoi più cambiarlo. Alla revisione del dialogo, io chiesi a Bassani di darmi una mano: ci incontrammo parecchi giorni, io andavo a casa sua (parlavo tempo fa con la moglie e ancora se lo ricordava), e rivedemmo tutti i dialoghi, prima che io andassi in doppiaggio, inventò anche delle battute. Questo, per dirvi che lui era verso il film di una disponibilità straordinaria, non mi fece mai alcuna riserva, salvo anni dopo una riserva curiosa…
Era quella sul titolo, della “Notte del ‘43”, che lui non approvò mai…?
Non proprio mai: quando riguardai la “pre-sceneggiatura” mi venne naturale “La lunga notte del ‘43”, non è che stetti a pensare “La lunga notte del ’43: non funziona, funziona, forse è meglio…”: mi venne d’istinto. Lui non obiettò mai nulla. Anni dopo, scherzando, ogni tanto, si divertiva con me a parlare in dialetto ferrarese (anche nei suoi racconti, ogni tanto), perché io ero un profondo conoscitore del dialetto ferrarese, ma c’era una differenza sostanziale: lui veniva da una famiglia che parlava italiano in casa, io venivo da una famiglia che parlava in dialetto. Io l’italiano l’ho dovuto studiare, ma lui ha dovuto studiare il dialetto ferrarese (non so se mi spiego!); lo sapeva benissimo, quindi ci divertivamo proprio a farci le domande sul dialetto. Qualche anno dopo, non mi ricordo in che occasione, mi disse in dialetto “Questa tan mla dvevi brisa far…”, e io: “Cos’è che non ti dovevo fare?!” “La ‘lunga’, cussela sta ‘lunga’?” “Ma, Giorgio, non mi hai mai detto niente!”
Oggi poi è diventato un modo di dire, assunto per un momento tragico della storia, è andata anche oltre il titolo, questa formula de la lunga notte; ancora oggi vedo che qualche giornale lo utilizza per definire un periodo (nel senso del periodo della Repubblica di Salò), non solo quella notte, ed è derivato da lunga, dall’aggettivo lunga che gli ho aggiunto. E continuò con questa cosa: “Questa tan mla dvevi brisa far”, in tono scherzoso, e collaborò. Non collaborò alla sceneggiatura, perché la sua posizione era quella più delicata, la parte dello scrittore: “La mia opera io l’ho già fatta, è quella lì; il film è un’altra cosa”; anche se lui quest’esperienza nel cinema l’aveva, perché aveva fatto, ripeto, lo sceneggiatore (di professione, in qualche modo).

4. Ed era bravo?

Sì, era bravo; lui sceneggiò vari film di Soldati, come “La provinciale”, e ne “La donna del fiume” fu lo sceneggiatore principale (film che era nato poi su alcuni miei documentari) e faceva il dialoghista, insomma aveva questa esperienza cinematografica.

Florestano Vancini sul set

5. Però, in quanto autore del testo narrativo d’origine, lui non amava sceneggiare i suoi testi. Ma c’è un motivo particolare perché non ha partecipato alla sceneggiatura del suo film?

E’ così, almeno nel caso mio, assolutamente. Era la posizione che già da allora avrebbe continuato tutta la vita, diversamente da Moravia che cedeva i diritti dei sui libri, e poi chi faceva il film era libero di farne quello che voleva. Contrattualmente era così, non si chiedeva la fedeltà al libro. Hemingway era famoso perché pare non abbia mai visto un film tratto dai suoi libri: non gli importava. Sciascia anche, non si è mai occupato delle sceneggiature dei suoi film, anzi: Sciascia ha fatto lo sceneggiatore con me, per un film ambientato in Sicilia, ma non tratto da un suo racconto, l’unica volta nella sua vita. Bassani non volle partecipare, come ho già detto, non lo prese mai in considerazione; non mi ha mai detto “Io non voglio partecipare”, e forse io non gliel’ho mai chiesto, perché sembrava normale che fosse impossibile, come se si fosse partiti da un’opera di uno scrittore defunto; questa cosa veniva praticata anche dagli scrittori viventi, che mi sembrava una posizione molto corretta: “La mia opera l’ho fatta, è quella là; il film è un’altra cosa”. Che il film sia più o meno fedele all’opera originale non lo rende né più bello né più brutto, è un’altra cosa, ma lo scrittore è garantito, la sua opera è quella là, nessuno gliela tocca; se ne fai un film, più bello o più brutto, è diverso, è un altro discorso. Per cui gli sembrò naturale non partecipare.
Poi, invece, so che Giorgio ha avuto dei problemi con dei suoi film successivi.

6. Sì, “Il giardino dei Finzi Contini”; oggi, invece, gli autori, gli scrittori si comportano diversamente: per esempio Niccolò Ammaniti, autore di “Io non ho paura”, ha fatto anche la sceneggiatura del film. C’è una maggiore vicinanza da parte dei giovani scrittori.

Però da un’esperienza precedente alla sua attività di scrittore di successo, attività di dirigente Rai che aveva esperienze di sceneggiatore. Era un cammino professionale molto diverso.

7. Ritornando alla sceneggiatura de “La lunga notte del ‘43”, Guido Fink parla di tre testi che si intrecciano: il racconto, il film, il ricordo personale di Bassani.

Mi ricordo di quest’affermazione molto bella nel piccolo libro che contiene la sceneggiatura del film. Concordo: lui ha un suo ricordo, perché lui era più piccolo, più giovane di me, un bambino quasi (io ero un diciassettenne quando accaddero questi fatti, credo lui avesse dieci, dodici anni); non può non avere un ricordo, perché essendo di famiglia ebrea era molto presente, attivo, attento alla realtà che si stava creando in Italia già da qualche anno. Mi sembra, per quello che ricordo, un pezzo bellissimo di cui sono grato a Guido Fink.

8. Nella ricostruzione che lei ha fatto della fucilazione dei martiri al Castello, si è ispirato all’immagine che le si è impressa nella memoria quando ha visto i corpi in mezzo alla strada?

Florestano Vancini insegna ad andare in bicicletta a Belinda Lee

Sì, quell’immagine ce l’ho ancora davanti. Fu qualcosa di pazzesco, una giornata fondamentale nella mia vita, il 15 novembre. Per la realtà storica, c’erano quattro morti nel punto davanti alla farmacia; ora c’è un negozio di abbigliamento, ma allora c’era anche il bar più importante di Ferrara che si chiamava FIS, dove un impiegato, un operaio non entrava nemmeno (non perché fosse vietato, ma perché era di livello alto). Lì, in realtà, erano quattro; gli altri quattro erano spostati sul cancello vicino al monumento del Savonarola, ma io li ho visti tutti e quatttro, e in particolare i primi mi sono rimasti impressi. Per ragioni di stringatezza narrativa, drammaturgica, li ho messi lì tutti insieme, ma quella notte furono undici ad essere uccisi. Erano quattro e quattro, altri due sulle Mura, vicino a quello che chiamiamo “montagnone”, e un undicesimo (non si capisce bene come sia finito lì, forse passava di lì per caso), Cinzio Belletti, accanto al Conservatorio. Forse scappava: non c’entrava nulla, non era nella lista di quelli da fucilare, era uno che passava lì per caso; non ricordo se fosse un fornaio, un ferroviere che smontava o andava al lavoro. Quindi io li ho rappresentati, soprattutto i quattro che ho visto là, così come me li ricordavo.
Fra l’altro, c’è un documento, in definitiva abbastanza attendibile, che corrisponde al mio ricordo. Un pittore ferrarese, Mario Capuzzo, li vide, quei morti. Erano le 8, 8:15, io stavo andando a scuola (abitavo fuori, in Porta Mare), e sentii voci di donne abbastanza affannate in bicicletta, tra Piazza Ariostea e via Palestro: “Ci son dei morti in piazza!”; io, anziché andare direttamente in via Borgo Leoni, dove c’erano tutte le scuole (il classico, lo scientifico…), andai per via Boldini: vidi il primo, poi gli altri. Capuzzo, questo pittore, li ha visti, è corso a casa e li ha disegnati (la fotografia non la poteva fare!), però ancora ci si poteva avvicinare, e ho visto i corpi, lì, così, con la gente intorno che parlava, un’emozione incredibile…
Poi dovevo andare a scuola; fra l’altro, la Repubblica Sociale Italiana aprì le scuole solo il 15 novembre 1943 per delle vicende storico politico militari di quel periodo (l’8 settembre, la disfatta dell’esercito); cominciò l’anno scolastico e io andai a scuola. Dopo un paio d’ore neanche, entrarono a scuola delle squadracce, ci buttarono fuori non dico con violenza ma ci fu qualche spintone, qualche soldato lanciò insulti e ci esortò a lasciare gli studi: “Bisogna andar a combattere per la patria, e non perdere tempo a studiare!”, e ci buttarono fuori dalla scuola. E io tornai lì sul luogo, ma non ci si poteva più avvicinare: nel frattempo, c’erano delle squadre fasciste che tenevano la gente lontana. Poi andai a casa, e seppi che nelle prime ore del pomeriggio, questi morti, li portarono via.

9. Io volevo spostare un attimo l’attenzione su Pasolini. Il fatto che Pasolini abbia partecipato invece alla stesura della sceneggiatura mi sembra una cosa interessante, perché poi Pasolini, di lì a poco tempo, nel ’61, ha fatto il suo primo film, Accattone. Volevo chiederle come si lavorava con Pasolini, come lavorava Pasolini insomma le sue impressioni come sceneggiatore

Ci eravamo conosciuti nel 1954, quando il produttore Carlo Ponti decise di fare un film che ebbe titolo “La donna del fiume”, ambientato nelle nostre terre del delta, dopo aver visto due miei documentari, uno sui fiocinini, pescatori di frodo delle valli di Comacchio (una lotta guardie e ladri insomma), e l’altro che si intitolava Tre canne e un soldo, ambientato alle foci del Polesine dove c’erano grandi estensioni di canneti. Un amico regista gli fece vedere questi due documentari; lui stava pensando ad un film per Sofia Loren, astro nascente ancora, e nacque questo film.
Fu chiamato per sceneggiarlo Giorgio Bassani, che era già in rapporti di lavoro di sceneggiatore con Carlo Ponti; era un film poi sulla sua terra, che lui conosceva bene. In modo naturale io mi trovai dentro a questo film perché veniva dai miei due documentari, cominciai a fare dei sopralluoghi. Bassani, quasi all’inizio dei suoi lavori di sceneggiatura, propose di fare entrare nella sceneggiatura un suo giovane amico arrivato a Roma da poco, un professorino molto bravo, poeta di origine emiliana, o bolognese, o romagnola, conoscitore anche del dialetto di Ferrara, un certo Pier Paolo Pasolini… Così ci conoscemmo, e si cominciò a lavorare a questa sceneggiatura: sopralluoghi, viaggi incredibili per andare da Roma a Ferrara (allora non c’era l’autostrada, ci voleva una giornata intera per arrivare da Roma a Ferrara o al basso ferrarese). Fu un rapporto molto bello, molto confidenziale che continuò anche finito il film. Quando io arrivo al momento di fare il mio film, oltre all’intervento di De Concini (sceneggiatore ed esperto), perché voleva controllare come veniva la “bella”, io chiesi a Pasolini di collaborare a questa sceneggiatura, e tutti erano d’accordo (fra l’altro lo conoscevano già, aveva pubblicato “Ragazzi di vita”, perciò…) e Pasolini accettò. A onor del vero non è che abbia apportato molto, sembrava un po’ pigro, ma glielo dicevamo. Collaborò anche ad una scena in particolare, di fatto la scrisse lui: era prevista nella scaletta del film, ma la dialogò lui.

10. Che scena è, per curiosità?

È una scena girata qui a poche centinaia di metri, in via Ercole d’Este, in quello che è il Palazzo Guarini, dove adesso c’è la Facoltà di Giurisprudenza. Allora era abitata da una famiglia, abbiamo girato lì per una settimana, credo. Era la famiglia del personaggio Franco Villani interpretato dall’attore Gabriele Ferzetti. C’è una scena in cui, dopo l’uccisione del padre, che è appunto uno dei fucilati di Corso Roma, come si chiamava, a un certo punto arriva un prete che sta preparando la fuga di Franco Villani dall’Italia verso la Svizzera. C’è un ragazzo, che si era intravisto già prima, sembrava avere un flirt con questa ragazzina della famiglia (alla notte, stando di fronte, uscivano di casa l’uno dall’altro per andare a passare le serate giocando a carte). Il papà, che è amico di famiglia, si rivolge a lui e dice “Ma qui fuggite sempre: siete fuggiti, vi siete arresi al fascismo, è il momento di…”: ha questo atteggiamento che prelude, in qualche modo preannuncia, quella che sarà la Resistenza, la volontà di qualcuno di non subire, non scappare, non stare sempre fermi. La ragazzina era Raffaella Pelloni, che trovai al Centro Sperimentale di Cinematografia; devo dire che era la prima volta che frequentava il Centro Sperimentale di Cinematografia per fare l’attrice. La presi e fu molto brava: è diventata poi Raffaella Carrà.

11. Abbiamo lasciato fuori un aspetto di carattere storico, relativo al periodo in cui è stato fatto il film, a quando è stato presentato: il film ha fatto scandalo. Almeno così ricorda Paolo Micalizzi nella parte che ha curato nella presentazione della sceneggiatura. Ci può dire qualcosa di questo clima “orribile” del 1959-60?

Questa pre-sceneggiatura, o adattamento, di cui parlavo prima, io lo portai a un produttore (uno dei più grossi produttori italiani, tuttora vivente ma non più in attività), una grande casa di produzione e distribuzione, con cui avevo avuto degli ottimi rapporti. Lo lesse con molta attenzione, mi chiamò e fissò un appuntamento: io andai nel suo grande ufficio a incontrarlo. I produttori allora erano molto seri: andammo avanti a lavorare con queste 84 pagine piene di appunti. E cominciò dicendo “Questo film te lo faccio fare”: potete immaginare… Però mi chiese alcuni cambiamenti; il cambiamento fondamentale che mi chiedeva era: “Tu mi devi togliere i fascisti e mettere i tedeschi: non si può fare un film oggi in Italia dove italiani ammazzano altri italiani”. Io risposi che di tedeschi a Ferrara non si vedeva nemmeno l’ombra, non è stato così: sono stati italiani che hanno ammazzato altri italiani. E mi citò tutti i film sulla Resistenza già fatti, Rossellini (“Paisà”, “Roma città aperta”), o altri stranieri, dove il rapporto di conflitto è sempre fra lo straniero oppressore (il tedesco) e il patriota difensore della sua patria (il francese, l’italiano, l’olandese, il norvegese…): erano stati fatti molti film. E anche in questi film italiani i fascisti, o quelli che collaboravano, i cosiddetti collaborazionisti, erano figure marginali, minori: lo scontro diretto è sempre fra il patriota e il tedesco oppressore. Qui invece, gli dicevo, i tedeschi non ci sono nemmeno. In realtà sì, c’era un “commandantur”, come lo chiamavano, ma per la strada non se ne vedevano molti, perché i tedeschi avevano ben altre rogne: avevano gli Alleati che stavano avanzando, già Napoli da contenere, quindi le beghe cittadine non gli interessavano molto. Io non accettai di farlo, e lui disse: “Ma tanto è una storia che conoscono soltanto a Ferrara, che li abbiano ammazzati i tedeschi o i fascisti non ci cambia molto”. Non accettai questa cosa. Ma lui aveva intuito la novità del film; io l’avevo fatto così, d’istinto, per la verità storica. La novità era questa: che per la prima volta si rappresentava quella che poi diverrà la Resistenza, la guerra civile. Tecnicamente è guerra civile, è un termine che io usavo già da molti anni e anche un libro sulla Resistenza famoso, serissimo, di Claudio Pavone, fu intitolato “Guerra civile”: fu guerra civile. Di questo film era questa la sua novità, il suo scandalo, ed ebbe dei problemi. Il Ministero dello Spettacolo di allora non diede i finanziamenti che la legge prevedeva, adesso è un po’ complesso spiegarlo, e a un certo punto sembrò che il film non si potesse più fare; poi il distributore e tutti decisero di autofinanziarselo completamente, senza ricorrere agli interventi statali, che non erano interventi a fondo perduto perché il credito cinematografico dava denaro a interessi bassissimi, ma quel denaro bisognava restituirlo, garantirlo. Loro lo finanziarono, ebbero la forza evidentemente per farlo, senza questo intervento. E’ curiosa una piccola cosa: c’era una Commissione che stabiliva se un film poteva accedere al credito cinematografico della Banca del Lavoro o non accedere. Questa Commissione aveva solo una funzione: stabilire se il film, il progetto (quindi la sceneggiatura, il numero degli attori i registi, i tecnici) presentava i “minimi requisiti tecnico artistici”. In Italia a quell’epoca si facevano quasi 250 film all’anno; credo che i film che non hanno ottenuto il riconoscimento dei “minimi requisiti tecnico artistici” saranno stati forse qualche decina; uno di questi fu “La lunga notte del ‘43”. Poi il clima cambiò, siamo nel ’60; prima del ‘60 c’era una crisi politica in Italia.

12. E per quanto riguarda le scene d’amore, ebbe qualche problema? Anna, la protagonista, tradiva il marito!

Il film fu vietato ai minori di 16 anni e io andai davanti alla Commissione di censura (adesso la chiamano in altro modo). Si potevano chiamare il regista, il produttore e discuterne. Io andai, e la scena in contestazione per cui credo abbiano vietato il film ai minori, malgrado io ne abbia accettato il taglio ( ma poi fu rimessa), era qualcosa oggi inimmaginabile. La protagonista femminile va a casa del personaggio Ferzetti, in corso Ercole d’Este nel palazzo Guarini; si baciano, si abbracciano, si siedono su un divano (si intravede anche il letto lì), si sdraiano, si baciano, e la macchina da presa si avvicina, fa un primo piano di lei escludendo lui, e questa fu una cosa che faceva impazzire il Presidente della censura. Era un siciliano; io non son bravo come imitatore, ma lui diceva: “Ma dove va l’attore Ferzetti? Mi vuol dire dove va?”, perché sembrava uscisse un po’ a sinistra. “Non so dove va!” Ve l’immaginate voi, oggi…
Ma pensi, per quella cosa, lo tagliammo addirittura; lo tagliarono, ne tagliarono addirittura 14 minuti. Invocarono anche la violenza; dissi: “Io non ho fatto vedere neanche una goccia di sangue, la fucilazione l’ho fatta addirittura da dietro il muretto del Castello: cadono, scompaiono alla vista, dopo vedo i corpi”. Quindi non c’erano ragioni, forse c’erano ragioni politiche.

13. Comunque anche Hitchcock, quando ha fatto Psycho, per la famosa scena del reggiseno all’inizio del film       ha avuto dei problemi…

C’è un’altra vicenda curiosa del film: noi girammo tutta la parte della storia del 1943, cominciammo a Ferrara il 18 febbraio (l’unico film di cui mi ricordo il primo giorno di lavorazione) davanti alla Certosa e siamo stati qui quattro settimane, mi pare, perché abbiamo girato questi interni anche, altre strade, l’uscita sul Po; ma la parte centrale del film, quella in Corso Martiri della Libertà, il muretto del Castello, la farmacia, il bar, l’appartamento sovrastante, non l’abbiamo girato a Ferrara: era tutto ricostruito a Roma, con l’impegno che, siccome era previsto il finale 17-15 anni dopo (quindi siamo dopo la fine della guerra), facessimo il ritorno del personaggio di Franco a Ferrara alla fine di aprile, maggio. Il film fu montato, doppiato, finito, fino all’ultima scena del 1943. C’era anche un contratto con i due attori che dovevano tornare a Ferrara, che erano Gabriele Ferzetti e Gino Cervi, e fare questo finale 15 anni dopo.
A quel punto sorge un problema. I due produttori, forse per risparmiare, forse perché anche in buona fede credevano che il film fosse anche bello così, dissero: “Non si può fare 20 anni dopo, tipo I tre moschettieri”; io, invece ci tenevo molto, dicevo che quasi avevo fatto il film solo per avere quel finale, ma loro erano duri, non volevano farmi girare. Chiesi un intervento, un aiuto a Pasolini e a De Concini, che erano stati miei cosceneggiatori. Pasolini, disse: “Ma no, hanno ragione loro”; la cosa che mi meravigliò è che anche Pasolini non mi sostenne in questa mia battaglia, non ci credevo. Poi la vinsi lo stesso, con uno stratagemma: lo girai con l’interrogativo di decidere poi se montarlo nel film o no. Così l’ho girato e poi montato. Non ho mai chiesto a Pasolini se ha poi visto il film finito e se abbia ritenuto giusto il finale moderno o no.

14. Franco dice, dopo aver incontrato Sciagura, alla moglie francese che gli chiede chi è e come si chiama, una frase in francese

Sì, sono battute che aggiunse Bassani, che parlava bene in francese; nella revisione c’è solamente “Si chiama Sciagura”, ma per spiegare bene alla moglie non italiana, ma francese so di questa frase.

15. FRASE DELLE LAPIDI. Si usarono anche dei nomi finti, tra cui Villani Avv. Attilio, cioè il padre, nel film, di Franco Villani. Quindi c’è una sorta di oblio, non voglio dire di perdono, ma di indifferenza forse, di distacco: 17 anni hanno potuto molto, hanno cancellato tante cose. Quindi, ora che si parla del perdono degli squadristi di Salò, “i martiri sono martiri da tutte le parti”…Lei aveva già risolto tutto nel 1960.

Non so se ho risolto tutto…

L’eccidio al muretto del Castello estense e la lapide che lo ricorda.

16. Ha fatto la sua proposta.

Se posso dire una piccola cosa: nel film e nel racconto di Bassani non si dice il 15 novembre, ma 15 dicembre. Un politico che ha presentato l’opera omnia di Bassani nella collana famosa I Meridiani sembra poter dire che Bassani fa questa scelta perché “i corpi giacevano nel nevischio”. Non è vero. Lo so bene, perché di questo problema ne discussi con Bassani, lo sapevamo, lo sapeva lui e lo sapevo anch’io; quei personaggi li conosceva, io li conoscevo, alcuni solo di vista (per lo più erano uomini noti, insomma a quell’epoca) ma lui personalmente li conosceva bene; ma, per sua fortuna, era scappato da Ferrara, perché se fosse stato a Ferrara l’avrebbero preso: non sarebbe nato Bassani, sarebbe finito là, sicuramente. Era perseguitato dalla polizia politica già dal ‘39-‘40. Perché allora questo spostamento di data? Per dire che non è una ricostruzione storiografica rigorosa: su questo fatto, avvenuto realmente, si innesta la fantasia di uno scrittore, di un regista. Addirittura, il personaggio del farmacista non è mai esistito, neanche il personaggio di Gino Cervi come tale; è un simbolo, rappresenta la faida interna al PNF. Il personaggio di Ferzetti lo stesso: è un personaggio tipico della borghesia dell’epoca, è verisimile, anche la farmacia. Altrimenti avrei dovuto riprendere la lapide vera, io questo non lo potevo fare, perché non corrispondono i personaggi, quindi i nomi che appaiono nel film sono sovrapposti a quelli della lapide vera. Oggi forse, a tanti anni di distanza, ci sembra di essere stati eccessivi in rigore e nel rispetto umano, ma credo che abbiamo fatto bene; questa differenza di un mese sta a dire: non è una ricostruzione storica rigorosa di quanto è accaduto nel novembre 1943 a Ferrara: è un innesto di fantasia su un fatto realmente storico. Bassani, mi ricordo che questi cambiamenti lui li sentiva e mal li sopportava, e anni dopo, parlando con lui, chiedendogli la ragione di questo suo ostracismo al film di De Sica, che io quasi non condividevo, riconosceva la mia correttezza di fondo nei confronti del suo racconto; poi è venuto fuori un documento che mi ha lasciato stupito: in un intervista che gli fecero in ottobre, che non conoscevo, c’era il contrario di quello che diceva a me, cioè che le modifiche al racconto non le condivideva; ma (lui a me lo diceva in dialetto, tengo a sottolinearlo), non c’è dubbio che ne La notte del ‘43 almeno “a ghè Frara dentar”. Nel film di De Sica invece, lo diceva proprio, “an ghè brisa Frara”, diceva. Sì, sono quelle le strade, ma lui intendeva l’anima.

FEDIC, LE PERSONE E I FATTI

FILMMAKER ALLA RIBALTA. PIERANTONIO LEIDI
di Paolo Micalizzi

Il VideoCineclub Bergamo ha un passato glorioso e nel 2017 festeggia il 65°  anniversario della costituzione. Fu fondato, infatti, il 3 novembre 1952 per iniziativa dell’Architetto Tito Spini che riunì altri appassionati di cinema formando un gruppo di 19 persone che s’affiliò alla FEDIC. Tito Spini ne fu nominato Presidente, ed al ritorno da un’Assemblea dei Presidenti FEDIC  svoltasi a Roma portò in assegnazione un macchina da presa 16mm. con un obbiettivo che fu uno strumento indispensabile per l’inizio dell’attività. La cinepresa passò da un autore all’altro, e grazie a ciò, dopo due anni, apparvero i primi film bergamaschi, che furono presentati al Concorso Sociale:  da esso vennero fuori due personalità importanti del Cineclub Bergamo, Spini, appunto, e Paolo Capoferri un industriale che aveva una sua 16mm. Paolo Capoferri, fu poi  nel 1961 il promotore, a Bergamo, di un Convegno  di studio di tre giorni sul cinema d’amatore con la partecipazione di critici e cineamatori. Fu un Convegno storico , molto vivace, che diede stimoli ed impulso mettendo le basi per un  nuovo corso della FEDIC,  perché portò il cineamatorismo ad essere considerato una componente importante di un nuovo modo di fare cinema, non più come un diversivo per dilettanti  muniti di cinepresa ma come stimolo ad affrontare temi sociali e civili  con esigenze nuove di conoscenza, cosi come la Società moderna si attende.

Da 25 anni Presidente del VideoCineclub  Bergamo è Pierantonio Leidi che ha ereditato una prestigiosa attività dandole continuazione di qualità ed un futuro con attività finalizzate alla divulgazione e promozione del cortometraggio.  Molte le iniziative attuate in questi anni come testimoniano alcune dispense, a cura di Pierantonio Leidi. Iniziative con Concorsi sociali, Rassegne, Festival, personali d’autore FEDIC e  proposizione di opere di nuovi autori  bergamaschi. Convinto, com è, citando anche Carlo Lizzani, che l’autore non deve  agire in solitudine perché il cinema è un impegno di gruppo ed è utile stare insieme, frequentare, inventarsi degli spettacoli, dei piccoli film. Iniziative che hanno avuto coronamento  in un  Convegno , da lui organizzato nel 2001 dal titolo “ La FEDIC tra reale e virtuale” volto a dare continuità, dopo l’avvento del digitale, a quello mitico del 1961 per dare nuove prospettive alla FEDIC.
Pierantonio Leidi nasce come filmmaker, ed è molto attivo tanto che la sua filmografia  conta oggi  circa 140 opere, tra fiction e documentari, in pellicola(soprattutto Super8) e video. Oltre al piacere di raccontare delle storie di suo interesse, si potrebbe dire che Pierantonio Leidi gira sempre con la telecamera a portata di mano, documentando avvenimenti importanti del territorio bergamasco, ma non solo. L’attività di filmmaker è iniziata nel 1975 con “Pic-nic”  dove riprende la figlia Alessandra di appena sette mesi in Valle Imagna(Bergamo): era una bobina superotto a colori da 15 metri, la  prima bobina da lui  girata. In una sua nota, Antonio Leidi scrive:  “ Dopo un ‘apprendistato’ di due anni e dopo aver utilizzato,  meglio ‘girato’ 95 caricatori da 15 metri inerenti compleanni tra parenti, ferie con la famiglia, gite aziendali e brevi cortometraggi di prova( dunque ufficiosi), nasce in me la volontà di conoscere la mia città sotto le più svariate forme”. Ispirandosi, quindi, al volume “Bergamo nelle vecchie fotografie” di Domenico Lucchetti( che è stato anche un cineamatore bergamasco) Pierantonio Leidi gira “Bergamo ieri – oggi”. Durante la sua lavorazione conosce diversi cineamatori che lo indirizzano verso il Cineclub Bergamo. Un’opera, dice, che è stata accolta con un certo interesse dai soci ma che non fu  ammesso al Concorso di Montecatini. Una decisione quest’ultima  che ha rafforzato in lui la voglia di continuare e poco dopo termina “Accenni storici Città Alta” seguendo la guida turistica “Bergamo passo, passo”. E’ l’inizio di una prolifica attività nel cinema. Nel territorio bergamasco, dal 1978 al 1989, ne gira in totale 24  cogliendo   varie realtà: “ I mestieri”(1980) sull’artigianato, dal materassaio al carrettiere, al restauratore di bambole; “Un  custode delle vacanze: il bagnino” (1982), ma anche ”Come costruire una canoa”(1982). Del 1983 è “Oltre lo spettacolo”, “un dietro le quinte” di un Circo con riprese effettuate a vari gruppi circensi.

Su quest’opera  non favorevoli i giudizi di alcuni giurati di un  Concorso. Leidi non demorde dichiarando di accettare quelle critiche perché gli hanno permesso di capire le varie sfaccettature della ripresa cinematografica per la realizzazione di un cortometraggio e perché esse sono sempre un mezzo per far avvicinare l’autore ad un corretto uso del linguaggio dell’immagine in movimento. Del 1984 è “Eremo di Sant’Alberto di Butrio” dove coglie la vita quotidiana  dei Cenobiti che si ispirano al motto di San Benedetto :”Ora et Labora”, e dello stesso anno “Il burattinaio”, incentrato sulla nascita di un burattino attraverso la ripresa delle varie fasi della lavorazione . dall’intaglio del legno ad uno spettacolo finale nella Piazza vecchia di Bergamo.   Del 1985  è “S.S. il Papa a Bergamo e S.E. il Vescovo a Monterosso” che documenta la visita di Papa Giovanni Paolo II a Sotto il Monte e la visita pastorale del Vescovo, ma anche “CRI:122 anni fra storia e attualità”(1987) storia della Croce Rossa Internazionale sin  dalla sua  fondazione, “Kendo”(1989) inerente un’antica Arte Marziale. Un’attività quella di Pierantonio Leidi guidata dalla curiosità di conoscere i vari aspetti della realtà.
Nel 1990, il passaggio dal Super8  al VHS,SVHS e Digitale.  Fino al 2008 realizza 120 opere che lui cosi suddivide: Arte & Artisti(13), Bergamo: forme e colori di una città(24), Corali: Elevazioni musicali e Anniversari(11), Costume & Società(8), Manifestazioni e varie attività (31), Oltre i confini della città( 14), Sociale- C.R.I.- Volontariato(19).

Nell’elenco, precisa, sono anche compresi 35 clip e 3 spot. Spulciando  tra gli argomenti, rileviamo titoli che ,relativamente all’Arte, riguardano Maestri come Lorenzo Lotto, l’Accademia Carrara, Mostra a Bergamo di  artisti come Giacomo  Manzù e Ginetta Benzoni, ma anche il ricordo ,a trent’anni dalla morte, di “Nino Galizzi  Maestro…moderno” onde far emergere il  pensiero  di uno scultore che  ha ”seminato” sue opere in tutto il mondo. Visitando poi la bottega del fotografo Domenico Lucchetti ne sottolinea la presenza di “strumenti” stereoscopici del 1873, cioè di apparecchi del pre-cinema, e  di documenti inerenti la storia di Bergamo . Per la sezione che riguarda le Corali(Leidi è anche un corista)   documenta alcuni Concerti nazionali del Coro Canticum Novum e del Coro dell’Immacolata. In omaggio a Bergamo, la sua città, la cinepresa coglie alcuni momenti particolari come le suggestive immagini con il ghiaccio di Piazza Dante, il tramonto sulla Città Alta, le mura venete coperte di neve, aspetti della vita comune in città, i colori dell’Autunno a Parco Redona, ma anche l’ultimo vespasiano in Città Alta, un documento storico  perché “Ol  pisadur” oggi non esiste più oppure i progetti e sviluppo urbano e sociale della città e la denuncia su edifici e monumenti abbandonati in attesa di ristrutturazione che nel frattempo, però, creano degrado.  Per “Costume & Società” documenta  il Carnevale e  il Mercantico. Spingendosi “oltre i confini della città”  ecco volgere l’occhio della cinepresa al Borgo medievale in Valle Brembana di Cornelio del Tasso, alla stazione di Milano e sbizzarrirsi anche in una “Fantasia romana”  con immagini che non riguardano soltanto la storia della città eterna, ma  anche  borghi antichi e Chiese. Pone poi attenzione ad una Mostra fotografica a Marzabotto che ricorda la tragica strage di 1830 persone. Attenzione anche ad eventi religiosi  come la nascita di Gesù raccontata dai bambini della Scuola Materna di Azzano S.Paolo o Santo Bernardino di Siena ricordato da Papa Giovanni nell’Enciclica Pace in Terris. Ricca anche la filmografia che riguarda “Manifestazioni e varie attività” per cui documenta  gli spettacoli estivi in città, la festa dell’8 dicembre all’Oratorio Immacolata, gli spettacoli del Circo Rastelli, la sfilata di carri allegorici a Mezzaquaresima, che annualmente si svolge nel centro città e che attira migliaia di persone. Ma va anche a curiosare al Concorso Internazionale di Barbe e Baffi, al raduno nazionale dei Cavalieri d’Italia, alle manifestazioni al Santuario per i quattrocento anni del miracolo del Borgo d’Oro, al carnevale del 700 in Città Alta, ma anche al Concerto di Vasco Rossi allo stadio di Bergamo , alla lezione al Cinevideoscuola del maestro del neorealismo Beppe De Santis  ed allo svolgimento di “Valdarno Cinema FEDIC 1997”. Il suo impegno nel sociale e nella Croce Rossa Italiana come operatore volontario viene anch’esso documentato in una serie di filmati che riguardano l’inaugurazione di un Cippo, il raduno mondiale giovanile a Castiglione delle Stiviere, l’esercitazione Protezione Civile della C.R.I. alla Dalmine, un Convegno sull’Alzhemeir. Realizza anche uno spot contro la guerra a ricordo della tragedia delle Torri Gemelle a New York ed un  altro per insegnare come prevenire l’infarto. Uno spot realizzato nel 2008 che nasce da una brutta esperienza personale che lo ha portato a rallentare notevolmente la sua produzione. La passione per il cinema però è forte, e nel 2008 riprende a realizzare film. Tra gli ultimi lavori ne segnalo alcuni che ho avuto occasione di vedere: “Casello 11090-52 anni dopo” un docu-film del 2012  che ricorda , attraverso un’intervista al novantunenne Giovanni Gigli che ne fu interprete, un film importante di Paolo Capoferri ; “Il cinema di Ermanno Olmi”( 2015)  sulla base di una lezione del critico Angelo Signorelli. Gli ultimi suoi lavori sono del 2016: “ Le mura veneziane”  che documenta una Mostra sulla conoscenza delle mura  bergamasche realizzata con disegni  di studenti dell’Istituto Comprensivo Donadoni di Città Alta e “ Confidenzialmente…Nino” omaggio a Nino Giansiracusa,  attraverso la riproposta del suo film del 1957 “La porta aperta sulla strada” che consente  a questo personaggio di spicco della FEDIC di  ricordare aneddoti, storie, rancori, ma anche soddisfazioni ottenute anche in ambito  internazionale di questo medico, Presidente dello storico Cineclub Milano. Un’opera nata in seguito ad una conversazione  con Giansiracusa, oggi novantaseienne, che Leidi ricorda “ mi ha affascinato non solo per la fresca memoria, ma per l’entusiasmo con cui si stava esprimendo”. “Una esposizione, aggiunge, che mi ha preso cosi tanto che ho persino dimenticato che tra me e lui c’era la videocamera”.
Concludo questo Profilo citando quanto scrive Angelo Tantaro su Nuovo FEDIC Notizie in un articolo dal titolo “Pierantonio Leidi, a prova di generosità” dove ne sottolinea le doti umane della sua personalità aggiungendo che  “la sua autenticità è tendenza. Da emulare, soprattutto, da chi custodisce sogni creativi di voler fare, sopra ogni altra cosa, per gli altri”. E sempre con buonumore.

FILMOGRAFIA

PRODUZIONI SUPEROTTO

1978, BERGAMO: IERI-OGGI (28:30) – 1979, ACCENNI STORICI CITTA’ ALTA (29:00) – 1980, IN CAMPEGGIO PER RITROVARE NOI STESSI 9:20) – 1980, I MESTIERI (24:30) – 1982, UN CUSTODE DELLE VACANZE: IL BAGNINO (15:00) – 1982/83, LUNA PARK (8:30) – 1983, OLTRE LO SPETTACOLO (15:00) – 1984, IL BURATTINAIO (16:40) – 1984, EREMO DI S. ALBERTO DI BUTRIO (9:00) – 1984, NATALE & NATALE (10:30) – 1985, IL CORO DELL’IMMACOLATA (24:20) – 1985, SALICE TERME (12:50) – 1985, ORVIETO (11:30) – 1986, LA PICCOLA ARMATA (13:30) – 1987, LA C.R.I. 1864-1986 (39:20) – 1987, FUMO NEGLI OCCHI (8:20) – 1987, CREATIVO AUTUNNO (10:30) – 1988, LA BANCARELLA (14:00) – 1989, CIN CIN (13:00) – 1989, KENDO (15:00)

“Fumo negli occhi” – Mentre si gira “Il burattinaio”

VIDEOPRODUZIONI

  • 1988/93, CRI IL W. INAUGURAZIONE CIPPO IN ROCCA (documentario, 37:35) – 1989, 125° DI FONDAZIONE DELLA CRI A CASTIGLIONE DELLE SIVIERE (documentario, 139:00) – 1989, 125° DI FONDAZIONE DELLA CRI A CASTIGLIONE DELLE SIVIERE Versione Ridotta (documentario,68:00) – 1989/93, CRI PIONIERI (documentario, 08:25) – 1990/03, ESTATE VIVI LA TUA CITTÀ (documentario, 30:00) – 1992, ..LA VITA CONTINUA
    (documentario, 11:30) – 1992, FIGARO Accademia Acconciatura Bergamasca (videoclip, 04:55) –
  • LA FONTANA DI PIAZZA DANTE (videoclip, 01:18) – 1992, TERAPIA AL PASSO (documentario, 09:45) – 1993, CRI – FIERA DEL SOLE Piazzale Celadina – Bergamo (videoclip, 02:30) – 1993, CORO CANTICUM NOVUM – NATALE a CESENA (doc-musicale, 36:00) – CORO CANTICUM NOVUM – PIEVE di GUASTALLA (doc-musicale, 15:00) – 1993, ICE (videoclip, 01:20) – 1993, IL BLASCO: VASCO ROSSI A BERGAMO (videoclip, 03:30) – 1993,IN MEMORIAM (musicale, 77:00) – 1993, INVITO A CORTE (danza, 08:45) – 1993, FONTANA DEL DELFINO (videoclip, 01:00) – 1993, MARTEDÌ’ GRASSO (doc-musicale, 17:25) 1994, DALMINE ESERCITAZIONE PROTEZIONE CIVILE” (documentario, 37:12) – 1994, CRI. DALMINE ESERCITAZIONE PROTEZIONE CIVILE (documentario, 20:35) – 1994, CORNELIO DEI TASSO (documentario, 05:30) – 1994, ESTATE VIVI LA TUA CITTÀ (doc-musicale, 26:00) – 1994, GIRASOLI (videoclip, 01:25) – 1994, LAVATOIO DELL ‘800 (videoclip, 01:30) – 1994, MERCANTICO Prima Parte (documentario, 12:00) – 1994, UNA VITA CON I BURATTINI (documentario, 08:25) – 1995 AURORA (videoclip, 01:15) – 1995, CRI VOLONTARIATO A BERGAMO (documentario, 43:30) – 1995, CINEVIDEOSCUOLA 95 (documentario, 22:15) – 1995, CINEVIDEOSCUOLA 95 (videoclip, 02:25) – 1995, CORO CANTICUM NOVUM (musicale, 62:00) – 1995, CORO CANTICUM NOVUM Concerto Pasqua ’95-Chiesa S. Maria delle Grazie (musicale, 70:00) – 1955, CORO CANTICUM NOVUM Concerto per sole Voci Femminili (musicale, 48:30) – 1995, CORO DELL’IMMACOLATA …dal canto gregoriano (90:00) – 1995, EMERGENCY (Spot, 01:07) – 1995, MERCANTICO Seconda Parte (documentario, 37:00) – 1995, ORATORIO DELL’IMMACOLATA (documentario, 18:00) -1995, PROTEZIONE CIVILE (documentario, 14:45) – 1995, SEGNI NEL TEMPO, SUONI DAL TEMPIO (documentario, 08:00) – 1995, STAGIONI (documentario, 09:30) – 1996, BERGAMO: PIAZZA VECCHIA (videoclip, 01:40) – 1996, BERGAMO: PIAZZA VECCHI A (videoclip, 03:05) – 1996, CIRCO RASTELLI A MONTEROSSO (documentario, 37:30) – 1996, CORO CANTICUM NOVUM Concerto Pasqua ’96 – Chiesa S. Maria delle Grazie (musicale, 80:00) – 1996, ELEVAZIONE MUSICALE per FRA’ MARCELLO (musicale, 75:00) – 1996/97 IL S IGNORE DELL’EQUILIBRIO (documentario, 31:00) – 1996, DUCATO DI PIAZZA PONTODA: MUSICA E POESIE (documentario, 36:00) – 1996, FANTASIA ROMANA (videoclip, 04:45) – 1996, L’ITALIA VOTA (videoclip, 02:25) – 1996, MEZZAQUARESIMA: SFILATA DEI CARRI (documentario, 35:00) – 1996, MEZZAQUARESIMA ’96 (videoclip, 03:00) – 1996, MILANO (documentario, 10:30) – 1996, SAGGIO SULLA MITOLOGIA (documentario, 35:00) – 1996, TRAMONTO SU BERGAMO ALTA (videoclip, 03:00) – 1997, CRI. MOSTRA STORICA del Comitato Provinciale di BG (documentario, 35:00) – 1997, CASA di JONNY Corso per animatori C.R.E. – 15 Lezioni (promozionale, 21:00) – 1997, DIRE IL MARE (promozionale, 36:00) – 1997, FAVOLA D’AMORE (prosa , 51:00) – 1997, JEMEN (documentario, 07:15) – 1997, LA GERA D’ADDA (documentario, 14:00) – 1997, MEZZAQUARESIMA (documentario, 22:00) – 1997, MONACHELLA MI FECERO ANDAR (videoclip, 06:25) – 1997 Mons EGIDIO CORBETTA (documentario, 70:00) -1997, NEVE DI FINE ANNO (videoclip, 05:00) – 1997, VALDARNO CINEMA FEDIC (doc-cine/festival, 100:00) – 1998 ARTE (videoclip, 01:50) – 1998, CASA TELETHON (documentario, 15:00) – 1998, DI TUTTO, NON DI PIÙ’… (videoclip, 03:30) – 1998, GRAZZANO VISCONTI (documentario, 04:40) – 1998, IMO (prosa, 11:00) – 1998, IN MEMORIAM – XX anniversario della morte del M° Guido Gambarini. (doc/musicale, 115′) – 1998, IN MEMORIAM- XX anniversario della morte del M° Guido Gambarini. (doc/musicale, 23:00) – 1998, L LOTUS M D X X I (videoclip, 02:50) – 1998, PARCO DI REDONA (videoclip, 04:00) – 1998, PARCO SUARDI (videoclip, 01:55) – 1998, ROCCA di URGNANO (videoclip, 01:30) – 1998, VIVERE CON IL MALATO DI ALZHEIMER (convegno, 122:00) – 1998, MUSICHE ANTICHE (musicale, 48:00) – 1999, MAESTRI e ARTISTI 200 anni dell’Accademia Carrara (documentario, 35:00) – 1999, REGINA della NOTTE (videoclip, 02:50) – 2000 L’EUROPA CHIAMA, BERGAMO RISPONDE (documentario, 42:00) – 2001, CASTEGGIO (documentario, 16:40) – 2001, PROTEZIONE CIVILE – SEBINO 2000 (documentario, 60:00) – 2001, LA LIBERTA NEL RIGORE (videoclip, 03:25) – 2001, GIRASOLI (videoclip, 01:45) – 2001, PRIMO RADUNO di MACCHINE D’EPOCA (documentario, 23:00) – 2001, CORPO DI GUERRA (videoclip, 02:45) – 2001, ARLECCHINO IN MASCHERA (documentario, 14:00) – 1999/02, I CARNEVALI della SERENISSIMA (documentario, 04:45) – 2002, UNA DELLE ULTIME SERE DI CARNEVALE (documentario, 20:00) – 2002, LE STREGHE (documentario, 17:00) – 2002, IL FUTURISMO (documentario, 30:00) – 2002, MANZU’ A BERGAMO (videoclip, 07:35) – 2002, IL BORGO D’ORO (documentario, 60:00) – 2002, PORRETTA TERME (documentario, 10:00) – 2002, CONTRASTI (documentario, 70:00) – 2003, ISTITUTI CULTURALI del COMUNE di BERGAMO (documentario, 22:00) – 2003, ARTE: MOSTRA GINETTA BENZONI (documentario, 25:00) – 2003, VISI a REGOLA d’ARTE (documentario, 8:30) – 2003, IL BRODO INDICO (documentario, 30.00) – 2003, SEBINO TRA NATURA E ARTE (documentario, 38:00) – 2003, ISTITUTO S. ANGELA MERICI – CASAZZA (documentario, 19:00) – 2003, COLORI D’AUTUNNO (documentario, 04:00) – 2003, MONTEROSSO (documentario, 07:30) – 2004, IL MISTERO DELL’AMORE (documentario, 05:00) – 2004, OL PISSADUR (documentario, 04:00) -2004, IL COLORE DEL CARNEVALE (documentario, 10:45) – 2004, U.N.C.I. – CAVALIERI D’ITALIA (documentario, 85:00) – 2004, ORATORIO IMMACOLATA 1903-2003 (documentario, 70:00) – 2004, LA NUOVA BIBLIOTECA TIRABOSCI (documentario, 04:30) – 2004, MUSEO DI NOTTE: ORTO BOTANICO (documentario, 04:15) – 2004, BIBLIOTECA TIRABOSCHI (documentario, 15:45) – 2004, DESTRA & SINISTRA (videoclip, 04:45) – 2004, TRAVI ARTE (documentario, 15:00) – 2005, CANTICO DELLE CREATURE (musicale, 21:40) – 2005, SPAZIO LIBERO E’… (videoclip, 04:00) – 2005, NINO GALIZZI (documentario, 19:00) – 2005, FU SERA E FU MATTINA (videoclip, 04:00) – 2005, CARO CICCINO (film + Back Stage, 22:00) – 2006, 3° BACK STAGE FEDIC-PISA (Back Stage, 36:00)-2006, TRAME DI VITA A BERGAMO TRA ‘700 e ‘800 (documentario, 06:25) – 2006, PORRETTA TERME e…DINTORNI con la FORTEZZA di PISTOIA 2005 (documentario, 50:00) – 2006, MARZABOTTO: UNA STRAGE DI 1830 PERSONE (documentario, 05:40) – 2006, FESTA DI NATALE 2005 (documentario, 21:30) -2006, DOMENICO LUCCHETTI E LA SUA “GALLERIA DELL’IMMAGINE (documentario, 17:00)-2006, DUCATO di PIAZZA PONTIDA (documentario , 19:40) – 2006, COLORI IN MOVIMENTO (Arte varie, 97:00) – 2006, NINO GALIZZI A PALAZZO BELLI – GRASSOBBIO (Cerimonia, 28:45) – 2006, GRASSOBBIO: MEMORANDA per NINO GALIZZI (Documentario, 41:15) – 2007, E, SE BERGAMO… (Videoclip, 4:30) – 2007, CHIESE (Videoclip, 5:50) – 2007, GINETTA BENZONI (documentario, 28:00) – 2008 LA CITTA SI FA BELLA Testimonianza Urbana (Documentario, 06:40) – 2008, DEGRADO IN CITTA’ Denuncia Urbana (documentario 06:55) – 2008, BERNARDINO: UNA STORIA DI PACE (documentario, 21:55)-2008, BATTICUORE BG – L’INFARTO… come prevenirlo (SPOT, 00:40) – 2009, ORAZIO GENNUSO: POESIE (documentario, 16:35) – 2009, RI-PARLIAMONE (documentario, 11:15) – 2010, LA MELARANCIA (documentario, 18:00) – 2010, LA MIA PIAZZA PONTIDA (Videoclip, 03:17) – 2010, VENDEMMIA 2009 (06:30) – 2011, NEL CUORE DELLA CITTA’ (documentario, 43:45) – 2011, MR. DENNIS: MECCANICART (videoclip, 05:02) – 2012, SILENTIUM -ARTE – documentario su Andrea Pizzuti (09:16) – 2012, CASELLO 11090 – 52 ANNI DOPO (docufilm, 07:20) – 2013, LA VIA CRUCIS – ARTE/ARTISTI (25:50) – 2013, MICHELE AGNOLETTO ARTE/ARTISTI (27:00) – 2013, VERSO LA META (16:45) – 2014, TOILETTE (16.30) – 2015, IL CINEMA DI ERMANNO OLMI: SOCIETÀ, COSTUME, LAVORO (24:00) – 2016, MOSTRA: “LE MURA VENEZIANE (11:00) – 1957-2016, CONFIDENZIALMENTE … NINO (18:36)

CINECLUB CAGLIARI:
SINERGIE CULTURALI ALL’INTERNO DI UNA RETE
di Pio Bruno

Il Cineclub FEDIC Cagliari è una piccola realtà culturale inserita in un contesto, lo spazio urbano del capoluogo sardo e del suo hinterland, che recentemente sta vivendo un interessante incremento dell’offerta di spettacoli ed eventi culturali che oggi, se rapportata solo a dieci anni fa, si può considerare piuttosto varia e ricca. Uno dei diversi percorsi che in qualità di Presidente del Cineclub, carica che ricopro dal 2011, mi sono prefisso di far affrontare a questa associazione cinematografica, è quello della partecipazione a iniziative organizzate da altre associazioni del settore, e viceversa di coinvolgere altre realtà culturali alle nostre iniziative, convinto dell’importanza della condivisione di esperienze e dello scambio di diversi punti di vista e che l’impostazione di una rete che offra alla collettività più occasioni di confronto e opportunità di conoscenza rappresenti un fattore di crescita sociale.
D’altronde il Cineclub di Cagliari è nato negli anni ’50 proprio attraverso la collaborazione con altre associazioni, in particolare con il Cineclub di Sassari, e non si può ignorare il rapporto fondamentale, simbiotico direi, che dagli anni ’60 tuttora lo lega alla Cineteca Sarda (Società Umanitaria) di Cagliari. Negli ultimi anni si sono inoltre consolidati i legami con la FICC, con condivisione di materiali e obiettivi culturali, e hanno preso l’avvio collaborazioni con associazioni no profit impegnate sul sociale che occasionalmente organizzavano rassegne cinematografiche e Festival (per esempio l’itinerante “Sandalia Sustainability Film Festival” legato a tematiche ecologiche e di sviluppo sostenibile e organizzato dall’associazione sassarese di promozione sociale “Anima Libera”, o il “Solidando Film Festival“, portato avanti dalla onlus cagliaritana Solidando, della cui giuria ho fatto parte in quanto rappresentante del Cineclub FEDIC assieme a giornalisti, registi e operatori di altre associazioni cinematografiche sarde). Anche a livello internazionale i rapporti con altre realtà cinematografiche sono stati fruttuosi, come per esempio con la Cinémathèque “Casa di Lume” di Porto Vecchio in Corsica, tramite la quale è stato possibile proiettare il film cult “Brusgiature” alla presenza del regista Dominique degli Esposti.
Quest’anno il Cineclub ha iniziato a collaborare con altre due associazioni cinematografiche sarde, “L’Alambicco”, sotto la direzione di Patrizia Masala, e “La Macchina Cinema” diretta da Alessandro Maccis, ambedue affiliate alla FICC, che hanno organizzato due interessanti rassegne: una sul cinema muto (“Storie di volti e silenzi – la magia del cinema muto“) e un’altra sul regista Roberto Faenza, (“Roberto Faenza – contaminazioni tra cinema e letteratura“) che prevedeva la proiezione di 17 suoi film, l’incontro dell’autore con il pubblico e una serata finale, con il maestro Romeo Scaccia che al piano ha eseguito le musiche dei suoi film, e la consegna a Faenza di un Premio alla carriera.

Pio Bruno e la moglie insieme a Roberto Faenza (Foto di Luigi Zara).

Il Cineclub Cagliari ha contribuito mettendo a disposizione alcune serate, di solito previste per l’ordinaria programmazione FEDIC (generalmente proiezioni di cortometraggi e piccole produzioni indipendenti), ed ha invitato i soci a confrontarsi con le opere di Faenza, realizzate con cast di professionisti e produzioni internazionali, per discutere sui film, le scelte del regista e i collegamenti con i romanzi dai quali ha tratto i soggetti per i suoi film.
In particolare, in occasione della proiezione di due film di Faenza, “Mio caro dottor Gräsler” e “Jona che visse nella balena” ho avuto l’opportunità di introdurre le due opere e di condurre poi il dibattito, così come abitualmente viene fatto durante le serate del Cineclub, con grande coinvolgimento del pubblico.
Personalmente ritengo che la sinergia tra i diversi operatori culturali delle svariate associazioni cinematografiche che operano in questo territorio, collaborazioni che si stanno sviluppando anche a livello nazionale e internazionale, sia la strada da seguire per il Cineclub che da sei anni ho l’opportunità di dirigere. Trovo perciò incredibile che, a livello istituzionale, mi riferisco in particolare alla nuova legge sul cinema, si tenda ora a non riconoscere più nel giusto modo il valore sociale di questa rete che, grazie alle iniziative di operatori volontari, costantemente organizza molteplici attività prettamente culturali e offre un contributo fondamentale allo sviluppo della conoscenza cinematografica e della coscienza critica del pubblico.

Foto di gruppo dell’incontro con Roberto Faenza (foto di Luigi Zara)

FESTIVAL ED EVENTI

A “PRIMO PIANO SULL’AUTORE” L’ULTIMO OMAGGIO AL REGISTA PASQUALE SQUITIERI
di Paolo Micalizzi

“Primo Piano sull’Autore” è una importante manifestazione  che da 35 anni Franco Mariotti porta avanti con passione e coraggio con l’Associazione Culturale AmaRcord malgrado non sia sostenuto adeguatamente dalle Istituzioni. Come testimonia il fatto che l’edizione 2016 invece del tradizionale appuntamento di Assisi si è spostata a Spoleto, o meglio si doveva spostare in quella  città  ma a causa dei problemi sismici avvenuti in quel territorio la manifestazione ha avuto luogo a Roma, il 12 novembre, nella prestigiosa Sala Fellini di Cinecittà Studios.
Protagonista di “Primo Piano sull’Autore” il regista Pasquale Squitieri, che è stato cosi giustamente omaggiato prima dell’avvenuta scomparsa del 18 febbraio 2017. Un Convegno in cui è stato sottolineato “Il piacere della libertà” di questo regista dal carattere scomodo, “un vero combattente nel cinema e nella vita” come evidenziato dal critico cinematografico Valerio Caprara che ha coordinato l’incontro. Su questi temi si è soprattutto concentrata l’attenzione dei critici, studiosi e professionisti del cinema che hanno intrecciato la loro carriera con quella di Pasquale Squitieri. I cui interventi si possono anche leggere nel Libro-Catalogo della Rassegna, curato da Lilia Ricci. Da Silvia Contini che sviluppa un ampio saggio imperniato sullo Squitieri portatore di uno sguardo “fuori dal coro”, un esempio di “libertà  totale” che ha spaziato in molti ambiti e nel suo cinema ha dato spazio alle donne. Il piacere della libertà e il coraggio di essere se stesso e di mostrare il potere nei suoi effetti del bene e del male è stato poi al centro dell’intervento di Paola Dei. Tra gli interventi del catalogo da segnalarne alcuni, dove il regista è stato anche intervistato. Come quella contenuta nell’ intervento di Domenico Monetti “Un autore di cinema…e non solo”:  un’interessante intervista con il regista in cui ne viene ripercorsa la nascita e la realizzazione dei film d’impegno civile e politico ma anche degli spaghetti-western e dei film non realizzati come quello sul caso Moro che doveva essere interpretato da Dirk Bogarde, il protagonista, tra gli altri, di “Il portiere di notte” di Liliana Cavani. Un film che non fu realizzato perché, come gli disse il produttore, su di lui c’era il veto: realizzò poi con lo stesso produttore “Il pentito”. Un altro film di Pasquale Squitieri doveva essere “Hotel Meina”, dal libro di Marco Nozza, ma non fu realizzato per l’opposizione di alcuni ebrei che non lo ritenevano il regista giusto “perché essendo di destra non possedeva equità storica”. lo realizzò invece Carlo Lizzani. Un’altra intervista-conversazione è contenuta poi nell’intervento di Malcom Pagani in cui si parla anche del suo ultimo film, “L’altro Adamo” del 2014, non ancora distribuito, e dei suoi recenti guai: un incidente stradale che lo costringeva, come si è visto al  Convegno, in carrozzella, un tumore ai polmoni, l’annullamento del vitalizio di ex parlamentare.  Il film è stato proiettato nell’ambito del Convegno. Si tratta di un’opera fantascientifica nel cui ruolo di protagonista si cala intensamente Lino Capolicchio. Proiettato al Convegno anche il documentario “Piazzale Loreto”, un monologo su Edda Ciano interpretata con intensità drammatica dall’attrice Ottavia Fusco, attuale compagna del regista.

Protagonista al Convegno anche Claudia Cardinale, attrice e  compagna di vita per lungo tempo di Pasquale Squitieri. Per lui ha interpretato una dozzina di opere tra cinema , televisione, teatro. A partire da “I guappi”(1974), e  sviluppatosi poi in altre opere tra le quali “Claretta”(1984) sulla controversa figura dell’amante di Benito Mussolini, una drammatica e convincente interpretazione. Interpretazioni di cui si è parlato nell’ambito del Convegno e che hanno fatto evidenziare a Claudia Cardinale  che il regista le ha dato l’opportunità di interpretare personaggi di donne forti che le hanno valso ambiti premi e l’hanno arricchita come donna.
Al Convegno si è discusso anche, con il coordinamento di Marco Spagnoli e Francesca Piggianelli, del nuovo cinema italiano prendendo l’occasione di un numero speciale della rivista 8 e1/2 diretta da Giancarlo De Gregorio. Con l’intervento di alcuni giovani registi, si è discusso di tradizione e modernità nel loro cinema.
A conclusione di “Primo Piano sull’Autore” sono stati consegnati i Premi “ Domenico Meccoli- Scrivere di Cinema” . Ne abbiamo riferito nel n.11 di “Carte di Cinema” segnalando che anch’essa è stata premiata come miglior Magazine online.

TIGRI E BUOI DEI PAESI TUOI
di Maria Pia Cinelli

A dire il vero le tigri in questione sono anche del paese nostro. Se indiano è l’universo diegetico, italiani sono infatti l’origine letteraria, l’adattamento e la realizzazione dello storico sceneggiato RAI che il River to River Florence Indian Film Festival (Firenze, 3-8 dicembre 2016) ha riproposto in sala come omaggio all’interprete che al meglio ha incarnato il pirata gentiluomo ‘di statura alta, slanciata, dalla muscolatura potente, dai lineamenti energici, maschi, fieri e d’una bellezza strana’[1], formando un unicum con il personaggio, tanto che a quarant’anni di distanza, malgrado una carriera internazionale di tutto rispetto, nell’immaginario collettivo l’attore Kabir Bedi è ancora e soprattutto Sandokan.
L’omonimo sceneggiato – così si chiamavano le serie all’epoca della messa in onda nel 1976 – oggetto da subito di culto e col tempo di rivalutazione critica, diretto da Sergio Sollima amalgamando racconto di avventura ed elementi melò con inclusione di sequenze dedicate ad aspetti etnici di valenza quasi documentaria[2], è stato la più imponente co-produzione televisiva italiana, venduta in tutto il mondo[3] con notevole successo, che non solo ha regalato a Kabir Bedi il ruolo di una vita ma ha rinverdito per varie generazioni il mito della Tigre della Malesia narrato da Emilio Salgari nei romanzi del ciclo indo-malese, il leggendario ribelle che si oppone al colonialismo britannico simbolo universale di lotta per la libertà.

Kabir Bedi

Ben lontani dalla maestà selvaggia dei felini striati sono i buoi protagonisti in absentia del lungometraggio in concorso “Rangaa Patangaa”, opera prima di Prasad Nanjoshi[4], facente parte del Marathi Cinema, vale a dire la produzione in marathi, lingua ufficiale dello stato del Maharashtra, con sede a Mumbai (Bombay) dove sorgono anche gli studi della più nota Bollywood, che parla hindi e talvolta urdu[5]. Delle varie industrie cinematografiche indiane – ricordiamo anche quelle in lingua tamil (la così detta Kollywood), malayalam, relugu, bengali – la Marathi è di certo la più antica e, dopo una fase di declino dovuto fra l’altro alla concorrenza della vicina rivale, grazie a un processo di rinnovamento ha riacquistato terreno, tanto da riuscire negli anni zero ad avere due film candidati ufficiali agli Oscar[6] e nel 2010 a battere Bollywood al botteghino.
I buoi Rangaa e Patangaa spariscono all’improvviso dalla stalla del contadino musulmano Jummal, che oltre ad amarli come i figli che non ha potuto avere si ritrova così senza aiuto per lavorare la terra. Non ricevendo alcun supporto dalla polizia locale si mette personalmente alla loro ricerca insieme all’amico Popat con esito purtroppo negativo, per cui finisce con l’appoggiarsi – obtorto collo – a una rete televisiva, presente in zona per un reportage sulla siccità, che trasforma la scomparsa in un caso mediatico globale con implicazioni di ogni sorta.
Avvalendosi dei toni della commedia nera il regista Nanjoshi getta uno sguardo sulle problematiche delle zone rurali, tema ricorrente nel cinema indiano, di recente affrontato dall’angolazione del gran numero di suicidi fra i contadini in difficoltà finanziarie per mancato raccolto e debiti inestinguibili, un fenomeno di vecchia data balzato nel terzo millennio alla ribalta internazionale con conseguenti pressioni sul governo per implementare l’irrigazione e fornire aiuti. A riguardo un titolo paradigmatico è il divertente Peepli Live di Anusha Rizwi presentato a River to River nel 2010, dove un coltivatore incita il fratello a togliersi la vita per ottenere il previsto risarcimento statale di 100.000 rupie, pari a circa 1.600 Euro.
Tratto da un soggetto di Chinmay Patankar e ambientato nella regione di Vidarbha (Maharashtra) – l’area con il più alto indice di suicidi, circa 4.000 all’anno – “Rangaa Patangaa” ha il pregio di usare un approccio originale per filtrare in chiave satirica il disagio dei piccoli agricoltori alle prese con condizioni climatiche avverse, una politica distratta e auto-referenziale inabile a risolvere annosi problemi, autorità inefficienti e corrotte, commercio e macellazione illegali di bestiame, uno scenario di cui il Jummal lasciato solo di fronte al furto degli animali si fa chiara metafora.
L’attore comico Makrand Anaspure qui al suo ruolo più articolato costruisce un personaggio semplice ma di buon senso, umile ma deciso, che resta con i piedi per terra anche quando il circo mediatico a caccia di ascolti fa di una semplice ruberia un caso di convivenza religiosa fra indù e musulmani (corredato da esperti a confronto su avvenimenti di 35 anni prima!), e che saggiamente arriverà alla conclusione ‘se devi cercare i tuoi buoi, fallo da te’.
Sebbene con l’entrata in scena dell’intervento televisivo il film assuma tratti più scontati e visitati – con molte assonanze con il citato “Peepli Live” – rimane un buon esempio di cinema medio, di natura commerciale ma connesso con la realtà e attento alle istanze sociali, un cammino che i registi emergenti degli studios Marathi hanno iniziato a percorrere.

Dal film “Rangaa Patangaa”

Più che a uno spostamento geografico assomiglia a un salto temporale il passaggio dalla campagna di Vidarbha al centro urbano di Mumbai, teatro di Permanent Roommates, la fortunata serie web indiana con oltre 50 milioni di visualizzazioni totali e con la miglior valutazione da parte di Imdb.
Se ovunque la rete è la nuova frontiera della sperimentazione, a certe latitudini l’aspetto antropologico prevale su quello linguistico, dando conto in primo luogo del cambiamento, del distacco dalla tradizione e del rafforzamento della figura femminile. Di fatto la creazione della casa produttrice nonché distributrice The Viral Fever[7] è una classica rom-com dal ritmo brioso, basata sull’interazione fra un lui simpaticamente naïf e una lei più determinata e su un umorismo situazionale sorretto da personaggi secondari ben caratterizzati, nondimeno ha il merito di mostrare le insicurezze e le difficoltà con cui una coppia intorno ai 30 anni deve effettivamente misurarsi ai giorni nostri.
L’unica serie web in India a raggiungere la 2a stagione[8], “Permanent Roommates” inizia con il ritorno di Mikesh (l’attore Sumeet Vyas) dagli Stati Uniti dove lavora, intenzionato a sposare Tanya (interpretata da Nidhi Singh) dopo una relazione a distanza durata tre anni, ma la ragazza non è pronta al grande passo pertanto i due optano per una convivenza. La ricerca di un appartamento è il filo conduttore della prima stagione, mentre nella seconda un’inattesa gravidanza e i successivi preparativi per le nozze sono il canovaccio dove si intrecciano i loro alti e bassi.
In un paese dove la donna è ben lungi dal conseguire un trattamento paritario e dove il matrimonio combinato è ancora alla base dell’80% delle unioni a tutti i livelli socio-culturali – con un fiorente indotto di agenzie con tanto di cataloghi in rete di aspiranti mariti e mogli a beneficio in primis dei genitori – un soggetto convenzionale come la vita di coppia acquista una valenza progressista inscenando un ménage more-uxorio, parlando apertamente di sesso, contraccezione, aborto e facendo di Tanya, futura manager interessata alla carriera e al suo posto nel mondo oltre che alla vita familiare, la figura portante. Di ambientazione medio-borghese e destinata a un target ad alta scolarizzazione, seppur molto più all’avanguardia della società che rappresenta, “Permanent Roommates” tradisce comunque l’urgenza di portare a galla i conflitti vissuti da una fascia anagrafica attratta da un modus vivendi meno irreggimentato che mal si accorda con consuetudini ereditarie difficili da scrollarsi di dosso.

[1] cfr. Le tigri di Mompracem, E. Salgari, Ed. Fabbri/RCS Collezionabili SpA, Milano 2002, p.8.

[2] Basti pensare alla lunga sequenza in cui la comunità di Sandokan da il benvenuto alla sua compagna – Lady Marianna Guillonk, alias la nota “Perla di Labuan”.

[3] Ma non in Inghilterra – come ha ricordato l’attore Kabir Bedi nel suo intervento a Firenze – poiché in “Sandokan2 gli inglesi erano i villain.

[4] Laureatosi all’università di Pune in “Media and Communication Studies”, ha svolto per anni le attività di produttore esecutivo e sceneggiatore, realizzando infine come regista alcuni corti prima del suo esordio nel lungo, che ha ottenuto i premi di miglior film e miglior regia al Pune International Film Festival 2016.

[5] L’Unione Indiana conta almeno 23 lingue regionali ufficiali (ma gli idiomi effettivamente parlati sono centinaia) l’hindi è la lingua ufficiale mentre l’inglese rimane la lingua franca.

[6] “Shwaas” nel 2004 e “Harishchandrachi Factory” nel 2009.

[7] Fondata da Arunabh Kumar, TVF è la principale rete digitale in India e pioniera dell’intrattenimento online, con un importante seguito giovanile.

[8 La prima stagione è diretta da Sameer Saxena, la seconda da Deepak Kumar Mishra, mentre alla scrittura troviamo per entrambe Biswapati Sarkar e Nidhi Bisht.

SEMPRE PIU’ RICCO CORTINAMETRAGGIO
DEDICATO AI GIOVANI TALENTI DEL CINEMA ITALIANO
di Paolo Micalizzi

Una graffiante satira sul potere è il cortometraggio vincitore della XII edizione di Cortinametraggio 2017. “Buffet” di Santa de Santis e Alessandro d’Ambrosi si è, infatti, aggiudicato nella Sezione “Corti Comedy”, diretta da Vincenzo Scuccimarra, il  Premio  miglior corto in assoluto / Twin Set consistente in un assegno di 1.500 euro e il Premio miglior corto assoluto Anec/fice per la circolazione in 450 sale d’essai del territorio nazionale. La Giuria – composta dal regista Alessandro Capitani e dagli attori Chiara Mastalli, Alessandro Preziosi, Lillo & Greg, Maria Roveran oltre a Maria Giuseppina Troccoli lo ha premiato perché trattasi di “Un film di genere realizzato come se fosse un vero action movie ma al contempo un affresco che, pur giocando sui cliché della commedia all’italiana, riesce a sorprendere e a farlo efficacemente, in maniera originale e divertente”, mentre l’Anec/Fice lo ha premiato “ per il tono grottesco ed esasperato del cortometraggio e la comicità che scaturisce da pochi ma sapiente tocchi”. Il cortometraggio ha anche ricevuto il premio per il “corto  più comedy” della pasticceria Fraccaro, il premio di uno dei tanti sponsor  che la dinamica Maddalena Mayneri, presidente di “Cortinametraggio” riesce ogni anno a coinvolgere nel Festival: per la sua passione e capacità ha  giustamente ricevuto il Campanile d’Argento, importante onorificenza della città di Cortina, Regina delle Dolomiti. In quanto a “Buffet” è un’opera che inizia  con un’atmosfera di mistero ed esplode poi in una satira potente.

“Buffet”

All’interno di un furgoncino c’è aria di mistero, la situazione appare più chiara quando appare una scritta indicante Catering. Subito dopo compare un ricchissimo buffet ed un gruppo grintoso pronto all’attacco con in testa un Generale. L’assalto al buffet, in occasione di un vernissage, è deciso e furioso, permeato di tanta comicità, alla stregua di combattenti per la patria in nome del potere. Una metafora ironica della situazione d’oggi dominata da avidità ed ipocrisia all’insegna dell’individualismo. Quindici le opere in competizione in questa Sezione. Premiatissimo “La notte del Professore” di Giovanni Battista Origo a cui sono stati attribuiti il Premio per la miglior regia sia da parte del Comune di Pietrasanta che del CSC-Lab. Al centro del cortometraggio uno squillo di telefono che in piena notte irrompe nel sonno di una coppia avvertendola che nel loro condominio c’è un morto. Da qui una  serrata indagine, pianerottolo per pianerottolo, che porterà ad una bizzarra scoperta. Il cortometraggio ha anche ricevuto il Premio del pubblico e Riccardo De Filippis, quello  come miglior attore. Come miglior attrice ,invece, è stata laureata Vanessa Scalera interprete di “Pazzo & Bella” di Marcello Noto, che ruota  attorno alle vicende di due disperati, Pazzo(interpretato da un bravo Giovanni Esposito)  che gambizzato passa le sue giornate su una sedia a rotelle e  Bella che cerca fortuna tra slot machines e gratta & vinci in un baretto di periferia: il corto ha anche ricevuto una Menzione speciale da parte del pubblico Due Premi( migliori dialoghi e Rai Cinema Channel) per “Al posto suo” di Alessandro Sampaoli che racconta di un trentacinquenne  che sostituisce la fidanzata, con la quale  ha litigato, con la domestica in occasione dell’arrivo della madre  proveniente da un luogo molto lontano. Tre Premi per ”Amira” di Luca Lepone: Cortinametraggio Junior per miglior soggetto; Universal Music Publishing Group per miglior colonna sonora, premio che consiste nell’opportunità  offerta al regista di editare  con loro la colonna sonora del suo prossimo cortometraggio. “Amira” è stato poi apprezzato per fotografia, montaggio e messaggio universale. Il cortometraggio è incentrato su una donna che cammina velocemente  per le strade di una grande città comportandosi ad un certo punto, con l’indifferenza della gente che passa, come se fosse una folle. Altri riconoscimenti  nella sezione “ Corticomedy” : Premio  Luxury in Cortina a ”Scotoma” di Francesco Giuseppe Fasano  che ruota attorno all’errore: ciò che il protagonista vede è finzione o realtà?; MigrArti a Fariborz Kamkari, regista e sceneggiatore iraniano di origine curda, attivo in Italia. Talento emergente all’attrice Maria Roveran  che di recente ha interpretato “Per questi giorni” di Giuseppe Piccioni dopo essersi  rivelata in “Piccola Patria” di Alessandro Rossetto e “La foresta di ghiaccio” di Claudio Noce. Nella Sezione CSC premio a “Il Regno” di Francesco Fanuele incentrato su un giovane che alla morte del padre scopre che aveva trasformato la tenuta di famiglia in uno stato completamente autonomo da quello italiano. Dovrà diventarne l’erede legittimo oppure fuggire da quella situazione? Questo il suo assillante dubbio.
La Sezione Web Series –  la cui Giuria era composta dagli attori Michela Andreozzi, Luigi Lo Cascio, Claudia Potenza, Gabriella Pession, Maria Teresa De Gregorio e Paolo Spada  –  ha assegnato il Premio Lenovo a “Unisex” con la motivazione di “aver considerato il web un punto di arrivo e non di partenza”, ma anche il Premio Ristorante Ghedina consistente in un week end per due persone presso il rifugio Ghedina. Un premio, quest’ultimo, in linea con la valorizzazione del territorio e con il coinvolgimento degli operatori turistici a “Cortinametraggio”.
Per la prima volta “Cortinametraggio” ha aperto le porte al Videoclip creando un’apposita Sezione diretta da Cosimo Alemà che nel catalogo scrive di aver accettato volentieri l’invito della Presidente Maddalena Mayneri “ convinto che sia un’idea fortemente innovativa e coraggiosa, ma soprattutto lungimirante. Rispetto ai decenni passati sempre più registi(me compreso) arrivano al cinema  attraverso percorsi di filmaking alternativi. Grazie alla rivoluzione tecnologica avvenuta negli ultimi 8 anni decine di nuovi registi, autori, creativi, filmmakers hanno iniziato a farsi le ossa combinando musica e immagini”. Aggiungendo che “oggi per i più giovani realizzare video musicali é ancora più interessante e intrigante del cinema perché coniuga la passione per la regia alle culture giovanili che da 50 anni infiammano i cuori  dei ragazzi più creativi” e che “ il video musicale è espressione di grandissima varietà di linguaggio e sperimentazione. Può essere concepito come opera esclusivamente visual, cosi come opera narrativa in senso classico. E’ un terreno ideale, fertile per provare stilemi, formalismi, racconti che per il cinema potrebbero risultare alieni”. Concetti che abbiamo ritrovato   nelle opere viste. In competizione ne figuravano venti e la Giuria –formata dall’attrice Tea Falco, dai cantanti Matteo Maffucci degli Zero Assoluto, Tommaso Paradiso dei Thegiornalisti, dal critico cinematografico e scrittore Boris Sollazzo e   dalla cantante emergente Joan Thiele –   ha giudicato miglior Videoclip per il Premio di Hausbramdt “Fuck tomorrow” di Edoardo Carlo Bolli dell’artista Rkomi & The Night Skinny  con la seguente  motivazione: “ L’uso in bianco e nero colorato ti proietta nel racconto visivo più fresco e  maturo che con una fotografia superiore e un alto gusto  estetico usato sempre in contrasto rispetto all’ambiente, ti porta in un oceano urbano di solitudine”. L’Augustus Color ha poi  considerato Miglior Videoclip  “Elefanti” di Daniele Magliulo “ Per il gioco, la scrittura unita alla spontaneità delle scene e la capacità ironica e consapevole con cui l’immaginario teen si sposa ad una grammatica indie”. Il Premio consiste in un riconoscimento in denaro del valore di 1.500 euro in lavorazioni da realizzare presso lo stabilimento Augustus Color esclusivamente per la realizzazione di un  progetto futuro.
Le giornate di questa manifestazione internazionale dedicata al cortometraggio non sono state dedicate soltanto alla proiezione delle opere ma sono state anche un’occasione di lavoro per appassionati ed esperti. Tra le tante iniziative vi è stata una serata speciale dedicata al sociale, in collaborazione, con Rai Cinema, con particolare attenzione al tema della violenza sulle donne attraverso  la proiezione dei corti “L’amore che vorrei” di Gabriele Pignotta e “L’ultimo pianto” di Gianni Ippoliti, dallo stile sottilmente ironico.

Il primo racconta  la storia di cinque donne, vittime di varie forme di violenza, auspicando una relazione amorevole possibile, mentre il secondo, che ha ricevuto il Premio “ Opera prima o poi “, è imperniato su un lungo pianto della protagonista straziante e disperato la cui reiterazione  fa scaturire voluti momenti di comicità. Una lezione di stile che ci ha fatto venire in mente la lunga telefonata di Anna Magnani nell’episodio del film “L’amore”(1948) di Roberto Rossellini tratto dall’ atto unico “La voce umana” di Jean Cocteau: una grande prova d’interprete di  Fabiana Latini. Sul tema della violenza alle donne anche “ L’amore rubato” del regista livornese Irish Braschi interpretato, tra gli altri, da Elena Sofia Ricci, Gabriella Pession , Chiara Mastalli, Stefania Rocca e Alessandro Preziosi. Un’opera liberamente ispirata all’omonimo romanzo di Dacia Maraini(Mondadori,2013) che incastra le drammatiche vicende di cinque donne, diverse tra loro per età, temperamento ed estrazione sociale, ma accomunate dalla scioccante esperienza di un amore violento, morboso, traumatico. In programma anche una “Serata Twin Set” dedicata al regista Paolo Genovese, autore del lungometraggio di successo dell’anno scorso “Perfetti sconosciuti”, che ha presentato il corto “Per sempre”.

“Per sempre”

Un’opera sul tema dell’adozione che, a sorpresa, viene alla luce nel finale dopo momenti di  divertissement procurato da alcune donne che si divertono in un atelier di moda: un vero corto d’autore realizzato per  Twin Set. A Cortinametraggio ha fatto spicco poi la Mostra “Ciao Maschio-Il Cinema Italiano Ritratto al Maschile” di Adolfo Franzò, una serie di ritratti, rigorosamente in bianco e nero, di oltre settanta immagini che ritraggono gli attori principali del cinema italiano.
Ricco il Carnet degli ospiti. Tra essi, Maria Grazia Cucinotta , attrice e produttrice del cortometraggio  “Il compleanno di Alice” sul tema del bullismo  a cui i genitori, ed è questo il messaggio dell’opera, spesso non prestano attenzione. In due incontri si è discusso poi  di temi relativi al lancio di nuovi talenti per il cinema italiano.

L’attrice Maria Grazia Cucinotta insieme a Maddalena Mayneri, Presidente di Cortinametraggio

“Cortinametraggio” si è concluso con una serata speciale per un doppio compleanno: i 20 anni di Cortinametraggio e i 70 del Sindacato Nazionale dei Giornalisti Cinematografici. Protagonisti due attori di successo, il popolare Lino Banfi e l’attrice-regista Eleonora Giorgi. Entrambi hanno raccontato, in una sala Eden affollatissima,  momenti importanti della loro carriera  durante un  talk condotto da Laura Delli Colli, Presidente del SNGCI. Una serata che ha fatto seguito ad un pomeriggio al negozio Vintage “Tres chic”  in cui avevano presentato i loro libri: rispettivamente “Ho tanto voglia di raccontarvi “ e “Nei panni di un’altra”.

Eleonora Giorgi e Lino Banfi alla presentazione dei loro libri

E per chiudere in bellezza una cena di gala, offerta dalla Galleria d’Arte Contini, presso il Grand Hotel Savoia che ha ospitato la manifestazione per tutta la settimana.
Anche quest’anno, quindi, un “Cortinametraggio” ricco di eventi organizzato, con signorilità, dall’attivissima Presidente Maddalena Mayneri che sempre più dà spazio alle nuove generazioni del cinema italiano, registrando oltre 6.000 presenze.

Un momento della cerimonia di premiazione nella Piazza di Cortina

UNA TRE GIORNI DI CINEMA E CRITICA PER RICORDARE ADELIO FERRERO
di Paolo Micalizzi

Tre giorni di cinema e critica alle “Giornate del Premio Adelio Ferrero”(Alessandria 20-22 ottobre 2016) promosso dal Comune di Alessandria  ed organizzato dal Circolo del Cinema Adelio Ferrero e dalle Edizioni Falsopiano con la collaborazione della Cooperativa “Costruire insieme”. Un’iniziativa per ricordare la figura di un critico cinematografico, protagonista della cultura alessandrina, docente di cinema presso il DAMS dell’Università  di Bologna, fondatore della Rivista “Cinema e Cinema”. Un critico prestigioso che ho avuto modo di conoscere ed apprezzare in numerose occasioni festivaliere e convegnistiche dove le sue relazioni erano molto attese  per  l’ampio approfondimento che le caratterizzava. Il “Premio” ha reso omaggio ad alcuni registi italiani. A partire da Elio Petri, di cui è stato proiettato il film “La classe operaia va in paradiso”(1972) che ha offerto  l’occasione di una discussione sull’importanza del cinema e degli audiovisivi quali strumenti di documentazione e cambiamento nella realtà sociale italiana, visionando e commentando anche materiali di repertorio. Molto spazio poi al regista Mimmo Calopresti di cui è stato proiettato il film “Preferisco il rumore del mare”(1999) e  “La fabbrica fantasma-Verità sulla mia bambola”, un documentario sul mondo della contraffazione che prende spunto da una conversazione del regista  con la figlia, la piccola Clio, che gioca con una bambola falsa per compiere, denunciandone la situazione, un  viaggio a contatto con trafficanti senza scrupoli: su questo documentario è possibile leggere un’ampia recensione sul numero 9 di Carte di Cinema.

Il regista Mimmo Calopresti (primo a destra) al “Premio Adelio Ferrero” 2016

Sul di lui  Ignazio Senatore ha scritto un libro che Carte di Cinema ha recensito sul numero 11. “Blow-up” di Michelangelo Antonioni ha compiuto cinquant’anni e il “Premio” lo ha ricordato con gli interventi di Saverio Zumbo e Alessandro Leone. Quest’ultimo ha anche analizzato la trasformazione della critica cinematografica nell’era del Web, insieme al direttore di “Cineforum” Adriano Piccardi ed alla redattrice di FilmTv Ilaria  Feole.  Il rapporto della critica  con gli sceneggiatori  è stato affrontato poi in un incontro con Franco Ferrini, sceneggiatore di lunga esperienza che ha collaborato anche con Sergio Leone e Dario Argento. Un altro regista ricordato è stato Stanley Kubrick. Lo ha fatto, con l’ausilio di Filippo Ulivieri che cura il Fondo Kubrick, Emilio D’Alessandro che ha scritto il libro “Stanley Kubrick e me” che testimonia con tanti ricordi personali e aneddoti, la sua collaborazione, come autista, con il regista statunitense.

Emilio D’Alessandro insieme a Stanley Kubrick

Ed anche un ricordo del regista televisivo Anton Giulio Majano attraverso gli interventi del critico Oreste De Fornari, dell’attrice Isabella Goldman e di Mario Gerosa, autore del libro “Anton Giulio Majano. Il regista dei due mondi”. Altri volumi presentati sono stati “Richard Fleischer”, curato da Alberto Morsiani che Carte di Cinema ha recensito nel numero 11, e “Vincent Price”, a cura di Roberto Lasagna, che focalizza “la carriera di quest’icona incontrastata del cinema  del terrore” e “fantasma dell’immaginario”. Un interprete camaleontico sullo schermo, dalla fine degli anni Trenta all’inizio degli anni Novanta. Vincitori del “Premio Adelio Ferrero” 2016 sono i seguenti. Sezione Recensioni: 1° premio, Arianna Pagliara(Corn Island); 2° premio, Vincenzo Mattia Basso(It Follows”. Sezione Saggi: 1° premio, Edoardo Peretti (Nuovi Sentieri Selvaggi. Gli eroi di una nazione in convalescenza); 2° premio, Francesco Rossini. Per l’edizione 2016 era anche prevista una Sezione Video- Saggi. Questi i vincitori: 1° premio: Anna Facin, Matteo Delai, Valentina Orlando e Giulia Miotto  per “All’armi siamo registi” ex aequo con Milad Tangshir per “Lesson of the Wolf”; 2° premio, Andrea Miele (Reel around the Fountain).

IL FERRARA FILM FESTIVAL
di Maurizio Villani

Si è tenuta a Ferrara dal 21 al 26 marzo 2017 la seconda edizione del Ferrara Film Festival, organizzato e diretto da Maximilian Law con la collaborazione di Alizé Latini. Entrambi americani di adozione, ma italiani di origine (Low è nato a Ferrara), essi hanno perseguito l’obiettivo di portare nella città estense un “pezzo” di Hollywood. Come ha detto il direttore “da Los Angeles, patria del Cinema mondiale, dove vivo e lavoro, ho avuto la possibilità, grazie alle Istituzioni della Città di Ferrara, di dare a filmmaker da tutto il mondo l’opportunità di mostrare i loro film in questa meravigliosa città. La mia idea di festival del cinema va oltre le semplici proiezioni, la mia visione è di creare un sistema creativo e industriale interconnesso e totalmente finanziato dal settore privato. Attraverso il ‘Sistema Hollywoodiano’ metteremo il pubblico al centro di questa ‘avventura’ attraverso una serie di eventi speciali ed eventi a tema cinematografico”.
Il programma del festival prevedeva la proiezione di 24 film in concorso, sia lungometraggi, sia cortometraggi (suddivisi in una sezione di film prodotti negli Stati Uniti d’America e in un’altra di film prodotti in tutto il resto del mondo). A questi si sono aggiunti 3 film fuori concorso, più una proiezione speciale.
Le proiezioni dei film sono state accompagnate da una serie di eventi collaterali, tra cui incontri con attori, registi e produttori, laboratori didattici per bambini e un appuntamento gastronomico su Fellini e il cibo.
La sede di Palazzo della Racchetta ha ospitato una mostra documentaria su Michelangelo Antonioni, curata dalla nipote Elisabetta Antonioni, e una esposizione di ritratti, foto di scena e di due film di Lyda Borelli, curata da Giovanni Alliata di Montereale.
Al termine delle proiezioni, che hanno visto una crescente partecipazione di pubblico, la giuria, presieduta dal produttore e regista Volfango De Biasi, e composta da Martina Cestrilli, Pierluigi Malavasi, Carlo Magri, Ludovico Di Martino, ha assegnato dieci Dragoni d’oro ai vincitori delle varie categorie.

La serata della premiazione

Dragone d’oro al miglior lungometraggio USA al film “In search of Fellini”, regia di Taron Lexton. Si tratta della storia di una timida ragazza di una piccola città dell’Ohio, cui non piace la realtà e che scopre il fascino dei film di Federico Fellini. Parte allora per uno strano, bellissimo viaggio attraverso l’Italia per trovare il regista.

Ksenia Solo

Dragone d’oro per il miglior lungometraggio WORLD alla pellicola “Still life” della regista francese Maud Alpi. Il film mette in scena l’allucinante atmosfera dei mattatoi in cui nottetempo arrivano gli animali destinati alla morte. Protagonisti sono un ragazzo, che assiste ai maltrattamenti subiti dagli animali, e il suo cane, che si aggira per quegli spazi con lo sguardo dolorosamente perduto nel vuoto.

Un’immagine di “Still life” di Maud Alpi

Dragone d’oro per il miglior documentario a “Just right here – Simplemente aquì”, di Simone Carnesecchi e Tommaso Lusena de Sarmiento. Girato nel deserto messicano di Wirikuta insieme alla popolazione Huichol, il film racconta la storia di due europei che alla maniera degli sciamani curano il corpo e l’anima degli Indios, votati a preservare la sacralità della loro terra.

Al termine della proiezione del film i due autori in una conversazione hanno ricostruito il percorso culturale che li ha portati alla realizzazione di questa opera prima. Carnesecchi, in particolare, ha raccontato le esperienze avute come tecnico del suono e della fotografia con registi importanti come Nanni Moretti. Critico verso il consumismo non rispettoso dell’ambiente e spinto da una ricerca interiore interessata alla realtà dello sciamanismo, si è trasferito in Messico, misurandosi con una realtà antropologica diversissima da quella del mondo occidentale. Da essa, con Tommaso Lusena de Sarmiento, ha tratto l’ispirazione per “Just right here – Simplemente aquì”.

Simone Carnesecchi (a destra) e Tommaso Lusera de Sarmiento, registi di “Just Right Here- Simplemente aquì”

Dragone d’oro per il miglior cortometraggio a “Ideal husband, (11”) di Nicola Sersale. È la storia di Ellen, una direttrice casting, che va alla ricerca di un marito ideale per il palcoscenico su cui si recita l’omonima piéce di Oscar Wilde e nella vita reale.
Altri Dragoni d’oro hanno premiato i vincitori delle seguenti categorie:
Miglior attore a Greg Kennedy per “Rain”, cortometraggio dell’americano Thomas London che mette in scena una relazione passionale tra un uomo di tarda età e la sua giovane amante.
Miglior attrice – premio Lyda Borelli a Ksenia Solo, protagonista di “In search of Fellini”.
Miglior regia a Taron Lexton. È il terzo premio per il film americano “In search of Fellini”.
Migliore fotografia Jonathan Ricqueborg per la pellicola “Still life”. È il secondo premio al film francese.
Premio Film4Life del famoso blog di cinema internazionale fondato da Simone Bracci, riconoscimento pubblico alla pellicola “Rupture” dell’americano Steven Shainberg.
Premio FlexyMovies assegnato a “Just right here – Simplemente estamos aquì”  di cui sono riconosciute le potenzialità del film sul mercato internazionale.
Menzioni speciali della giuria sono andate al corto francese “Nobody dies here” di Simon Panay; al corto coreano “Call Coho”, di Dea Ryun Chang e a “Rain”, già citato per il premio per il miglior attore.

OCCHIO CRITICO
a cura di Marco Incerti Zambelli, Tullio Masoni, Paolo Vecchi

AMY BLUE EYES: “ARRIVAL” E “ANIMALI NOTTURNI”
di Marco I. Zambelli

Amy Adams, cinque volte candidata all’Oscar come interprete non protagonista, non ha ricevuto segnalazioni dalla Academy Awards per i suoi ruoli come prima attrice per le mirabili, a nostro parere, interpretazioni nelle recenti opere di due tra i più eleganti ed interessanti registi dell’ultima stagione, “Arrival” di Denis Villenueve e “Animali Notturni” di Tom Ford.
L’attrice, nata in italia, a Vicenza, reduce dai blockbusters “L’uomo d’acciaio” e “Batman Vs Superman” nel ruolo di Lois Lane, ha trovato la possibilità di confermare le sue notevoli qualità interpretative come personaggio centrale, che già aveva messo in mostra in “Big Eyes” (titolo quanto mai evocativo) di Tim Burton.

Amy Adams

E’ appunto attraverso i suoi meravigliosi occhi azzurri che Tom Ford mostra i nudi corpi obesi, sfatti, repulsivi, sublimati in snobistica esposizione artistica, introduzione al mondo al contempo sofisticato ed ipocrita nel quale vive Susan Morrow, affermata gallerista, sposata ad un affascinate uomo che la tradisce serenamente. Sono ancora i suoi occhi che mettono letteralmente in scena il romanzo che l’ex marito, Tony (Jake Gyllenhaal, qui non al suo meglio), abbandonato 19 anni prima, le invia ancor prima della pubblicazione ed a lei dedicato. Ed è il suo sguardo a dettare i tempi dei flashback che raccontano la nascita, lo svilupparsi e lo spegnersi del primo matrimonio.
Tom Ford padroneggia con sicurezza i tre diversi registri: il presente, l’immaginazione romanzesca, il passato.
Il primo, il lussuoso, lucente, autoreferenziale e in fondo ipocrita ambiente del mercato dell’arte contemporanea, che Susan definisce “spazzatura” (ma il suo interlocutore le ribatte “Goditi questa assurdità, il nostro mondo é molto meno doloroso del mondo reale”), nel quale comunque lei si muove con successo e sicurezza, è rappresentato con la competenza (autocritica?) di chi è parte integrante di quella cerchia, e fa da contraddittorio sfondo agli amari ripensamenti della protagonista.
Ripensamenti catalizzati dalla lettura, vera e propria mise en scene, del noir scritto da Tony, che le suggerisce, fin dal titolo, “animale notturno” l’ex marito l’aveva definita, una chiave di interpretazione della tragica vicenda di perdita e morte come angosciosa metafora del doloroso fallimento della loro relazione, similitudine sottolineata dalla immediata identificazione del protagonista del racconto con l’antico compagno. Immerso in un’atmosfera alla McCarthy, il dipanarsi della tragedia ha il tocco del thriller ben congegnato, cupo e disperato, impreziosito dai paesaggi magici ed inquietanti del sud del Texas, arricchito da un grande Michael Shannon, la cui interpretazione riscatta la figura un poco di maniera del detective dolente che risolve il caso.
Il gioco di specchi tra realtà vissuta e realtà narrata richiama alla memoria le tappe fondamentali del rapporto tra Susan e Tony, il segmento forse meno riuscito del film, anche per l’inverosimiglianza dei protagonisti, apparentemente identici a vent’anni di distanza, e che tuttavia riesce a trasmettere un nostalgico rimpianto per quello che era e che sarebbe potuto diventare, ma che non è successo.
Il finale, impietoso nella sua asciuttezza, suggella la sconsolata vacuità delle scelte di Susan.
“Hanno bisogno di vedermi” esclama Louise Banks in “Arrival”, ed è il momento di svolta della vicenda, lo snodo che apre veramente il canale di comunicazione con gli eptopodi. Amy Adams interpreta in “Arrival” di Denis Villeneuve il ruolo di una professoressa di linguistica, assoldata dall’esercito americano per cercare di decifrare i gutturali suoni degli alieni arrivati improvvisamente in dodici località del globo, le cui intenzioni rimangono misteriose. Non è la musica, che Spielberg indicava in “Incontri ravvicinati del terzo tipo”, ma la scrittura, la visione dei semagrammi, come li definisce Ted Chiang in “Storie della mia vita”, il racconto che ispira il film, la chiave di comprensione tra i mondi. Estremizzando la teoria di Saphir-Worf che prevede che il linguaggio determini il modo in cui si vede la realtà, il modo in cui la si percepisce, l’immersione di Louise nelle fascinose grafie aliene le aprirà i cancelli del tempo, le donerà l’inquietante capacità di conoscere passato presente e futuro.

“Arrival”

La valida sceneggiatura di Eric Heisserer intreccia efficacemente i due piani narrativi, arricchendo, rispetto al già citato soggetto di partenza, il cotè fantascientifico con rappresentazioni geopolitiche nelle quali la parte dei cattivi pare rimandare alla guerra fredda, forse in omaggio alla gloriosa sci-fi degli anni ’50, ma restando fedele allo svelarsi progressivo del “dono” di Louise, accompagnandola nell’intimo, doloroso, eppure dolcemente struggente viaggio di donna e di madre; Hannah è il nome dato alla figlia, simbolico palindromo della circolarità del tempo. La sapientemente desaturata fotografia di Bradford Young sottolinea la versatilità di Denis Villenueve, capace di passare dai feroci eventi di “Sicario” alle misurate atmosfere di questa vicenda, in netta controtendenza rispetto alla schiamazzante produzione fantascientifica contemporanea, ritrovando tratti dell’ispirazione del purtroppo inedito in Italia “Enemy”, preziosa rilettura de “L’uomo duplicato” dell’immenso Saramago. Ed offrendo ad Amy Adams la possibilità di disegnare la figura della studiosa con grande efficacia, la intensa dedizione al lavoro, l’orgogliosa caparbietà nel perseguire le ipotesi della sua in fondo esoterica disciplina e nel contempo di tratteggiare empaticamente una complessa immagine femminile, emozionante e coinvolgente.

“AUSTERLITZ” DI SERHIJ V. LOZNITSA
di Tullio Masoni

Il titolo – strano, se si pensa all’argomento “concentrazionario” del film – viene da un romanzo di W.G.Sebald, nel quale il protagonista porta appunto quel nome napoleonico. Per il suo racconto Sebald si era servito di fotografie, inserite fra le pagine del testo, con alcune delle quali Austerlitz, studiando da architetto la precisione di certi edifici monumentali, nel tempo destinati all’inutilità e alla rovina, avrebbe talvolta alluso a un’altra “perfezione” progettuale: quella degli impianti di sterminio.

Il film di Loznitsa mostra una giornata-tipo di visita al museo di Sachsenhausen: una massa di turisti di nazionalità e lingue diverse (il commento è ricavato dalle spiegazioni delle guide) invadono gli spazi del campo di concentramento e – fra passeggio e bivacco – si comportano in tutto e per tutto come se fossero in un luogo qualunque.
Nelle celebri pinacoteche, o in occasione delle grandi mostre, è consueto, ormai, vedere persone che si fanno fotografare davanti ai quadri (la Venere e la Primavera di Botticelli agli Uffizi si prestano particolarmente). A Sachsenhausen succede un po’ la stessa cosa; cambia solo lo sfondo, che può essere un forno crematorio o l’ingresso di una camera a gas. Gente col selfie o il cellulare sempre in mano, giovani che esibiscono magliette con la scritta: “Just don’t care” e si trascinano da un luogo di pena all’altro, mentre le guide si profondono nelle descrizioni…
L’atteggiamento del regista fa pensare, sulle prime, a una fredda contemplazione, a una sorta di fissità che potrebbe aderire all’indifferenza diffusa; man mano, però, la camera ferma o quasi fa emergere uno “stupore rassegnato”, un richiamo grave. In altre parole, Loznitsa propone il senso rovesciato del sacro, cioè lascia avvertire nella modalità della visita di massa al museo concentrazionario una involontaria quanto sciocca profanazione.
Il cineasta ucraino (nato in Bielorussia) è a mio avviso fra i più interessanti che sia dato oggi conoscere. Apprezzato dalla critica ai festival internazionali, ma per molto tempo sconosciuto anche al pubblico d’essai, ha trovato ultimamente qualche occasione distributiva e un recupero. Hanno circolato infatti “Blokada” ( 2006) – film di montaggio che usa materiali di documentazione originale prodotti durante il lungo assedio di Leningrado nella seconda guerra mondiale, “Anime nella nebbia” (2012), un tragico episodio della resistenza alle frontiere occidentali dell’Urss, e “Scastja mose / My Joy” (2010), che qualcuno definisce come la più allucinata e vera testimonianza del dopo ’89.

“Blokada”

“Austerlitz” rinvia più a “Blokada” che agli altri (girati a colori e a soggetto) ma adotta una scrittura assai diversa. Già ho accennato alla fissità e a quella che potrebbe essere una sorta di digressione polemica: la camera ferma tende ad esasperare lo spettatore mentre i gruppi di visitatori, ripresi frontalmente in campo lungo/medio, continuano a varcare il cancello del lager. Ora posso aggiungere che la scelta di inquadrature “sgonfie” – per la terminologia drammaturgica convenzionale – oltre a servire gli scopi “provocatori” accennati, suggerisce affinità con alcune esperienze sperimentali storiche. Penso a Wiseman, alla sua ricerca di profondità sociologico-politica e al “cinema diretto”, o, miglia e miglia lontano, al lavoro epico degli Straub, la cui forza evocativa viene dall’”anomalia” cui l’immagine, il suono (la musica), e il testo, sono reinventati per inusitate vie di sintesi. Esperienze molto diverse fra loro, dicevo, ma accomunate da una sana intransigenza etica e dall’alterità.

APPARTAMENTI: “IL CLIENTE” DI ASHGAR FARHADI;
“AQUARIUS” DI KLEBER MENDONÇA FILHO
di Paolo Vecchi

Nello strepitoso “Arrangiatevi!” (1959) di Mauro Bolognini, la famiglia di Peppino e nonno Toto’, costretta per anni alla coabitazione, prendeva in affitto una “casa” chiusa dalla legge Merlin, con tutti gli equivoci che ovviamente ne derivavano. Da uno spunto analogo parte “Il cliente”, Oscar per il miglior film straniero nonché Palma d’Oro per la sceneggiatura e premio per l’interpretazione maschile di Shahab Hosseini a Cannes. Una coppia di attori va ad abitare laddove in precedenza risiedeva una donna dai costumi piuttosto elastici, un suo habitué é fatto entrare dalla moglie ignara credendo si tratti del marito. Il quale non denuncia l’accaduto, succube di pregiudizi atavici, ma inizia una personale investigazione che, una volta individuato il colpevole, lo induce nella tentazione di farsi giustizia da solo.
La commedia volge dunque in un dramma che, pur con i dovuti equilibrismi per chi si muove in una situazione di libertà precarie, mette in luce le distorsioni di una società anchilosata, fatte proprie anche da chi è un intellettuale come il protagonista, che si divide tra l’insegnamento e la messa in scena teatrale, nella fattispecie un testo per noi un po’ ammuffito come “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller, che funziona da controcanto agli sviluppi della vicenda.

“Il cliente”

“Il cliente” ha i pregi dei film precedenti di Ashgar Farhadi, che consistono essenzialmente in una sceneggiatura di implacabile coerenza e nell’impiego di attori molto bravi e ben diretti, oltre che nel rapporto ambiguamente allusivo con il proprio hic et nunc. Ma, anche, il limite di una regia un po’ ingessata, quasi timorosa di rischiare perdendo in rigore quello che potrebbe guadagnare in duttilità.
Clara, protagonista di “Aquarius”, l’appartamento lo possiede, e in una zona di Recife con vista mare. Ma la speculazione edilizia vorrebbe cacciarla e il film racconta la sua lotta cocciuta, solitaria e infine vincente. Dunque, l’ opera seconda di Kleber Mendonça Filho vive soprattutto di questo imponente personaggio femminile, della sua vitalità nonostante la vedovanza e una malattia che l’ha mutilata di un seno, della sua franchezza nel gestire i rapporti con i figli, dell’affetto solidale ma anche del senso dell’umorismo con i quali tratta le amiche, della spregiudicatezza con cui continua a gestire una sensualità tutt’altro che spenta. Ma parla anche di musica attraverso i tanti vinili che Clara ha raccolto nella sua casa, attraverso il libro che ha scritto su Heitor Villa Lobos, il grande compositore delle “Bachianas Brasileiras”. E racconta una città, il suo mare, la linea sottilissima che divide i quartieri residenziali dalle favelas. Infine, mette in scena gli stessi corrotti e corruttori che hanno ordito il colpo di stato contro Dilma Roussef, come lo chiama il regista.

Sonia Braga in “Aquarius”

Prodotto, anche, da Walter Salles e Carlos Diegues, che rappresentano due generazioni di cinema carioca, cita forse il maestro del cinema nôvo Ruy Guerra nella sequenza di apertura sulla spiaggia, che ci ha fatto appunto pensare al finale di “Os cafajestes”, regalandoci talvolta veri e propri colpi d’ala di regia come quello in cui la zia della protagonista, nel prologo anni ottanta, rievoca le acrobazie erotiche con l’amante mentre i nipoti leggono discorsi di circostanza per il suo settantesimo compleanno. Ribalda elegia della vecchiaia, “Aquarius” è, alla fine e soprattutto, un omaggio sentito ma non imbalsamatorio a quella sorta di monumento che è stato e rimane Sonia Braga, autentica bête à cinéma che ha legato per qualche decennio le proprie fortune a quelle della cinematografia del proprio Paese, esordendo quasi cinquant’anni fa con “O bandido da luz vermelha” di Rogério Sganzerla, capofila del cosiddetto cinema marginal, l’altra costola della nouvelle vague brasiliana. E’ passato il tempo, ma l’attrice non ha perso nulla del carisma della Dona Flor di Bruno Barreto e Jorge Amado.

DOCUMENTARI E DOCUMENTARISTI
Il sale della terra: Rubrica di documentarismo
a cura di Marcello Cella

GUERRA È SEMPRE
di Marcello Cella

My own private war” di Lidija Zelovic

Guerra è sempre, diceva a Primo Levi, uno dei personaggi del suo romanzo “La tregua”. E’ quello che non si può fare a meno di pensare guardando lo straordinario documentario “My own private war” (La guerra in casa) della regista bosniaca Lidija Zelovic, giornalista e documentarista che vive in Olanda dopo essere fuggita nei primi anni ’90 dal suo paese allo scoppio della guerra. “My own private war” è un film che racconta come pochi altri che cosa è veramente una guerra per le persone che la vivono sulla propria pelle, al di là della violenza, del sangue e merda che le caratterizza, anche dopo che l’aspetto “spettacolare” delle persone che si uccidono è finito e i riflettori dei media si sono spenti. Ognuno deve allora fare i conti con la propria guerra privata, quella che continuerà a vivere dentro di sé per sempre. Ma che cosa si perde veramente in una guerra? E’ quello che in fondo si chiede la regista bosniaca per tutta la durata del film che ha un percorso solo in apparenza crepuscolare. L’inizio, con quelle immagini autunnali di Sarajevo, delle sue strade, dei suoi giardini attraversate dalla spavalda ingenuità della giovane giornalista che pone ai passanti domande naif sulle stagioni, sul tempo che cambia è qualcosa che rimane negli occhi dello spettatore per tutto il film, mentre la guerra prepara il proprio catalogo di morte e macerie materiali e morali. Ecco, forse è proprio questo che in fondo la guerra uccide dentro le persone, la possibilità di sognare, di avere fiducia negli altri e nel futuro. Lidija questo interrogativo, come spiega anche nell’intervista che segue, se l’è portato dentro per tanto, troppo tempo e dopo tanti anni in cui lei ha ricostruito la sua vita lontano da Sarajevo e dalla Bosnia è costretta ad affrontarlo per aiutare il suo bambino a capire dove sono le sue radici e dove stanno il bene e il male che dovrà affrontare durante la sua vita. Lidija quindi torna a Sarajevo, nella sua Bosnia per raccontare al figlio quello che è stata la sua vita prima fuggire in Olanda, inseguita dall’eco delle bombe e delle stragi della guerra che ha insanguinato la sua terra. Inizia così il suo film di viaggio dentro sé stessa, dentro la sua famiglia, le sue amicizie, i luoghi che ha dovuto lasciare molti anni prima per capire chi era veramente e cosa è diventata la giornalista romantica e piena di sogni della sua giovinezza. La telecamera di Lidija è di rara dolcezza e sensibilità, ma anche senza reticenze, nel raccontare le proprie personali lacerazioni e quelle dei suoi familiari e amici che, in tutta evidenza, hanno vissuto un’altra guerra. C’è chi l’ha seguita nella fuga, come i suoi genitori, ma che non ha rinnegato gli ideali politici della propria giovinezza e non accetta la versione ufficiale di quei tragici eventi, c’è chi è rimasto e ha continuato a testimoniare la propria eroica opposizione alla violenza senza però accettare la criminalizzazione postuma del proprio popolo e c’è chi a quella violenza ha partecipato attivamente come emerge dallo straordinario dialogo con il cugino che ha fatto il cecchino nell’esercito serbo pieno di silenzi e di parole che raccontano altro da ciò che vorrebbero dire. Un percorso tormentato e lacerante in cui la regista mette a nudo le proprie contraddizioni e angosce, la sua incapacità di stabilire dove stanno il bene e il male, di catalogarli secondo le categorie morali che ha accettato per troppo tempo di assumere come le uniche valide (quelle stabilite dai vincitori come il padre le ricorda più volte), e la coscienza che quel destino di violenza che lei ha rifiutato e da cui è fuggita fanno comunque parte della sua vita. Lungo tutto il documentario si respira questo profondo senso malinconico di perdita che il viaggio di Lidija nel tempo (straordinario anche in questo caso il ritrovamento della casa in cui lei ha vissuto da bambina, ancora devastato dalla guerra, ma in cui, scopre, vive una famiglia di diseredati che ha conservato però i suoi vecchi libri di gioventù) e nello spazio con la lussureggiante campagna bosniaca illuminata dal sole estivo e la Sarajevo di oggi piena di vita e di colori diversi contribuiscono ad acuire. Resta la speranza di un futuro diverso, la gioia inconsapevole del bambino che Lidija porta con sé nel suo viaggio, la “vacanza” dallo scorrere della vita quotidiana che sempre attutisce e scolorisce tutte le angosce nell’oblio della routine sempre uguale per riconquistare una parte di sé, della propria storia e della propria identità. Come una ballata di Dino Merlin, famoso cantautore bosniaco anch’esso di Sarajevo, “My own private war” racconta la nostalgia di ciò che non c’è più sia a livello individuale che collettivo, ma anche la forza vitale di quello che resta, l’autunno delle nostre esistenze, a cui sempre succede la primavera e la voglia di continuare a vivere, pur nella consapevolezza di ciò che è stato.

Intervista a Lidija Zelovic
Abbiamo incontrato Lidja Zelovic a Firenze durante il Balkan Florence festival alla fine di febbraio.

Il suo film finisce con una domanda che mi sono posto anch’io durante tutta la visione del film. Che cosa ha davvero perso lei con la guerra in Bosnia?

Quel tipo di fiducia che ti fa dire: “andrà tutto bene”. E questa tranquillità, questa sicurezza di avere in mano la tua vita è la perdita più difficile da accettare. Come voi io abitavo nella mia città, ma all’improvviso tutto è cambiato e mi sono dovuta adattare. Probabilmente adattarsi a nuove circostanze fa parte della crescita, ma la guerra lo fa in maniera violenta e in condizioni più dure.

Mi sono sempre chiesto cosa succede quando qualcuno diventa testimone di una guerra, quando pensi “non voglio essere torturata, non voglio essere violentata”, cosa fare quando la tua coscienza è a contatto con cose così grandi e terribili, come la perdita improvvisa della propria casa, degli affetti…

La domanda è eterna e sono cose con cui ci si deve spesso confrontare. Io quando ero a Sarajevo avevo 21 anni, pensavo ad andare in giro con i ragazzi e non alla guerra, ero una ragazza fortunata e non pensavo minimamente alla guerra, non pensavo che la cosa mi riguardasse. E quando è successo io ho incolpato i miei genitori, ho pensato “fate qualcosa, qualsiasi cosa per fermare questo”. Poi quando sono cresciuta e con un figlio piccolo ho pensato “che cosa sto facendo io per cambiare il mondo?”, con i problemi ambientali, altre guerre. Io faccio film, documentari che alla fine vengono visti da persone che la pensano come me, che sono già sensibili a questi temi. In fondo anch’io prego per la mia chiesa, mentre il mio desiderio sarebbe quello di raggiungere altre persone. Una cosa che ho imparato dalla guerra è quanto il tuo mondo sia piccolo. Solo quando un evento così sconvolgente coinvolge anche persone molto diverse da te pensi alla necessità di costruire ponti per raggiungere le altre sponde, altrimenti questo fossato diventa sempre più grande e può diventare nazionalismo, può diventare guerra. La guerra è una cosa dura, incomprensibile che uno pensa “non mi capiterà mai”. La conseguenza di perdere la casa è un altro tipo di trauma perché la casa non la ritroverai mai. Quando però accetti questo, vivi in modo meno stabile, il che ha delle conseguenze sulla tua personalità, ma impari a conviverci. Certo non è bello. Avrei preferito essere più stupida e meno sensibile e avere casa mia. Quello che mi ha insegnato la guerra è di apprezzare la vita che si vive, per esempio il fatto di essere qui oggi, di essermi alzata presto, di essere qui con voi.

La regista Lidja Zelovic

Perché questo film?
E’ una storia che ho sempre avuto dentro. Durante la guerra sei impegnato a sopravvivere. Ma poi sono passati due anni, cinque anni e continuavo a pensare cose diverse durante questi anni. Ad un certo punto, quando mio figlio che ora ha dieci anni, ha cominciato a chiedere che cosa era stato, a voler sapere, ho capito che dovevo fermarmi per lui e anche per fermare la guerra che era nella mia testa. C’è una parte di me stessa che mi piace molto, cioè il fatto di essere molto romantica, di vivere sempre in maniera positiva, ma quando mio figlio mi ha detto “l’Olanda non mi piace molto, torniamo in Jugoslavia”, ho pensato che avevo dimenticato di dirgli che la Jugoslavia non esiste più. Allora ho detto, “andiamo in Bosnia” ed è bello andarci per le vacanze, ma la vita lì è un po’ più complicata. E anche per questo ho capito che dovevo raccontare la mia esperienza. La prima volta che sono tornata in Bosnia è stato una settimana dopo gli accordi di pace e avevo ancora questa idea romantica, “ok, la guerra è finita, non si spara più e tutto può tornare come era prima”. Ovviamente non era così. Ho cominciato a ritornare periodicamente in Bosnia, cinque anni dopo, dieci anni dopo, a ritrovare i miei amici e a provare il senso di colpa quando ti raccontano la guerra che tu non hai vissuto e rimani scioccato perché nulla è come te lo eri immaginato. Così sono anche le relazioni con le persone che sono rimaste lì che sono diventate persone totalmente nuove. Non per colpa di qualcuno, ma perché ognuno vive la sua propria guerra. Non c’è una verità che è migliore dell’altra. E’ un processo da accettare e anche queste relazioni vanno rinnovate ogni momento. Io ho intitolato il mio film “La mia guerra privata” perché io l’ho vissuta così. Il che non vuol dire che quella degli altri, che l’hanno vissuta in modo altrettanto personale, ma in maniera del tutto diversa non sia la verità.

My own private war

Lei fa un mestiere, quella del giornalismo, che ha molto a che fare con la ricerca della verità. Lei quando torna in Bosnia si trova davanti a persone che hanno la loro verità e che non hanno alcuna intenzione di confrontarla con quella degli altri. Anche lei mi è sembrata in crisi durante alcuni confronti serrati con alcuni suoi amici e parenti.  E questo mi ha colpito molto. Poi volevo anche chiederle perché inizia e finisce il suo film con le immagini dell’autunno.

E’ vero, come giornalista sono andata in maniera molto romantica e ingenua a cercare la verità. Quando però ti confronti con la realtà ti rendi conto, non che non ci sia, ma che magari è ancora troppo presto per accettarla e che magari è anche molto più articolata. D’altra parte però queste persone che mi hanno messo in crisi non le posso rifiutare, fanno parte di me anche se hanno una visione delle cose del tutto differente dalla mia. Quando ho accettato questo sono riuscita ad andare avanti. Ad esempio, c’era un mio amico che ero sicura avrebbe fatto il film perché siamo amici e questa è la cosa più importante. E invece no. Lui aveva bisogno del suo processo di elaborazione ed in quel momento non lo poteva fare. Questo mi ha messo in crisi, ma anche questo è parte del film. C’è la tragedia della guerra, della morte, degli omicidi, ma c’è anche questo tipo di crisi che è una tragedia in sé. Quanto all’autunno, era mio padre che registrava queste cose e quando hanno cominciato a bombardare, la prima cosa che ha fatto è stato di prendere questi nastri e metterli in cantina al sicuro. Poi il tempo è passato e quindici anni dopo, le persone che erano andate ad abitare lì mi hanno contattata in Olanda e mi hanno spedito questo materiale. E’ stato uno shock emotivo enorme. Quella era la mia vita, con le mie emozioni e mi sono rivista a 21 anni invincibile, ma anche ingenua a fare le interviste senza capire assolutamente quello che stava succedendo, ma quella era una parte di me che vorrei ancora avere e che comunque non è stata uccisa dalla guerra. C’è ancora in me quella parte romantica, invincibile. Per questo anche la scena finale è un omaggio a quella persona, a quella parte di me.

Un’altra cosa che mi ha colpito molto del film è il momento in cui lei si confronta con quel suo cugino che durante la guerra ha fatto il cecchino. E’ molto interessante perché mentre lo osservavo parlare avevo l’impressione che non dicesse la verità. Volevo sapere se anche lei ha avuto la stessa impressione.

Si. Ma anche questo è una questione di scelte. Quello che hai fatto è una cosa con cui dovrai sempre convivere. E questo vale anche per lui. Comunque è una persona a cui voglio bene, a cui sono molto legata e quando ho saputo che era un cecchino ho pensato “non lo voglio più vedere, così risolvo il mio problema”. Invece quando l’ho incontrato mi sono resa conto che era una persona importante, che mi mancava e quindi nella mia testa ho pensato “fa che non l’abbia mai fatto, fa che mi dica questa bugia”. E quando lui dice effettivamente “io non l’ho fatto” mi sono resa conto che non era vero e che comunque avrei dovuto vivere con questo non sapere perché al 100% non lo saprò mai. E’ un groviglio di emozioni. Quando si parla di guerra nei film si raccontano favole. C’è il buono e il cattivo, il bianco e il nero e se fosse così sarebbe tutto più semplice. Ma nella mia esperienza è tutto molto più complicato e mescolato. E’ proprio questa la tragedia della guerra che volevo raccontare. Il fatto di non riuscire a segnare il confine fra il buono e il cattivo è proprio quello che ti mette in crisi.

a cura di Marcello Cella
Firenze, Balkan Florence Festival, 26 febbraio 2017

Si ringraziano Cecilia Ferrara e Simone Malavolti per la gentile collaborazione.

QUALITA’ IN SERIE
a cura di Luisa Ceretto e Giancarlo Zappoli

THE SEVENTIES
di Giancarlo Zappoli

Serie di 8 documentari prodotta da Tom Hanks e Gary Goetzman. Produzione: Playtone, CNN. In onda in Usa sulla CNN dall’11 giugno al 13 agosto 2015. In Italia su Sky Arte dal 31 gennaio 2017.
“Quando abbiamo completato la serie Sixties ci siamo resi conto di non aver raccontato l’intera storia: alla fine degli ’60 Nixon era stato eletto da poco, c’era ancora la guerra in Vietnam, i Beatles erano ancora la più grande band al mondo; i semi piantati nel decennio precedente avrebbero continuato a dare i loro frutti. Sapevamo di dover continuare il nostro racconto”, così hanno spiegato Hanks e Goetzman le motivazioni per un sequel documentaristico che si è suddiviso in questi episodi:

Episodio 1 The Platinum Age of TV

M-A.S.H.

La tv così come la concepiamo oggi affonda le sue radici negli anni ’70. Nascono negli Usa nuovi network come HBO ed ESPN, si sperimentano nuovi format e le serie acquisiscono contenuti diversi rispetto al passato portando sul piccolo schermo dei protagonisti come i Jefferson, i soldati di M.A.S.H., o il nucleo familiare e non di Happy Days .

Episodio 2. Gli Stati Uniti contro Nixon

Il decennio che si era aperto con il viaggio, definibile, come ‘storico’, di Nixon in Cina nel 1972 e con la sua vittoria nella rielezione contro George McGovern vedrà lo stesso Presidente costretto alle dimissioni nel 1974 dopo che si sarà acquisita la certezza della sua implicazione nel caso Watergate.

Episodio 3. War is Over (Titolo originale: Peace with Honor)

Con questo episodio si può dire chiuso il ciclo dei “Sixties” per quanto riguarda la guerra nel Vietnam. Siamo di fronte all’incursione in Cambogia, all’uccisione di 4 studenti alla Kent State University, al massacro di May Lai e al ritiro delle truppe americane.

 

 

 

Episodio 4. Culti e delitti

Le figure dei serial killer o dei leader di sette percorrono il decennio. Si va da Charles Manson a Son of Sam, passando per Zodiac e non dimenticando il suicidio di massa organizzato dal sedicente reverendo Jones.

Episodio 5. The State of the Union is Not Good

A partire dal discorso del Presidente Ford che annunciava che lo stato dell’Unione non era buono si ripercorre un decennio in cui la crisi energetica, la questione ambientale e le crisi internazionali dell’Afghanistan e con l’Iran komeinista mettono gli Stati Uniti in difficoltà.

Episodio 6. Battaglia dei sessi

La rivoluzione sessuale porta in luce le rivendicazioni delle donne in ordine alla parità di condizioni con gli uomini in tutti gli aspetti della vita sociale provocando anche forti reazioni di contrasto.

Episodio 7. Il terrore in casa e nel mondo

Il decennio vede emergere con grande evidenza il fenomeno del terrorismo. Gli americani lo verificano all’interno (sensazionale la conversione di Patricia Hearst) ma assistono anche a quanto accade a Monaco, in Germania, in Italia.

Episodio 8. What’s Goin’ On

Nel mondo della musica mentre i Beatles si sciolgono e i Rolling Stones resistono emergono figure di primissimo piano come David Bowie, Elton John e Bruce Springsteen ma muoiono Jimi Hendrix, Jim Morrison e Janis Joplin.

Quando una personalità di successo dello show business si impegna nella produzione di una serie di carattere documentaristico l’interesse si focalizza sul taglio che verrà dato ai materiali d’archivio che sono stati raccolti. Quando nel 2012 Oliver Stone realizzò “Usa. La storia mai raccontata” era abbastanza chiaro che ci si sarebbe trovati davanti a una rilettura del passato fortemente caratterizzata dalla visione che il regista aveva già proposto in film come “Salvador”, “Platoon”, “Nato il 4 luglio” e “JFK” (solo per citarne alcuni). Meno facile era ipotizzare come un democratico doc come Tom Hanks sarebbe andato a leggere gli Anni Settanta che si presentavano di fatto più complessi del decennio che li aveva preceduti a causa delle spinte in avanti ma anche delle retromarce che avevano finito con il caratterizzarli. Hanks, che compare rarissimamente negli episodi, struttura un percorso in cui le immagini di archivio dominano ma lasciano spazio anche ai cosiddetti testimoni del tempo. A coloro che, con qualche decennio in più sulle spalle, ricordano quanto accadde contribuendo con la loro versione a ricostruire il clima dell’epoca così come lo percepivano allora. Ne esce un ritratto in chiaroscuro del decennio in cui non si leggono gli avvenimenti solo con l’ottica degli iscritti al partito dell’asinello. Viene ad esempio riconosciuta a Nixon la caratura di statista per la sua apertura nei confronti della Cina e anche per la sua chiusura definitiva del conflitto in Vietnam mentre al contempo se ne dichiara l’assoluta ossessione per il controllo che lo porterà alle dimissioni in seguito all’esplosione del caso Watergate. Jimmy Carter, al contrario, viene ritratto come una persona in assoluta buona fede ma come uno statista debole e incerto. L’interesse dell’intera serie sta però (oggi più che mai dopo l’elezione di Trump alla massima carica statunitense) nello sguardo che l’area liberal rivolge al proprio passato rinvenendo negli anni Settanta una serie di conquiste (ad esempio sul piano della parità dei sessi) ma non una vera e propria vittoria risolutiva. Ci vengono mostrati nodi tuttora irrisolti che all’epoca hanno cominciato ad intrecciarsi (come si può rilevare nell’episodio dedicato al terrorismo in cui si parla anche dell’Italia per il sequestro Moro). Anche lo spazio dedicato alla cronaca nera con i serial killer e i capi setta si rivela interessante come cartina al tornasole di una società messa a confronto con nuove modalità emergenti nell’area del crimine. Se si può fare un rilievo all’operazione è che mentre si dà un giusto rilievo a quanto nei Seventies è cambiato in ambito televisivo e nel mondo musicale non si spende una parola per quanto riguarda il cinema che, oltretutto, ad Hanks non dovrebbe risultare un ambito sconosciuto. Resta solo un dubbio (a parziale giustificazione): che i diritti per l’utilizzo di spezzoni e sequenze costassero troppo.

LIBRI

UN LIBRO DI PAOLO MICALIZZI SUGLI AUTORI FEDIC
di Ettore DI Gennaro

Cos’è la FEDIC? Qual è la sua storia?
A questi due interrogativi offre risposte Paolo Micalizzi, giornalista, critico e storico del cinema, in FEDIC dal 1960 e subito divenuto punto di riferimento e “penna” che ha animato ed anima la stampa associativa. Con il suo ultimo libro: “Autori FEDIC alla ribalta” ripercorre la storia della Federazione attraverso le interviste di 22 autori da lui redatte e curate, dagli anni ’80 ad oggi.

La FEDIC è un’associazione di autori cinematografici e con questa convinzione, con questa certezza, Paolo Micalizzi incontra, intervista, visiona le opere degli autori, cercando di tracciare anche una storia della FEDIC stessa, una storia che gli attuali autori FEDIC e non dovrebbero conoscere. Una storia ragionata e contestualizzata di cui tutti sentiamo la mancanza.
Il lungo viaggio di Paolo, volto a colmare questo vuoto, presenta cineamatori che sono diventati professionisti del cinema, che aspirano ad esserlo, oppure autori selfmademan che vivono l’esperienza della creazione dell’opera a tutto tondo.
Tutti gli autori FEDIC sono affiancati in questo lungo viaggio, una lunga carrellata, senza viaggiatori di prima o seconda classe. Tutti hanno un loro peso specifico certo, ma tutti rappresentano un valore ai suoi occhi e a suo sentire, per la storia e l’importanza della Federazione stessa.
Perché la FEDIC e i suoi autori hanno rappresentato e rappresentano un contributo all’evoluzione del cinema indipendente italiano, che la critica ha smesso di seguire o trascura.
L’impegno di Paolo Micalizzi nel valorizzare questo apporto è tale che non basterà questo solo volume a raccoglierlo e raccontarlo. Paolo ha infatti già in cantiere altri due volumi, di una ideale trilogia, frutto di una sua ricerca originale che presenterà altri Autori FEDIC, tratteggiati sia da lui che da altri colleghi, e coloro che negli anni sono passati al cinema professionale.
Questi autori si sono raccontati, sono state raccolte le loro visioni del cinema, le loro reazioni di fronte alle critiche, e con tutti Paolo ha avuto sentimenti di vicinanza e simpatia professionale.
Le interviste presentate in ordine cronologico per una corretta contestualizzazione sono apparse in parte su “Cineclub” e in parte su Carte di Cinema cartaceo e poi online. Vi sono poi gli ultimi profili ancora inediti di cui è prevista una prossima edizione sulla stampa della Federazione.
Questo libro è un abbraccio ideale di Paolo Micalizzi alla Federazione tutta, agli autori che la animano e a voi lettori che sfoglierete le pagine di questo libro, che si può definire, necessario!

AUTORI (New entry)

Nella sezione dedicata agli autori troverete la biografia di ognuno.

Autori

CREDITS

Carte di Cinema 12

Sede c/o FEDIC dott.ssa Antonella Citi, Via E.Toti, 7 – Montecatini Terme (PT)
E-mail: info@cartedicinema.org

Carte di Cinema è edito dalla FEDIC -Federazione Italiana dei Cineclub
Direttore responsabile: Paolo Micalizzi  (E-mail: paolomicalizzi@gmail.com )
Direttore editoriale: Lorenzo Caravello
Redazione: Maurizio Villani

Progetto grafico e impaginazione: Lorenzo Bianchi Ballano

Hanno collaborato al numero 12 della rivista online: Pio Bruno, Marcello Cella, Luisa Ceretto, Maria Pia Cinelli, Marino Demata, Ettore Di Gennaro, Barbara Grassi, Roberto Lasagna, Francesco Saverio Marzaduri, Tullio Masoni, Paolo Micalizzi, Davide Parpinel, Giorgia Pizzirani, Riccardo Poma, Simonetta Savino, Paolo Vecchi, Maurizio Villani, Marco I. Zambelli, Giancarlo Zappoli.