2016 numero 9

Sommario

ABSTRACT

HOMO HOMINI LUPUS – RIFLESSIONI POLITICHE SUGLI ZOMBI DI GEORGE A. ROMERO di Riccardo Poma
Un viaggio attraverso la saga sugli zombi ideata da George A. Romero, che ha saputo tramutare la figura del morto vivente in un potente catalizzatore “politico”. Raccontando la più atroce delle apocalissi, il regista ha saputo riflettere sui mutamenti della società americana, una società che fatica a reprimere la propria bestialità nascosta e sembra saper utilizzare soltanto la violenza per risolvere i conflitti. Insomma, meritiamo davvero di essere salvati?

ARIA DI LIBERTÀ: IL “FREE CINEMA” di Francesco Saverio Marzaduri
Il “Free Cinema,” un movimento che attinge a sorgenti letterarie e alla tradizione documentaristica, irrompe sugli schermi sul finire degli anni Cinquanta, ridestando la coscienza di classe e il cinema inglese in generale.

MITO, STEREOTIPI E MODERNITÀ: SGUARDI SUL “CINEMA SARDO” di Sergio Naitza
Solo alle soglie del Duemila un drappello di registi sardi ha saputo raccontare la Sardegna, uscendo dai tanti luoghi comuni e stereotipi che avevano segnato i film che arrivavano dall’Isola, firmati quasi sempre da autori nazionali e stranieri. Una “piccola onda” che ha saputo imporre un cinema fresco, originale, interessante che raccontando il proprio luogo riesce ad essere universale. Tra mito e modernità, un excursus storico su questa rinascita.

FRA I MIGLIORI CINEASTI ITALIANI: MARIO BRENTA di Tullio Masoni
Allievo di Olmi e maestro per conto proprio, Mario Brenta distingue in un tempo lungo due periodi: prima la pellicola poi, con Karine de Villers, il digitale.

SULLE DIFFICOLTÀ D’IMMAGINARSI IN SALA D’ATTESA PER PIÙ DI UNA GENERAZIONE DI SPETTATORI DI Roberto Lasagna
Il rapporto alterato con la natura, il sovvertimento sbilanciato dei ruoli, l’asservimento dell’individuo alle nuove derive tecnologiche. Nei casi migliori il cinema ci parla anche di questo, nell’attesa che anche un aspetto così delicato come la depressione maschile legata al concetto di identità si faccia strada tra i significati e le immagini, attraverso percorsi e opere cui valga la pena soffermarsi e riflettere.

VILMOS ZISGMOND, PITTORE DI LUCE di Marco Incerti Zambelli
Vilmos Zsigmond è stato, con Laszlo Kovacs, il direttore della fotografia che ha dato corpo e immagini al miglior cinema americano dagli anni 70. Fuggito dall’Ungheria dopo la invasione sovietica, ha saputo dipingere con la luce i capolavori di Altman, Cimino, De Palma, Spielberg, Allen.

FILMMAKER ALLA RIBALTA: ENRICO MENGOTTI di Paolo Micalizzi
Profilo di un filmmaker veneziano he si è distinto nel mondo della FEDIC per i suoi film: ha esordito nel 1976 con un’opera  sul terremoto del Friuli, e, tra le altre, ne ha realizzata una sull’eccidio di Porzu, prima ancora del film di Renzo Martinelli. Al suo attivo anche iniziative importanti come il primo Congresso dei Cineclub del Triveneto e la Rassegna di Mirano sul cinema non professionale “Il film a soggetto”.

L’AIRONE DEL MISFF VOLA VERSO CIELI INTERNAZIONALI di Marcello Zeppi
Il MISFF tende sempre più ad una sua dimensione internazionale. E lo fa secondo alcune linee principali, fra cui il partenariato con il Festival francese del Film sull’Handicap che prevede una prima edizione a Cannes dal 16 al 22 settembre 2016.

CARLO VERDONE MATTATORE AL VALDARNO CINEMA FEDIC di Paolo Micalizzi
Resoconto di “Valdarno Cinema Fedic” 2016  dove la Masterclass di Carlo Verdone ha riscosso moltissimo successo. Nel Concorso, Premio “Marzocco” a “Bellissima” di Alessandro Capitani.

MATTINATA VALDARNO FEDIC SCUOLA di Laura Biggi
Valdarno Cinema FEDIC: mattinata dedicata alle scuole, proiezione del film  “Astrosamantha – La donna dei record nello spazio” ed incontro con il regista.

FESTIVAL DI CANNES 2016: UN’EDIZIONE CHE PROMETTEVA PIÙ DI QUANTO ABBIA MANTENUTO DI GIANCARLO ZAPPOLI
Un’edizione del Festival di Cannes che sulla carta prometteva più di quanto non abbia poi mantenuto. La Giuria ha così avuto un ambito di scelta più ristretto riuscendo così (quasi sempre) ad individuare i film che meritavano un riconoscimento. Nell’articolo si propone un breve commento per ognuna delle opere in competizione.

REALTÀ MAI VISTE AL CENTRO DI “LE VOCI DELL’INCHIESTA” di Paolo Micalizzi
Festival sempre più interessante sulle testimonianze della “memoria d’oggi”. Ospite dell’edizione 2016 la regista Liliana Cavani omaggiata con la proiezione di alcune sue opere e la pubblicazione di un libro, a cura di Fabio Francione, sulla sua attività critica negli anni ’60.

SI AFFERMA SEMPRE Più IL “ LUCCA FILM FESTIVAL E EUROPA CINEMA di Paolo Micalizzi
Ospiti di caratura internazionale nell’edizione 2016: George Romero, William Friedkin, Paolo Sorrentino e Marco Bellocchio. Omaggi a Gualtiero Jacopetti e Mario Monicelli.

LE EMOZIONI DEL GENIO TARKOVSKIJ di Paola Dei
Definito il poeta dell’immagine Andrej Tarkovskij, regista russo che ha dovuto subire un forzato esilio dalla sua terra, a causa della sua ritrosia verso le forme di potere, utilizza i suoni e i paesaggi naturali come specchio e riflesso di paesaggi interiori che ci portano a diretto contatto con la spiritualità.
Il suo cinema è definito di soglia per la capacità del regista di rimanere sulla linea di confine fra malinconia e felicità, fra il visibile e l’invisibile, fra il detto e il non detto.
Ispiratore di Aleksandr Sokurov, che con il Faust, vinse il Leone d’Oro della Serenissima nel  2011, premio che nel 1962  ricevette anche lui presentando il film “L’infanzia di Ivan”, ex aequo con Valerio Zurlini che concorse con “Cronaca familiare”, Tarkovskij appare oggi più che mai attuale e capace di affascinare con le sue trasfigurazioni intimistiche dei paesaggi.

SVOLTE D’AUTORE: GUS VAN SANT E MICHEL GONDRY di Marco Incerti Zambelli
Gus Van Sant e Michel Gondry: due autori di culto le cui ultime opere , pur con risultati diversi, paiono mostrare un ripensamento stilistico.

ALL’OPPOSTO: “LE CONFESSIONI” E “LA PAZZA GIOIA” di Tullio Masoni
Due film d’attori e perciò opposti. A Le confessioni Toni Servillo imprime una cadenza meditativa, una sordina non compromessa dalle sorprese “visionarie”.
La pazza gioia, invece, potrebbe insolitamente affidare alle attrici una sorta di “saggio accademico”. In un mondo di uomini brutti, perlopiù, volgari e malvagi.

HOLLYWOOD BABILONIA: “L’ULTIMA PAROLA – LA VERA STORIA DI DALTON TRUMBO” DI JAY ROACH;
“AVE, CESARE!” DI JOEL ED ETHAN COEN di Paolo Vecchi
La Hollywood del secondo dopoguerra raccontata con un’ottica che non potrebbe essere più diversa. “L’ultima parola” é infatti un biopic su Dalton Trumbo visto come eroe della libertà, “Ave, Cesare!” sciorina una serie di beffarde riesumazioni in perfetto stile Coen.

PRETI PEDOFILI di Marino Demata
L’articolo affronta il problema della pedofilia nella Chiesa mettendo in luce attraverso rapidi accenni critici ai due film recentemente arrivati in Italia, il film americano“Il caso Spotlight” e “Il club”, del regista cileno Pablo Larrain, il dramma delle vittime e la lunga storia di reticenze e coperture da parte delle alte gerarchie ecclesiastiche di fronte al problema.
I due film, entrambi molto belli ed efficaci, sono fra loro diversissimi. Infatti “Il caso Spotlight” è molto lineare e ci mostra la progressiva scoperta e ricostruzione delle prove da parte del team di giornalisti del Boston Globe dei delitti dei preti pedofili e delle palesi coperture delle gerarchie ecclesiastiche. Il secondo, “Il club”, ci mostra l’inferno di una piccola comunità di quattro ex preti proprio dall’interno ed è pieno di significati reconditi, tra i quali va sottolineto il dramma delle vittime della pedofilia come metafora delle ferite oggi ancora aperte in Cile: i crimini di Pinochet e dei suoi generali rimasti coperti ed impuniti.

“L’OMBRA DEL DUBBIO: ZONA D’OMBRA” di Francesco Saverio Marzaduri
Un thriller a sfondo sportivo piuttosto insolito, indeciso se seguire il percorso del film-inchiesta o contentarsi di essere un’agiografia sull’ennesimo, eroico medico americano.

LA FABBRICA E IL FALSO – VERTÀ SULLA MIA BAMBOLA di Marcello Cella
Il documentario “La fabbrica fantasma – Verità sulla mia bambola” di Mimmo Calopresti racconta un’amara verità sulla fabbrica del falso che seduce tanti ignari consumatori occidentali e svela una realtà fatta di sfruttamento, traffici loschi, distruzione dell’ambiente e delle culture.

MAPPE DIGITALI di Elio Girlanda
Qual è il futuro prossimo della comunicazione e dell’audiovisivo? Alla domanda rispondono in modo suggestivo ed esauriente due recenti pubblicazioni di autori italiani (una rivista e un libro) che esplorano il futuro presente del cinema e dei media digitali.

THE NIGHT MANAGER di Luisa Ceretto
Una serie adrenalinica per chi ama il genere spy story, diretta dal premio Oscar danese Susanne Bier e tratta dall’omonimo romanzo di John Le Carré. Dismessi i panni del dottor House, Hugh Laurie è un ricco e corrotto uomo d’affari privo di scrupoli…

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CINEMA E CINEASTI INDIPENDENTI

Pubblichiamo questa analisi di Riccardo Poma sugli Zombi di George A. Romero, regista che è stato uno dei grandi protagonisti del “LuccaFilmfestival e Europa Cinema” sul quale in questo numero appare un ampio resoconto.

HOMO HOMINI LUPUS –
RIFLESSIONI POLITICHE SUGLI ZOMBI DI GEORGE A. ROMERO
di Riccardo Poma

Di zombi, al momento, sembra esserne pieno lo schermo. L’exploit mondiale e multimediale dei morti viventi (oramai protagonisti di decine di fumetti, film, romanzi, serie TV, veri e propri festival ed eventi) conferma da un lato la presenza di un mercato mediale che appare sempre più studiato a tavolino per spolpare fino all’osso la moda del momento (ricordate? Fino a cinque o sei anni fa c’erano solo vampiri, vampiri ovunque, oggi non se ne trova più uno), dall’altro il potere, spesso più “politico” che orrorifico, della figura del morto vivente. Chi parla di zombi, insomma, parla spesso di qualcos’altro. Di che cosa? Di solito di noi, dei vivi, e di tutte le brutture che da tempo immemore ci portiamo appresso. Perchè lo zombi, in maniera maggiore rispetto agli altri mostri, si rivela un vero e proprio catalizzatore, un personaggio che, senza rinunciare al proprio status (quello di mostro terrorizzante), riesce a trasformarsi in un potentissimo simbolo.

La figura del morto vivente, pur spesso identificata con nomi differenti, arriva al cinema intorno agli anni ’30. Film come “L’isola degli zombies” di Victor Halperin (1932) e “Ho camminato con uno zombi” (1943) di Jacques Tourneur si ispirano direttamente al folklore haitiano, le cui leggende narrano di cadaveri che si risvegliano grazie a incantesimi e maledizioni operate da misteriosi stregoni. Pur in maniera velata, lo zombi è già un catalizzatore “politico”: si pensi ai morti viventi messi a lavorare alla catena di montaggio nel film di Halperin, o a quelli spediti a combattere la Grande Guerra in un altro film del regista, “Revolt of the zombies” (1936). Tuttavia, è solo con “La notte dei morti viventi” di George A. Romero (1968) che questo sottotesto politico diventa qualcosa di più di una semplice allusione satirica.

Innanzitutto, lo zombi di Romero si spoglia delle componenti folkloristiche dei primi film. Nessuna maledizione, nessun rito pagano: i morti si rialzano e basta. Motivo? Non pervenuto. Lungo la saga romeriana – composta ad oggi da ben sei film – i personaggi propongono le più disparate teorie (virus, virus alieno, punizione divina, mutazione genetica), ma la verità è che la causa del contagio non è mai davvero rivelata, cosa che rende il tutto ancora più terribile (se non si identifica la causa del contagio, come si può fermarlo?). Peppino Ortoleva, nel suo saggio apparso su “Diversamente vivi”, sostiene che lo zombi romeriano è il “proletario” dei mostri: è privo del retroterra tragico del mostro di Frankenstein o del fantasma, non possiede lo charme del vampiro, manca dell’animalesca cattiveria del lupo mannaro, addirittura non possiede alcuna caratteristica (forza sovrumana, connessioni con la stregoneria) dello zombi visto in precedenza. Lo zombi di Romero, “anonimo in morte come si presuppone lo sia stato in vita” (Ortoleva), è il simbolo della “morte di massa”: non ha segni particolari, è identico agli altri zombi e, soprattutto, non è mai uno ma è sempre molti, è sempre “massa”, ed è proprio il suo essere “massa” a renderlo praticamente invincibile. Certo, non c’è nulla di più facile che uccidere UNO zombi. Il problema è che, eliminato uno, ce n’è subito un altro, e un altro, e un altro ancora. Lo zombi non è forte, non ha strategia, vince solo perché non ha nulla da perdere (non ragiona, dunque non sa di poter essere eliminato) e perché è sempre in maggioranza rispetto a noi vivi.

Questo aspetto fa dello zombi una metafora perfetta della società di massa, del capitalismo, del consumismo, che è comprare tanto per comprare, avere per avere e, perché no, mangiare per mangiare; esattamente quello che fanno gli zombi. Nei film di Romero ci sono spesso zombi obesi: oltre che realistica (circa il 30 % degli americani soffre o ha sofferto di problemi di obesità) e controcorrente (non ci sono zombi grassi in “The Walking Dead”), si tratta di una scelta precisa per sottolineare l’abulica fame di consumo della società USA.

Un ritratto recente di George A. Romero

Un ritratto recente di George A. Romero

Ma lo zombi di Romero è un mostro anomalo (e terribilmente inquietante) anche perché non è nemmeno un vero e proprio cattivo: non si può odiare un essere privo di intelletto che non fa altro che trascinarsi senza meta e con il solo scopo di aggredire (e addentare) tutto ciò che ancora respira. Non è mosso da alcun sentimento o emozione, non ha ragioni per fare quello che fa, e le sue azioni non sono governate dalla relazione basilare tra causa ed effetto. Non c’è intenzionalità nelle gesta dello zombi, e dunque non è tacciabile di cattiveria come altri mostri eccellenti. Cattiveria che invece soggiorna nei vivi, colpevoli di praticare il male perché VOGLIONO farlo.

E infatti nei film di Romero sono i vivi il vero pericolo. Gli zombi non si uccidono a vicenda, gli esseri umani lo fanno abitualmente, ed è per questo che di film in film si fa più forte la convinzione che davvero non meritiamo di essere salvati. Pessimismo? Assolutamente, ma motivato. Il vero tema centrale dell’esalogia romeriana sugli zombi non è, come si potrebbe pensare, la bestialità dei morti viventi, quanto la bestialità insita negli esseri umani, in coloro che ancora sono (o si considerano) vivi. E se dunque gli uomini non fanno altro che uccidersi tra loro, che senso ha salvaguardarne a tutti i costi l’esistenza?

Ecco la grande forza di Romero. L’aver saputo raccontare i mutamenti della società americana (ma non solo) sempre e comunque riflettendoci sopra con sguardo critico, parlando di zombi per parlare di qualcos’altro. Non è per niente difficile notare come ogni film della saga di Romero sia in realtà un resoconto, metaforico ma dettagliato, di un certo periodo storico USA: l’America priva di riferimenti, orfana di Kennedy e priva di appigli, la guerra in Vietnam (“La notte dei morti viventi”), gli anni del consumismo imperante (“Zombi”), la deriva guerrafondaia e maschilista dell’era Reagan (“Il giorno degli zombi”), le bugie e la paura preconfezionata dell’era Bush (“La terra dei morti viventi”), la società in balia dei media (“Diary of the Dead”), fino ad arrivare ad un oggi in cui sembra impossibile che l’umanità possa vivere in pace, come se l’odio facesse ormai parte del suo DNA (“Survival of the Dead”). Un discorso metaforico che piace anche e soprattutto perché non intacca minimamente la sfera – fondamentale – dell’intrattenimento: i film di Romero sono grandi saggi politici, ma restano anche grandi, talvolta grandissimi, film dell’orrore.

In principio fu la notte.

“La notte dei morti viventi” esce nel 1968. Girato con una troupe ridottissima e con poco più di centomila dollari, il film si fa strada per qualche mese nei circuiti indipendenti per poi raggiungere, improvvisamente, un successo planetario. Si stima che nel 1978, a dieci anni tondi dalla prima (svoltasi al Fultom Theatre di Pittsburgh con un pubblico prevalentemente adolescente), il film avesse guadagnato, in tutto il mondo, tra i 12 e i 15 milioni di dollari. Difficile calcolare questa cifra con maggiore precisione (la casa produttrice non appose al film la frase che riservava i diritti, e dunque il film è sempre circolato liberamente, negando a Romero la quasi totalità dei benefici economici), ma di certo l’impatto che ebbe sul pubblico fu assolutamente straordinario. Il film è ancora oggi considerato un saggio registico di alto livello, se non altro per come Romero riuscì a creare un clima allucinato e angoscioso senza poter contare su nulla che non fosse la propria macchina da presa.

È subito chiaro che Romero punta a rileggere alcuni tòpoi della fantascienza di quegli anni, ancora specchio della guerra fredda e parente delle “guerre dei mondi” degli anni ’50: il nemico esterno che vuole conquistarci per renderci tutti uguali (magari sotto una bandiera aliena molto simile a quella sovietica) diventa, ne “La notte dei morti viventi”, un nemico a tutti gli effetti “interno”, tra le cui fila combattono, irrimediabilmente trasformati, amici, padri, madri e fratelli morti che si risvegliano per annientarci. E la solidarietà che si instaurava tra i personaggi di quei film, solitamente gruppi di WASP che si davano man forte per lottare contro un nemico comune (un nemico diverso sia nell’ideologia che nell’aspetto fisico) lascia il posto ad una diffidenza generale che porta quegli stessi personaggi ad autodistruggersi perché incapaci di collaborare, ognuno ansioso di salvare se stesso a scapito della salute dell’altro.

Ben (Duane Jones) ne “La notte dei morti viventi”

Anche il modo scelto da Romero per rappresentare la violenza è radicalmente diverso da quello tipico di quegli anni, e nasconde anch’esso un sotto testo velatamente politico: la crudezza di molte immagini del film riporta, in maniera più o meno consapevole, alle foto e ai filmati inerenti al Vietnam che in quegli anni, attraverso la televisione, raggiungono le case di milioni di americani. La violenza diventa qualcosa di quotidiano, di assimilabile con facilità mentre si sta paciosi davanti alla TV, con tutta la famiglia riunita per la cena. Perchè? O meglio, perché tutto ciò è accaduto senza che nessuno se ne accorgesse o facesse qualcosa per evitarlo? Secondo Romero, perché la violenza è già parte della società USA. Il suo film indugia spesso sulle armi, sugli uomini che le imbracciano, sul godimento che alcuni di loro provano nello scaricarle contro gli zombi o, peggio ancora, contro ignari esseri umani. Ecco il discorso sulla bestialità insita nell’uomo: l’eliminazione dei morti viventi è sacrosanta, legittima, ma se per alcuni è un male necessario, per altri è un qualcosa che trasmette piacere, un modo come un altro per scaricare la rabbia o la tensione. Romero sembra dirci che abbiamo perso il senso delle cose, e che non c’è soluzione perché questa bestialità è parte del nostro stesso DNA, più genetica che patologica.

Alla fine del film l’unico superstite, il nero Ben, esce dalla cantina in cui si era rifugiato. Nei pressi della casa c’è una squadra di cacciatori (bianchi, con la camicia a quadrettoni e il cappellino) impegnati in una sorta di ronda anti zombi. Uno di questi cacciatori scorge la figura di Ben da una finestra e, senza alcun accertamento, gli spara freddamente convinto che si tratti di uno zombi. Nonostante si tratti di un malinteso, il dato di fatto è che il grasso uomo bianco armato ha (tanto per cambiare) sparato all’indifeso uomo nero, e che quello che dovrebbe essere il buono (il cacciatore che uccide gli zombi) non ci somiglia neanche minimamente. Oltre ad essere una scena che sa molto di linciaggio, è inquietante perché ancora una volta ciò che accade è frutto dell’incomprensione, della paura del diverso, di una società sempre meno disposta a comunicare con le parole ma sempre più felice di risolvere i conflitti attraverso i proiettili. Le ultime inquadrature del film sono delle foto che mostrano il cadavere del povero Ben mentre viene trascinato in un rogo di zombi attraverso alcuni grossi ganci da macello. Nessuna dignità nemmeno nella morte, ma grande godimento da parte di chi uccide e si diverte ad impilare cadaveri per poi bruciarli.

Anche per quanto riguarda il casting Romero fa delle scelte squisitamente politiche. Duane Jones è in assoluto il primo attore protagonista di colore della storia del cinema a non occupare il primo spazio nei credits per questioni etniche: ovvero, il primo attore nero in un ruolo che poteva essere tranquillamente affidato ad un bianco (le prove da protagoniste di attori come Sidney Poitier non rientrano in questa logica). Negli anni Romero ha dichiarato che Jones fu scelto soltanto perché era “il più bravo attore provinato”, negando che si trattasse di una precisa scelta politica; probabile, ma la decisione fu comunque coraggiosa, anche e soprattutto in virtù dei temi affrontati nel film.

Un’ultima riflessione romeriana che va citata, anche e soprattutto per il peso sempre maggiore che avrà negli episodi a venire, è quella sul potere (negativo) dei media. Ne “La notte dei morti viventi” viene spesso inquadrata una televisione, mezzo attraverso il quale i superstiti rintanati tentano di capire cosa stia accadendo nel mondo; peccato che chi dovrebbe spiegare loro la verità, o comunque impegnarsi per cercarla, faccia invece una confusione incredibile dando voce a personaggi quantomeno discutibili e spacciando per vere quelle che sono soltanto teorie. L’unico mezzo che potrebbe essere utile per risolvere il problema diventa un accozzaglia di frasi inutili e in alcuni casi dannose. Palesare oggi l’affermazione che la TV e i media in generale non sempre raccontino la verità pare un’ovvietà senza precedenti, farlo nel 1968 – rivolgendosi al primo vero pubblico “teledipendente” – rappresentava di certo una voce fuori dal coro.

Poi venne l’alba.

Dieci anni dopo il successo de “La notte dei morti viventi” Romero torna agli amati zombi con quello che, da molti, è considerato non solo il suo miglior film ma anche uno dei capisaldi del cinema horror moderno. “Dawn of the Dead”, letteralmente “l’alba dei morti”, comincia poche ore dopo la fine de “La notte” e inscena un mondo già sprofondato nel caos più completo. Grazie ad un budget (leggermente) maggiore e all’aiuto del nostro Dario Argento, che fu produttore esecutivo, autore delle musiche coi Goblin e curatore della versione europea (ma non responsabile del penoso e generico titolo italiano, “Zombi”), Romero può riprendere ed ampliare molti dei temi affrontati nel film precedente.

Il prologo del film si muove su due linee narrative diverse ma destinate ad incontrarsi: le vicissitudini di una regista televisiva, alle prese con le ultime trasmissioni prima del caos definitivo e decisa a fuggire con l’amante elicotterista, e quelle di un gruppo di soldati delle forze speciali chiamati a sedare alcune rivolte provocate da immigrati che vivono in miseria. Due ambienti, quello televisivo e quello militare, scelti con cura per continuare a riflettere su due temi forti della filmografia romeriana, già presenti in maniera velata nel film precedente: il potere dannoso dei media nel primo caso, la società bestiale e incline alla violenza nel secondo. Un argomento, quest’ultimo, narrato nelle sue estreme conseguenze attraverso un personaggio ben preciso, quello del folle soldato Wooley che spara indistintamente su vivi e morti ed è mosso da un odio feroce e razzista che non ha nulla di umano. A questa figura diabolica, emblema perfetto della banalità del male, si oppone tuttavia quella del soldato (nero) Peter, che invece spara con riluttanza e conserva un minimo di umanità ma è costretto comunque ad uccidere Wooley oramai impazzito. Ecco un altro elemento tipico del cinema di Romero, ovvero un disegno dei personaggi mai stereotipato o manicheo: come a dire che in questo mondo in rovina non è più possibile distinguere i buoni dai cattivi, se non altro perché entrambi sono costretti a compiere azioni orribili per sopravvivere. L’unica distinzione possibile diventa dunque quella tra coloro che premono il grilletto perché è necessario e quelli che invece provano godimento nel farlo, tra chi resta umano e chi invece sembra non esserlo mai stato (o, semplicemente, aveva solo bisogno di una scusa per cessare di esserlo). È una distinzione squisitamente “morale”: gli eroi non esistono più, ma fortunatamente c’è ancora qualcuno in grado di ragionare e di porsi dei dilemmi etici prima di sparare a chicchessia. Si radica che i veri mostri siamo noi, non tutti ma una buona parte. Lo zombi è soltanto la molla che lascia uscire i nostri istinti peggiori. Anche la frase più celebre del film, quella credenza pagana presente sulle locandine e pronunciata dallo stesso Peter (“quando non ci sarà più posto all’inferno, i morti cammineranno sulla Terra”) risulta ironicamente emblematica: perché non c’è più posto all’inferno? Siamo davvero stati così cattivi da averlo intasato?

Alcuni morti viventi che si vedono in “Zombi”

Subito dopo questo significativo prologo Romero inserisce un altro passo emblematico che rimarca, stavolta con una buona dose di ironia beffarda, questo tema forte della bestialità umana: girata come uno spot turistico, accompagnata da una canzone country molto poco horror, la breve sequenza mostra alcuni panciuti e baffuti cacciatori, molto simili a quelli che alla fine de “La notte” sparavano al malcapitato Ben, intenti ad uccidere morti viventi con lo spirito di chi sta andando ad una scampagnata. Grossi sorrisi, battute da veri yankee e una lucida follia negli occhi: ecco i veri mostri, membri di una società che sembra aver smarrito per sempre il senso delle cose.

In seguito a questa ironica quanto inquietante parentesi Romero fa finire i suoi quattro sopravvissuti (la regista, l’elicotterista, Peter e un altro soldato) dentro un grande centro commerciale, dentro il quale si svolgerà la maggior parte del film. Uno dei protagonisti, vedendo il Mall pieno di zombi dice che “tornano perché era un posto importante quando erano vivi”. La metafora è chiara. Il centro commerciale è diventato l’unico luogo di culto possibile, in cui si va ad adorare non tanto il Dio denaro quanto il Dio del consumo: comprare per comprare, proprio come gli zombi che mangiano perché il loro istinto gli dice di farlo e non perché ne hanno davvero bisogno (nel successivo “Il giorno degli zombi” alcuni esperimenti confermeranno che lo zombi non ha davvero bisogno di nutrirsi). Per Romero si tratta di un’ennesima involuzione della specie umana, un passo indietro che sembra privare gli uomini dell’intelligenza rendendoli metaforicamente proprio dei morti viventi. Il compratore medio e lo zombi sono simili perché entrambi si lasciano trascinare da una massa uniformata e narcotizzata che vagabonda nei centri commerciali in cerca di qualcosa che non gli serve, oggetti superflui in un caso e “carne superflua” nell’altro. Lo zombi, tuttavia, ha l’alibi del cervello in avaria. Gli esseri umani no, e dunque il loro vagabondaggio è per certi versi ancor più inquietante. Anche i quattro sopravvissuti, alla fine, perdono la loro fortezza perché narcotizzati dai molti agi offerti da quel luogo che considerano incantevole: impellicciati e sazi, abbassano la guardia e si comportano in maniera particolarmente stupida (ad esempio evitando di nascondersi ad occhi esterni), permettendo così ad una gang di sadici motociclisti di conquistare il posto. Ad un certo punto i nostri potrebbero fuggire, ma non vogliono perché andarsene significherebbe rinunciare a tutte quelle “cose” per cui hanno duramente lottato. Peccato che, conti alla mano, tutte quelle cose (tolto ovviamente il cibo) non gli servano a niente.

E infine fu il giorno.

Il terzo capitolo della saga romeriana sugli zombi esce nel 1985. Nel celeberrimo prologo – anticipato da un terrificante incubo della protagonista – vediamo per la prima volta gli effetti dell’apocalisse su larga scala. Strade deserte, edifici in rovina, migliaia di banconote, diventate del tutto inutili, che svolazzano in un surreale quanto inquietante silenzio. Una situazione di quiete solo apparente: gli zombi sono lì, in agguato, pronti a mettersi in moto alla prima testimonianza di passaggio umano e dunque di cibo. Gli spettatori di questa atroce scena sono una donna scienziata e tre uomini che vivono in un bunker sotterraneo, comandato e difeso da un gruppo di soldati. Nel bunker sono presenti diversi laboratori messi a disposizione dal governo per cercare ed isolare una cura al morbo dei morti viventi.

Torna la metafora del consumismo (il dottore dice che gli zombi mangiano anche se privati degli organi, ovvero mangiano per il solo gusto/istinto di farlo), ma questa volta il bersaglio è più preciso: si racconta, più o meno velatamente, la deriva bellicista, guerrafondaia e sotto molti aspetti (soprattutto mediale) maschilista dell’America reaganiana. La violenza e il turpiloquio dei soldati sono lo specchio della violenza e della crisi di valori di un’intera società, che delega all’esercito l’espressione della propria bestialità nascosta. Le bandiere USA non svettano mai alle spalle degli scienziati e degli altri personaggi positivi, ma spesso incorniciano gli aggressivi discorsi del malvagio soldato Rhodes.

Nel laboratorio sotterraneo lavora anche l’instabile dottor Logan, in grado di costruire un canale di comunicazione coi morti viventi. Così, mentre l’umano si disumanizza, lo zombi diventa più umano. Il problema è che c’è poco da cantar vittoria: umanizzarsi significa imparare la violenza tipica degli esseri umani, e infatti le prime due cose che fa lo zombi sono usare una pistola e provare il sentimento della vendetta. In questo modo, Romero sembra ragionare anche sui limiti della scienza, che dovrebbe essere una risorsa ma che spesso, per colpa degli uomini, finisce con l’essere dannosa.

Lo zombi “intelligente” Bub

Anche il finale in cui i sopravvissuti riescono a raggiungere un’isola deserta è squisitamente politico: su tre personaggi che si salvano, uno è un nero e l’altra è una donna, proprio come in “Zombi” (anche se quella volta erano tutt’altro che fuori pericolo). Un finale tuttavia ambivalente, ottimista perché una volta tanto i personaggi sono salvi rispetto all’apocalisse zombi e alla cattiveria umana, pessimista perché, a ben vedere, l’unica soluzione possibile sembra essere quella di estinguerci quasi del tutto per poi ricominciare da zero. Questa volta, magari, senza diventare i mostri che siamo diventati l’ultima volta.

Ma il discorso di Romero è in continua evoluzione. Si pensi al mutamento del ruolo della donna in questi primi tre film: dalla Barbara de “La notte dei morti viventi”, passiva ai limiti dell’inutilità, alla Sarah de “Il giorno degli zombi”, combattiva e intelligente, vero fulcro della storia. O alla propensione per gli eroi di colore, presenti non a caso in tutti e tre i film. Scelte che possono anche sembrare scontate ma che, alla luce dell’ideologia romeriana, risultano in fondo fortemente politiche, oltre che controcorrente ed originali.

La terra (un quarto capitolo inaspettato).

Nel 1985, uscendo dalle sale in cui si proiettava “Il giorno degli zombi”, agli spettatori era chiaro che con quel finale Romero avesse voluto mettere la parola fine alla sua saga. A vent’anni esatti da quel finale sull’isola deserta, il vecchio George stupì tutti tornando alla ribalta con un inaspettato quarto capitolo. La primissima, ironica inquadratura – l’insegna di una trattoria che reca la parola “eat” (mangiare) mentre attorno gli zombi mangiano brandelli di esseri umani – rivela che, nonostante un digiuno di zombi durato un almeno un ventennio, Romero resta potente e immaginifico come una volta. Basta leggere la trama del film (intitolato, molto emblematicamente, “La terra dei morti viventi”) per accorgersi che si tratta di un (oramai) rarissimo horror politico. Da molti anni gli zombi hanno preso il controllo del pianeta. In un lembo di terra “sicura”, protetta da due fiumi e da un piccolo esercito, i ricchi vivono agiati in una torre inespugnabile mentre i poveri, per strada, lavorano per il loro benessere. Ma quando i morti viventi si coalizzano e alcuni “dipendenti” del Green iniziano a ribellarsi, anche gli abitanti della roccaforte si ritroveranno in pericolo.

Lo zombi “Big Daddy”

Tanto quanto “Il giorno” era un film sull’era Reagan, “La terra” si rivela un film sull’era Bush. Sono passati 20 anni, eppure i difetti sono rimasti gli stessi: carrierismo, sopraffazione del ricco sul povero, razzismo, ingiustizia a gogo. E la più inquietante delle dittature, quella della paura: al popolo si da poco e niente, ma gli si fa credere di essere al sicuro. Ecco perchè “La terra” è probabilmente uno dei più lucidi esempi di cinema che racconta l’America del dopo 11/9. Il capo del Green, interpretato da un magnifico Dennis Hopper che si diverte a scimmiottare l’ex segretario della difesa Donald Rumsfeld, dice che “noi non scendiamo a patti con i terroristi”, ed è ben conscio di essere in una posizione di potere grazie allo sfruttamento delle debolezze umane (“ho dato loro (a coloro che vivono sotto il Green, ndr.) il gioco e il vizio perché se ne stessero buoni”).

La cosa incredibile è che, stavolta, la rivoluzione arriva dagli zombi, massa uniformata e incapace di pensare che, tuttavia, si mostra superiore agli umani perchè comprende l’importanza del coalizzarsi e del non ammazzarsi a vicenda: uniti contro un nemico comune, guidati da un capopopolo nero (e di mestiere benzinaio), vanno a prendersi il potere, lenti ma forti nel perseguire lo stesso scopo. Mai come questa volta i cattivi non sono loro, ma noi. Gli zombi sono la nuova stirpe, proprio come lo erano i vampiri di “Io sono leggenda” (il libro di Matheson, secondo Romero, era una delle ispirazioni letterarie maggiori de “La notte dei morti viventi”), e mai come questa volta è davvero difficile percepirli come i cattivi. Anzi, a fare le spese del divertito sadismo di Romero sono questa volta i ricchi del Green, sterminati mentre sono intenti a fare compere e a fingere che fuori non sia mai successo niente. Alla fine Riley, il protagonista, si rifiuta addirittura di sparare alla massa di zombi capitanati dal benzinaio nero Big Daddy. In fin dei conti, dice, sono solo in cerca di un posto dove andare, proprio come noi. E i veri nemici continuano a essere gli altri, quelli che respirano ancora.

Due variazioni sul tema – Il diario e i sopravvissuti

“Diary of the Dead”, uscito due anni dopo “La terra”, non è tanto un seguito quanto una variazione sul tema, e infatti si riparte dagli albori del contagio. Mentre sono impegnati a girare un film dell’orrore in un bosco, alcuni studenti di cinema apprendono che i morti di tutto il mondo si stanno risvegliando con l’unico scopo di azzannare i vivi. A bordo di un camper cercano di raggiungere le proprie famiglie, e intanto continuano a filmare l’orrore che incontrano. Scegliendo di utilizzare lo stile della camera a mano Romero sembrerebbe accodarsi alle mode dell’horror moderno, ma la sua operazione è molto diversa da prodotti coevi come “Blair With Project”, “Rec”, “Cloverfield”. Meno gratuita, più fortemente “politica”. “Diary of the Dead” è probabilmente uno dei più riusciti, inquietanti, intelligente atti d’accusa verso la società dei media, un apologo sul potere delle immagini e sull’incapacità oramai assoluta di comprovarne l’autenticità.

Un’emblemtica sequenza tratta da “Diary of the Dead”

La protagonista sopravvissuta ci dice all’inizio che le immagini che vedremo sono frutto di un montaggio successivo agli eventi, cui sono stati aggiunti musica ed effetti sonori: Romero denuncia l’impossibilità di identificare il reale, anche e soprattutto quando le immagini appaiono girate in presa diretta. Nel farlo racconta il potere “sociale” dei media (un network taglia le immagini di un aggressione per dare la colpa agli immigrati), il rischio di diventare, grazie al web (o a causa di esso), tutti “raccontatori presunti di realtà”, l’ossessione di dover documentare tutto, passivamente e senza mai agire.

Uno dei protagonisti, morso da uno zombi, dice all’amica “shoot me!”, che in inglese vuol dire “sparami”, ma anche “filmami”. “C’è un nuovo virus che trasforma in zombi: quello dei mass media” (Mereghetti). Costato appena 2 milioni (lo si vede nei molti effetti digitali che sostituiscono quelli artigianali), è un’altra riuscita parabola sulla società odierna cannibale e priva di umanità. Addirittura, come dimostra l’atroce inquadratura finale che si ricollega in qualche modo all’epilogo del film precedente, gli unici a suscitare davvero la pietas del regista sono ormai soltanto gli zombi.

Nel 2009 esce “Survival of the Dead”, sesto capitolo della saga che, come il precedente “Diary”, è non tanto un seguito quanto una variazione sul tema. In un’isola al largo delle coste del Devonshire, la secolare faida familiare tra gli O’Flynn e i Muldoon prosegue nonostante l’apocalisse zombi: Patrick O’Flynn vorrebbe uccidere tutti i ritornati, Seamus Muldoon si limita a imprigionarli in attesa che si trovi una cura. Sull’isola arriva un manipolo di soldati che si ritroverà ad arbitrare la sfida finale tra le due fazioni. Continua il discorso sulla violenza della società (USA, ma non solo), stavolta con le cadenze di un western ed espliciti intenti parodici. E se le teste che scoppiano sembrano fare il verso agli allegri massacri di Tarantino, la scelta di incentrare il film su una faida familiare sottolinea l’impossibilità umana di coalizzarsi contro un nemico comune e la sua vocazione all’autodistruzione. Perchè proprio il western? Perchè, proprio come i film di Romero, racconta la natura violenta dell’uomo. “Survival” è l’ultimo capitolo possibile di un’esalogia che potrebbe avere come sottotitolo la celebre locuzione homo homini lupus. Il vero pericolo, ancora una volta, non sono gli zombi ma noi vivi. Facciamoci delle domande.

ARIA DI LIBERTÀ: IL “FREE CINEMA
di Francesco Saverio Marzaduri

“La strada dei quartieri alti”, 1959

Sembra ieri: purtroppo lo è. Ma non sembra esser passato più di mezzo secolo dalla nascita del “Free” – nuova ondata culturale, all’epoca, e sola voce rappresentativa di un Paese ancora prostrato dalla guerra – e dell’uscita di due pellicole, “La strada dei quartieri alti” e “I giovani arrabbiati,” che di questa tendenza furono i primi esiti. Tralasciando che alcune abbiano retto la prova del tempo meglio di altre, sono opere che riviste oggi non mettono in luce il fattore di novità che contenevano, oltretutto per un pubblico disabituato alla formula dell’aneddoto proletario consumato tra strade grigie e maleodoranti, backstreets dove raramente s’infila la luce del sole; o della vicenda intimista o psicologica, consumata tra mura domestiche, o nell’interiore scavo di personaggi in difficoltà a relazionarsi con chicchessia. Una formula a cui lo spettatore odierno è abituato da anni, ma dove la fotografia in bianco e nero come scelta estetica restituiva, ai tempi, il senso di difficoltà e di oppressione che la realtà postbellica imponeva quale condizione a prescindere. In tali opere era però determinante il disadattamento di chi assorbiva questa condizione, a un tempo, come volontà di rivalsa camuffata da disturbo inesprimibile, e come scintilla di un modo di pensare e agire che avrebbe portato gli antieroi del “Free,” e del loro Paese d’origine, a figure eponime di una controcultura che nulla avrebbe invidiato alle icone di rottura ereditate dagli Stati Uniti.

Nel ripensare a volti quali Richard Burton o Tom Courtenay, Laurence Harvey o Albert Finney, Richard Harris o Alan Bates, l’odierno pubblico dovrebbe tener presente che ognuno di essi, gran parte dei quali destinati a proseguire e a diventare star del cinema, detengono un’origine, locale e anagrafica, ch’è elemento seminale di una tendenza “libera.” Poco interessa che Burton sia gallese, Harris irlandese, Harvey addirittura statunitense di discendenza lituana e Bates e Courtenay (tra i mille altri presenti nel “Free”) inglesi doc: ognuno di quei volti – come un momento topico al momento giusto – tende all’innato desiderio di strillare un malessere e un disadattamento comuni, sin lì resi impossibili da una realtà soffocante e prevaricatrice. Quel malessere che i discepoli a venire del “Free,” la cui casistica risulterebbe interminabile, dati gli anni e le condizioni in cui il cinema d’impegno sempre più si trasla in una costante imprescindibile, dettata dalla politica e da asperrime conseguenze, da quotidiani stili di vita che debbono far i conti col mutamento dei tempi e da (anti)eroi, ognuno dei quali simulacro di un mutamento crescente e via via diffuso, a macchia d’olio.

Con gli occhi di poi, abbiamo veduto sfilare sullo schermo personaggi come i podisti di college, uno missionario e l’altro ebreo, di “Momenti di gloria”; l’incazzoso emarginato di “Quadrophenia” che nelle tendenze controculturali crede di trovare una propria way of life; i dropout di estrazione proletaria – chi più chi meno destinati a un identico epilogo – presentati da Ken Loach; i giovani disoccupati di Peter Cattaneo che, in perenne bisogno di portare a casa il pane, optano per spettacoli di grana grossa e si dedicano allo striptease; giovani che tentano di distaccarsi dal terrorismo salvo esserne involontarie vittime a causa di un Fato ineludibile; o anche donne di mezz’età che il bisogno costringe a fare le masturbatrici anonime in un peep shop salvo poi, così facendo, rimettere in piedi la propria vita. E tanti altri. Ognuno dei quali, in un’inesauribile passerella, trova collocazione e discendenza proprio nel “Free” e nelle figure che lo permeano: drammatiche perlopiù, alcune dotate però di visioni ironiche del mondo, talvolta pure sognanti e, in una combinazione di sogno e ironia, capaci di abbandonarsi alla fantasia pur sapendola irrealizzabile. Tutti comunque, a modo proprio, impegnati a esorcizzare una grigia quotidiana condizione che pare senza uscita. Lo spettatore-osservatore di oggi non è tenuto a ricordare che il “Free” ha plasmato ognuna di queste tipologie con sensibilità, diversificate ed egualmente fondanti, con un occhio al cinema documentario e uno al teatro del tempo, dove firme “arrabbiate” miravano a colpire al cuore l’ottica sociale vigente, e cercavano di scuotere mirando al bersaglio grosso, cioè al sistema borghese.

Molte di fatto sono le opere letterarie che, in una dinamica di scambio mai più interrotta da allora, passano dalla pagina o dal palco allo schermo, in Inghilterra, di lì in avanti. E più ancora, a offrire visibilità e voce ai socialmente esclusi: dagli “Angry Young Men” di John Osborne alle minacciose figure di Harold Pinter, passando per Dorothy Lessing e John Braine, Shelagh Delaney e Alan Sillitoe, fino a David Storey e oltre ancora Anthony Burgess. Molti di costoro collaborarono direttamente con il cinema, e non solo per il trattamento delle proprie opere: alcuni firmarono sceneggiature, altri fornirono basi all’ipertesto di molte pellicole. Cosicché, enumerabili eroi ribelli delle classi popolari, la working class hero cantata poi da un Lennon figlio di quegli anni (e pure protagonista, a suo modo, di quel cinema) si esprimevano in cockney o nei dialetti di provincia, dalla pagina allo schermo e dallo schermo, di ritorno, alla pagina.

Sarebbe comunque sbagliato non ribadire che il fenomeno “Free” trae le proprie connotazioni non solo dal teatro, ma pure dal documentario; il fatto che l’allora “nuova ondata” inglese abbia seguito il percorso di analoghe altre, in Europa e un po’ in tutto il mondo (la “Nouvelle Vague” e il “New American Cinema Group,” per dirne un paio), dà conto di quella modalità di riprendere il vero nell’hic et nunc, con scarni mezzi e tanta capacità di trovare il bello nel povero, e persino nel brutto, che senza il Neorealismo non sarebbe potuto essere. Mini-prodotti che avevano in comune, prima che un manifesto programmatico, un implicito comportamento: il credere nella libertà, nell’importanza individuale, nella semiologia della quotidianità; nessun film dev’essere troppo personale, le dimensioni sono poca cosa, la perfezione non ostenta in sé stessa uno scopo, un atteggiamento significa uno stile nella misura in cui uno stile sta per un atteggiamento. Piccoli squarci quotidiani, ritagli fotografati e restituiti con sensibilità d’occhio al particolare, che fungono da cellule seminali per direzioni che, di lì a breve, evolvono verso aritmetiche direzioni, sino ad abbracciare progetti più altisonanti di matrice letteraria, quand’anche il “Free” giungerà a un punto d’arresto, benché non rinuncerà mai del tutto a un certo sguardo sul reale.

Inaugurati dal teorico John Grierson, grazie alla cui egida e produzione diversi film maker si fecero conoscere nel ramo, tali shorts sono firmati da gente senza cui il “Free” non sarebbe esistito, né tantomeno avrebbe proseguito la strada del radicale mutamento socioculturale dalla seconda metà degli anni Sessanta in poi. E non si può parlare di questo senza citare nomi in gran parte, oggi, trascurati e dimenticati, quali Lindsay Anderson, Tony Richardson, Karel Reisz, John Schlesinger, Jack Clayton e il futuro pluripremiato e all’epoca giovanissimo Ken Loach. Pur mantenendo ciascuno la propria distinta personalità, insieme si oppongono al conformismo sclerotizzante della produzione british antecedente, e la ventata di aria nuova da essi inaugurata supera i confini nazionali: il ceco Reisz, Richardson o Schlesinger lavorano pure negli Stati Uniti, con alterne fortune, e indiscussi maestri del cinema sentono a loro volta la necessità di coniugare la propria filmografia adeguandosi alla libera tendenza inglese, immettendo la propria politique (si pensi solo all’Antonioni di “Blow Up”). Non va dimenticato che a dirigere una trascurata commedia come “Georgy, svegliati” è un italiano, Silvio Narizzano, come italiana è un’altra cineasta e scrittrice della corrente, Lorenza Mazzetti.

Negli anni del rinnovamento cinematografico in Gran Bretagna, i cineasti del “Free” avvertono l’urgenza d’indirizzare lo sguardo altrove, magari verso temi letterari, come Richardson con “Tom Jones” e “I seicento di Balaklava” o Schlesinger con “Via dalla pazza folla”; e si commette l’errore di considerare queste opere come ancora all’interno del “Free,” quando in realtà sono altro, e la cinematografia britannica si fa magniloquente ma di un tradizionalismo superato (à la David Lean, per intendersi). Dal canto loro, prestigiosi autori non possono non solcare il “Free” dando però alla propria produzione un assetto completamente neutrale, distaccato dalle tematiche d’impiego comune, che con l’inglese d’adozione Losey o l’eccentrico, provocatorio Russell costituiscono una parentesi apolide. Salvo che molti degli interpreti delle loro pellicole sono icone controculturali della tendenza (Courtenay in “Per il re e per la patria,” Bates in “Donne in amore”). Il documentarismo sposato a un sense of humour tipicamente inglese – coronato da un rapido montaggio fatto di stacchi, primi piani, campi e controcampi – permette anche al Richard Lester dei film coi Beatles (e qualche anno dopo col solo Lennon in “Come ho vinto la guerra”) di godere di una piccola ma tenace posizione autoriale nel “Free,” per quanto assai personale.

Eppure, quell’idea di spensierata vivacità riconducibile al periodo della Swinging London, volta a conferire un’idea di ottimismo e imperitura voglia di amore e felicità di cui i Quattro di Liverpool erano i cantori, costituiscono un capitolo a parte in un climax e in un Paese dove sopravvivere alle piccole grandi ostilità della quotidiana esistenza – si tratti di apatia e insofferenza, incomunicabilità o disperazione – sembra animare i personaggi (di preferenza giovani) di film quali “Sabato sera, domenica mattina,” “Sapore di miele” o “Gioventù, amore e rabbia,” e la loro collera a mo’ di denuncia in una società di piacere senza gioia. Per la prima volta, in alcune di queste opere, si parla scopertamente di questioni come l’aborto o il sesso; le situazioni familiari sono indagate con occhio sottile e introspettivo, e se ne colgono i lati più tiepidi e precari; i ménage appaiono esenti da quella serenità rose e fiori, libera dalle convenzioni sociali, e quasi sempre si conducono sul filo di una permanente tensione, pronta a esplodere da un istante all’altro. La volontà di rivalsa esistenziale (e con essa, almeno in parte, di scherzarci su) è atteggiamento più contemplato che reso concretamente, e un tipo come Billy Fisher, che dell’esorcizzazione del proprio quotidiano fa l’unica freccia al suo arco, finisce prigioniero di un’amara rassegnazione dove la risata via via sfuma nell’epilogo sino a prosciugarsi. L’amore potrebbe costituire un’ancora di salvezza in extremis che i personaggi preferiscono ignorare, indotti dalla paura o da comodo escamotage per rifugiarsi nel facile sogno. E quando il riscatto è reso possibile, la forza bruta di piegare tutti e tutto fa dell’individuo un vincitore in superficie quanto un perdente morale verso chi contraccambierebbe l’affetto, se paura, solitudine e complessi di colpa non lo impedissero. Chi avrebbe la possibilità di prendersi una rivincita sulle ingiustizie del Fato, in una gara di corsa potrebbe uscire vittorioso, salvo fermarsi a pochi metri dal traguardo avendo compreso che la sua vittoria legittimerebbe un sistema ipocrita, asservito a una società conservatrice. E c’è chi per ossimoro, come “Morgan matto da legare,” sceglie di non piegarsi al grigio trantran coniugale e resta fedele alla propria anarchia, consapevole che tale atteggiamento, anche tra le mura di un nosocomio, costituisce vittoriosa linfa, e motivo, duro alla sconfitta, di un sentimento incrollabile in chi non può rinunciarvi.

“Gioventù, amore e rabbia”, 1962

Non si creda però che il “Free” sia un cinema di sole figure maschili: il suo universo femminile è dato da figure popolari, da donne spesso non avvenenti ma vere, a volte impacciate, e comunque le stesse che incontreresti per strada in un sobborgo di Londra. Ma pure da bellezze suadenti, sicure di sé, consapevoli rappresentanti di emancipazione sociale, come Julie Christie. Non sempre è detto che i brutti anatroccoli diventino cigni, ma a volte succede: ai volti semplici e timidi dove la dolcezza tra le pieghe restituisce un senso di univoca difesa, come le varie Rita Tushingham, Rachel Roberts, Susannah York, Glenda Jackson, Vanessa e Lynn Redgrave; a esse si contrappone l’enigmatico fascino di Charlotte Rampling, o appunto della Christie. Quest’ultima gioca un ruolo di angelo fortunato, che lo sguardo inquieto e la tempra determinata consentono, coraggio a due mani, di avere un ruolo nella società e una garanzia esistenziale. Lo comprovano “Billy il bugiardo” e poco dopo “Darling,” nel bel mezzo di un’ascesa sociale in cui le tresche sentimentali, anche occasionali, la spuntano su talenti nascosti. Ma anche la giovane bellezza, come quella della sfortunata Carol White, si scontra perenne con la brutalità sorda e prevaricante del maschio, sino ad appassire nello sforzo di sopportare una condizione difficile.

Siamo ancora lontani, benché non distanti, dall’esplosione di anticonformismo e innato desiderio di rivolta che frutterà a “Se…” la Palma d’Oro in pieno Sessantotto. La vena dissacratoria di sapore nichilista del gruppo demenziale Monty Python è a un passo dall’approdo sugli schermi televisivi, nuove frontiere alla ricerca di un nuovo stile personale e distaccato dal precedente rendono filmografie come quelle di Nicolas Roeg o del forestiero Jerzy Skolimowski un’isola inusuale e affascinante. Quanto di quel sapore ribellista immesso nei lavori del “Free,” dagli anni Settanta in avanti in apparenza dimenticato, è origine per un diverso modo di guardare allo spirito del tempo, e a testimoniarlo sono le imitazioni più o meno dichiarate di cineasti statunitensi (il Coppola di “Buttati Bernardo!”, l’Hal Ashby di “Harold e Maude”). Ma soprattutto il pout pourri di cineasti che dal “cinema libero” discendono in maniera inequivocabile: dopo “O Lucky Man!” e “Britannia Hospital,” Anderson comincia ad arenarsi e a scomparire per lasciare il posto, oltreché a Loach, a quei Derek Jarman, Lewis Gilbert, Franc Roddam, Julien Temple, Richard Loncraine, Hugh Hudson, Bill Forsyth, Peter Greenaway, Mike Newell, Stephen Frears, Mike Leigh, Neil Jordan, Michael Winterbottom, Jim Sheridan, Phil Davis, Peter Mullan, lo statunitense James Ivory (fattosi inglese come Eliot ed Henry James prima di lui) ed altri ancora, destinati a lasciare il proprio segno sulla nuova produzione britannica.

Nuovi percorsi, a volte rivisitazioni di vie già sperimentate, nei quali si avverte l’ombra inevitabile delle svolte politiche e dei cambiamenti sociali in atto, delle svolte economiche (e culturali), dove tensione e disordini rispondono ancora a esigenze di rifiuto, ma si fanno conflitto aperto e violento: mina vagante che si fa brillare a sfogo di frustrazione. Ugualmente le parentesi teatrali non mancano, e tra queste piace menzionare “Il servo di scena” di Ronald Harwood, che nell’adattamento diretto da Peter Yates, inerente la costante fusione verità pubblica-privata, consente di ritrovare due volti del “Free,” Finney e Courtenay, che recitano insieme. Più di recente, le scene da un matrimonio, in apparenza incrollabile, di “45 anni” vedono il britannico Andrew Haigh alle prese con le precarietà coniugali, i rancori mai svelati, le inquietudini domestiche e gli equilibri tutto a un tratto instabili della non più giovane coppia Tom Courtenay-Charlotte Rampling, durante i preparativi del loro anniversario di nozze. Un’opera scopertamente incanalata nel solco della senilità, che il volto ancora bellissimo ma segnato da anni di silenziosa rassegnazione della Rampling confessa nel fotogramma conclusivo, nel bel mezzo di una festa che non ha più niente di raggiante. Gli anni della giovinezza anticonformista, spensierata e al gusto di miele, sono ormai sbiaditi come una vecchia fotografia ritrovata dopo anni, origine di una rabbia che non può più ravvicinarsi all’amore. Né alla gioventù.

“Darling”, 1965

MITO, STEREOTIPI E MODERNITÀ: SGUARDI SUL “CINEMA SARDO”
di Sergio Naitza

Certo, non si può parlare di una “scuola” o di un “movimento”, categorie che presuppongono un progetto comune o il cemento di una legge regionale (dal 2010 al 2015 era carta straccia, non ha erogato alcun finanziamento) o di una Film Commission che assolva al suo ruolo o un numero cospicuo di registi e film, ma gli ultimi 16 anni autorizzano – molto timidamente e sottovoce – ad usare almeno la parola “piccola onda”. Dunque l’isola di Sardegna – che occupa i posti di coda nella classifica economica e culturale dell’Italia – è riuscita a tracciare i contorni di un cinema sardo. Grazie a un drappello di registi che ha realizzato film – belli, nuovi e importanti – togliendo la cinematografia isolana dall’angolino in cui era stata confinata. C’è voluto più di un secolo dalla nascita della settima arte, però 115 anni dopo la Sardegna s’è riappropriata del cinema, ha iniziato un percorso autoctono, trovando e rivendicando uno sguardo onesto, sofferto, autentico. Prima, salvo rare eccezioni, non accadeva perché dietro la macchina da presa non c’era la capacità di mandare in sintonia le ragioni di una cultura fondata su un sentimento di identità, di forte appartenenza sociale, insieme alle ragioni dello spettacolo. Perché gli occhi che finora avevano guardato la Sardegna col filtro del grande schermo erano “stranieri” o, come si dice più comunemente, “continentali”: insomma, il trionfo dello stereotipo, della superficialità da cartolina, l’insistere sul fascino esotico e selvaggio, barbaro e ancestrale che hanno tutte le periferie del mondo, di cui la Sardegna è stata (ed è) parte. Invece nell’ultimo periodo la prospettiva s’è capovolta, è nato un cinema sardo fatto da sardi, in grado di parlare anche agli altri. Ma senza costeggiare il provincialismo di bassa lega, anzi scoprendo una forza iconografica e narrativa nuova, fondata su una matrice isolana ma aperta a letture universali.

Dal film “Ballo a tre passi”

Ballo a tre passi” di Salvatore Mereu, vincitore nel 2003 della Settimana della critica alla Mostra di Venezia ha condensato gli sforzi dei primi vagiti del cinema sardo, costruito da Gianfranco Cabiddu, Giovanni Columbu, Piero Sanna, Antonello Grimaldi, Piero Livi, Enrico Pau, Enrico Pitzianti, Peter Marcias, Giovanni Coda (e in tempi non sospetti da Gavino Ledda) dando visibilità ad un fenomeno che ha conquistato l’attenzione dei media nazionali e s’è affacciato, grazie anche alle partecipazioni ai festival, sul versante internazionale. Sette film nell’arco di cinque anni (il momento clou è dal 2001 al 2006) tra molti esordi e qualche conferma sono la certificazione di un risultato inaspettato, figlio di un fermento culturale che ha attraversato la Sardegna negli ultimi tempi, soprattutto con una fioritura di scrittori e musicisti. Il cinema s’è accodato, così “Il figlio di Bakunìn”, “Un delitto impossibile”, “Arcipelaghi”, “Sos Laribiancos”, “Pesi leggeri”, “La destinazione”, “Tutto torna”, “Sonetàula” sono i titoli che hanno raccontato una Sardegna più vera, modificando anche lo sguardo dello spettatore sardo, che non sente più lo schermo come nemico, un riflettere immagini distorte. C’è un riconoscersi e apprezzarsi, un ritrovare una sintonia comune, non sentirsi più vittime di un immaginario a senso unico.

Una drammatica inquadratura del film “La destinazione”

Del resto, a scorrere l’elenco dei film girati in Sardegna o realizzati sulla Sardegna, ci si accorge che sono stati privilegiati e intrecciati due grandi filoni: quello del banditismo e quello del deleddismo (cioè dei film tratti dai romanzi della scrittrice sarda Grazia Deledda, premio Nobel nel 1926). L’immagine simbolo della Sardegna al cinema è sempre stata quella di un mondo chiuso, emarginato, attraversato da vendette, eterne faide, gesta di banditi: un microcosmo dove le passioni sono eccessive e torbide, il peso delle regole familiari detta legge insieme ai codici e alle tradizioni immutabili nel tempo. Assente l’ambientazione urbana, assente la classe borghese o proletaria: la Sardegna è campagna, pecore e pastori, montagna. Luogo di frontiera, un laboratorio di storie forti per quel suo essere universo staccato e fiero, per quei conflitti che nascondono precarietà sociale, sentimenti di solitudine, rabbie ataviche, dolori, senso di colpa e disgregazioni, lotte fra clan familiari. Dietro questa condizione di sofferenza ci sono tante ragioni, dalle invasioni e colonizzazioni che la Sardegna ha subìto nel corso dei secoli (fenici, romani, aragonesi, arabi, piemontesi) che hanno rinchiuso il sardo in una gabbia di diffidenza, alla povertà economica e geografica dell’Isola e alla trasformazione del mondo agropastorale da luogo “bucolico” in teatro di imprese banditesche, un fenomeno che ha marchiato l’Isola soprattutto tra il 1950 e il 1980 con fatti criminosi finiti sulle pagine dei giornali nazionali. Insomma l’ossigeno per le storie del cinema isolano è arrivato dai romanzi della Deledda, così ricchi di incastri narrativi e tracce da letteratura d’appendice ancorate ad una realtà pastorale; e dalla truce cronaca nera, ovvero dal filone banditi-vendette-sequestri. Due tendenze che hanno dentro i codici genetici di due generi molto cinematografici, il melodramma e il western. Ma che non sono mai diventati occasione per costruire un cinema meridionalista, quello che nel dopoguerra col neorealismo poteva imporre l’Italia delle regioni e delle periferie. Occasione mancata perché non ci fu l’incontro tra il grande regista e la Sardegna, come accadde con Francesco Rosi e la Campania o con Luchino Visconti e la Sicilia (si pensi a “La terra trema”). I film d’ambiente e tematica sarda finiscono così per obbedire allo stereotipo che annulla le differenze e omologa tutto sul gusto popolare (qui si parla di cinema di finzione, mentre nel campo documentaristico emerge il nome del sardo Fiorenzo Serra, il cui occhio ha saputo raccontare i traumi di una terra che passava dalla realtà agropastorale a quella industriale).

Eppure almeno nel periodo del muto – nonostante la presenza di molti titoli, perduti, legati a gesta di briganti – la Sardegna aveva dato segnali diversi. Per esempio con “Cenere” (1915), da Grazia Deledda, che grazie all’interpretazione della divina Eleonora Duse portò l’Isola al centro dell’attenzione e della conoscenza. Oppure il moderno “Cainà” (1922) di Gennaro Righelli, girato proprio in Sardegna, ritratto di una donna ribelle e protofemminista, che scappa dall’Isola per amore (salvo poi pagare la sua “colpa”). E l’interessante “La Grazia” (1929) di Aldo De Benedetti che da uno spunto deleddiano – una storia di amore, tradimento e perdono – arriva a creare uno shock visivo tra ambiente pastorale e ambiente cittadino, ovvero tra proletariato e borghesia, mettendo al centro due donne.

Il dopoguerra è sempre nel segno di Grazia Deledda: così “L’edera” (1950) di Augusto Genina pesca nel torbido melodramma, su cui si innesta “Amore rosso” (1952) di Aldo Vergano; e altrettanto fa Mario Monicelli che punta su una passione scandalosa (l’amore di un prete per una compaesana) e su una vendetta familiare per fondere in “Proibito” (1954) i filoni banditesco e deleddiano (quest’ultimo non si esaurirà, allargandosi anche negli sceneggiati tv, fino al 1993, anno in cui la giovane sarda Maria Teresa Camoglio modernizza e stravolge nel film “…con amore, Fabia” lo spunto narrativo della scrittrice premio Nobel).

“…con amore Fabia”

Dagli anni Cinquanta però prende corpo il “cinema dei banditi”, peraltro già frequentato anche da autori sardi, come Mario Sequi in “Altura” (1950) e Edoardo Mulargia in “Le due leggi” (1963). Ma la svolta rivoluzionaria è “Banditi a Orgosolo” (1961) di Vittorio De Seta, descrizione della società pastorale costruita con umiltà e profondità, un senso etico del cinema attento alle connotazioni antropologiche: storia di un pastore di Orgosolo ingiustamente sospettato di furto di bestiame e costretto a darsi alla macchia e diventare anche lui bandito.

Una scena significativa del film “Banditi a Orgosolo”

Un capolavoro che non ebbe epigoni degni: ma il filone non si arresta perché gli anni Settanta coincidono con le imprese criminali (omicidi, faide, sequestri) che fanno della Sardegna un caso nazionale. La storia controversa e rocambolesca di Graziano Mesina, bandito diventato una primula rossa, ispira Piero Livi per “Pelle di bandito” e Carlo Lizzani per “Barbagia” (entrambi i film sono del 1969): è un cinema che vuole essere l’inviato speciale nella società del malessere, provando a raccontare le radici sociali e politiche del banditismo anche da altre prospettive, per esempio con “I protagonisti” (1968) di Marcello Fondato (borghesi annoiati cercano emozioni incontrando un latitante) o l’acuto “Sequestro di persona” (1968) di Gianfranco Mingozzi (che svela i nuovi meccanismi economico-criminali del sequestro di persona).

Il tema è così devastante per i sardi e la Sardegna che anche due registi isolani non cercano altre strade. Ancora Livi con “Dove volano i corvi d’argento” (1974) e, anche quando le imprese criminali ormai non pagano più, l’esordiente Gianfranco Cabiddu in “Disamistade” (1988) ritorna agli anni Cinquanta per ambientare una storia di faida. Ma è un segnale importante, stavolta: si guarda al passato per iniziare a capire e interpretare il presente. Insomma il codice della vendetta è il codice a barre del cinema sardo, un immaginario al quale nessuno è in grado di sottrarsi. Neppure quando lo si affronta in chiave di commedia: lo ha fatto Mario Mattoli in “Vendetta… sarda!” (1951) giocando sulla caricatura da avanspettacolo e soprattutto Luigi Zampa in “Una questione d’onore” (1966) che usa la lente del grottesco con Ugo Tognazzi pastore costretto all’omicidio: un film che i sardi addirittura fecero sequestrare per offesa e vilipendio della sardità. E questo la dice lunga sulla insofferenza dei sardi di fronte ad un cinema che li vuole raccontare, soprattutto se realizzato da “estranei”. Le polemiche tornarono dieci anni dopo (e anche qui i sardi peccarono di miopia culturale) col capolavoro di Paolo e Vittorio Taviani “Padre padrone” (1977): che non era un ritratto offensivo della Sardegna ma prendeva una porzione di periferia del mondo per raccontare una storia di comunicazione universale (il pastore analfabeta fino a 20 anni che diventa glottologo).

Siamo ormai agli inizi degli anni Ottanta, il terreno è fertile per far crescere un cinema fatto dai sardi. Apripista solitario (e forse casuale) è Gavino Ledda (lo scrittore autore del best seller Padre padrone) col sorprendente e poetico “Ybris” (1984), un film selvaggio, visionario, simbolico, anche pieno di difetti, a lungo dimenticato e sottovalutato.

“Ybris” “Il figlio di Bakunìn”

Ma il film spartiacque è “Il figlio di Bakunìn” (1997) di Cabiddu, dal romanzo di Sergio Atzeni (scrittore di valore prematuramente scomparso, simbolo della rinascita di una letteratura sarda): è il primo tentativo di restituire forza corale alla Sardegna, un affresco che abbraccia 50 anni di storia isolana che diventa la ricerca di un padre (metaforico) di una nuova maturità e responsabilità. Non più il particolare (drammi, faide, pastori, eccetera) ma il totale, l’orgoglio di avere un’epopea, un crogiuolo di storie (si pensi al filone mai sfruttato delle miniere e dei minatori), non solo più campagna e montagna ma finalmente anche la città (le ultime immagini sono girate a Cagliari, dove Cabiddu ambienterà totalmente il giallo “Disegno di sangue”, 2006). E’ su questa traccia che il cinema sardo va alla conquista di spazi urbani, allargando i confini geografici che facevano della Sardegna una quinta scenografica con panorami mozzafiato di mare e spiagge (su tutti valga l’esempio di “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” di Lina Wertmuller) generando un filone turistico-esotico.

Così Antonello Grimaldi sceglie Sassari per ambientare il giallo esistenziale “Un delitto impossibile” (2000) ed Enrico Pau trova nei quartieri poveri di Cagliari i luoghi giusti per la minimalista storia di giovani pugili dilettanti in “Pesi leggeri” (2002). E nei quartieri di Cagliari, diventati ora multietnici, vive la commedia (primo tentativo da parte di un autore sardo) “Tutto torna” (2008) di Enrico Pitzianti. Anche l’anziano Livi è di nuovo sul set con l’ambizioso “Sos laribiancos” (2001), le vicende di un drappello di soldati sardi durante la campagna di Russia, mentre due esordienti maturi riflettono ancora sulle vendette che dilaniano la Sardegna dell’interno: sono Giovanni Columbu (2001) con l’intenso “Arcipelaghi” e Piero Sanna con “La destinazione” (2003).

E subito si nota che lo sguardo su temi vetusti ha trovato nuova linfa creativa, rivelando laceranti verità neorealiste, agganci antropologici e il fantasma della giustizia nei piccoli paesi, stavolta visto con gli occhi di un carabiniere della penisola. E poi “Ballo a tre passi” (2003) di Mereu che non ha paura di confrontarsi con le stagioni della vita e chiudendo infanzia, adolescenza, maturità e vecchiaia nel microcosmo sardo, mostra una capacità di stare dentro la tradizione rivoltandola con ironia, poesia e bravura narrativa. E scegliendo una perfetta aderenza al paesaggio e alle persone conferisce al film quella verosimiglianza, quell’onestà che fa dire allo spettatore sardo (e non) “questa è una Sardegna che riconosco”. Del resto Mereu è stato fedele ad una celebre frase di Tolstoj – “parla del tuo paese, sarai universale” – assunta come bussola mente girava il film. E la conferma del suo talento e della profondità nel raccontare la sardità arriva con il grande risultato di “Sonetaùla” (2008), ancora una Sardegna immobile degli anni Trenta e un ragazzo “costretto” dalle leggi non scritte della tradizione a diventare bandito che spiegano però le ragioni di una Isola così legata ai suoi codici culturali. “Sonetàula” salda il debito (e il credito) lasciato da “Banditi a Orgosolo” di De Seta, lavorando su una stessa linea di onestà di sguardo e attenzione antropologica: è la consapevolezza che il cinema sardo s’è fatto maturo, ha preso coscienza di sé. Come aveva profeticamente anticipato lo stesso Mereu nel corto “Miguel”, (1997) quando i pastori si ribellano allo straniero imbonitore e si impossessano della macchina da presa, dando vita ad una forma “indigena” di cinema fatto dai sardi.

Il drappello di registi isolani, dopo il 2008 si è consolidato e ha aggiunto nuovi nomi. Il più prolifico è Peter Marcias, partito dalla gavetta con i corti, e fortificatosi con la docu-fiction, esordisce con “Un attimo sospesi”, girato fuori Sardegna, ma subito torna “in patria” con “I bambini della sua vita” (2010) e in particolare “Dimmi che destino avrò” (2012) e “La nostra quarantena” (2015) dando alla realtà isolana contorni adulti e immergendola nei problemi della crisi, dei rom, migranti e dei giovani senza lavoro. Con alle spalle esperienze nella videoarte, trova la via del lungometraggio anche Giovanni Coda: “Il Rosa Nudo” (2013) e “Bullied to death” (2016), girati nell’Isola trattano tematiche legate all’emarginazione e ai diritti gay, all’omofobia e girano per i festival nel mondo. Marcias e Coda raccolgono premi internazionali, come Mereu che trovando ispirazione in Sergio Atzeni porta sullo schermo “Bellas mariposas” (2012), raccontando la periferia urbana di Cagliari e un sottoproletariato giovanile che cerca una luce di speranza in un mondo di soprusi e violenze.

“Bellas mariposas”

Si segnalano gli esordi di Simone Contu con il visionario (nella seconda parte) “Treulababbu” (2013), la conferma di Columbu che firma “Su re”, 2013, il Vangelo riletto con forza dirompente in chiave popolare sarda (ambientazione, attori e lingua), la conferma di un bel talento, quello di Bonifacio Angius il cui “Perfidia” – girato a Sassari, racconto della generazione dei trentenni allo sbando – è l’unico film italiano in concorso a Locarno nel 2014. Fino al film documentario “Capo e croce – Le ragioni dei pastori”, 2013, di Marco Antonio Pani e Paolo Carboni, capaci di portare alla ribalta le lotte di una categoria sempre vessata. E, ancora, l’esordio di Paolo Zucca che con “L’arbitro”, disegno di una squadretta di periferia sarda e della corruzione arbitrale, ha l’onore di aprire la Mostra del cinema di Venezia nel 2013.

arbitro

Mentre quest’anno (ma sono ai box dal 2015 per difficoltà di trovare una sala) arrivano sugli schermi due film importanti: “La stoffa dei sogni” di Cabiddu, ambientato nell’isola dell’Asinara sulla scia della Tempesta di Eduardo, e “L’accabbadora” di Pau, che rilegge un mito popolare sardo alla luce dei bombardamenti su Cagliari nel 1943.

In quindici anni (2001-2016) si è concentrata la riscossa, gli autori (che assieme a tutte le maestranze hanno dato vita anche ad una associazione libera per difendere il proprio lavoro, vilipeso dalla Regione, chiamata “Moviementu”) hanno saputo far ritrovare sullo schermo storie, ambienti, gesti, volti, suoni e lingue che appartengono alla cultura sarda: e questa è stata la conquista più bella. E’ il risultato di una maturazione progressiva che oggi si presenta come una ricchezza. Per quanto l’età media sia alta (oltre 40 anni) e l’esordio sia avvenuto tardi (Sanna addirittura a 60 anni), sebbene la metà sia andata a studiare cinema a Roma e l’altra sia invece autodidatta in loco, c’è una sfaccettatura di caratteri, di stili, di scelte che rinforza l’ottimismo per il futuro, sperando che questi autori abbiano anche l’aiuto costante e non sporadico della legge regionale: in Sardegna il cinema ha sempre avuto dalla politica un trattamento clientelare, mai un investimento, un progetto a lungo termine in grado di produrre cultura e ricadute economiche. Sentimento comune della “piccola onda” di registi è il legame – stabile e forte – con le radici: c’è chi viene dal paese e chi dalla città e questa varietà ha prodotto come si diceva anche la nascita di film “urbani” che danno una visibilità moderna alla Sardegna. C’è poi un altro legame – importante e vitale, segno di uno scambio nel solco della tradizione – con la letteratura: il film di Cabiddu è tratto dal libro di Sergio Atzeni, quello di Livi dal romanzo di Francesco Masala, Columbu si è ispirato a Maria Giacobbe, Grimaldi a Salvatore Mannuzzu e Mereu a Giuseppe Fiori e ad Atzeni. Da tutto questo cortocircuito culturale emerge una immagine della Sardegna assolutamente nuova, pur restando nei temi conosciuti: si parla di banditi, vendette, miti e riti ma anche di vite moderne svendute, di precarietà urbane, di giustizia da trama gialla. E’ la certificazione di un cinema adulto, che ha preso coscienza di saper e poter raccontare le sue storie specchiandosi in un ambiente e in una cultura ben definiti: un regionalismo che produce una cultura slegata dallo stereotipo, capace di usare una lingua in funzione creativa e non solo antropologica, insomma una periferia che diventa centro. Difficile – data la precarietà e la difficoltà economica che attraversa oggi il cinema – dire se i prossimi dieci anni daranno la patente di “nouvelle vague” sarda a questi registi. Per ora, qualcosa si è mosso: lo schermo del “cinema sardo” ha più dignità. E più verità.

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FRA I MIGLIORI CINEASTI ITALIANI: MARIO BRENTA di Tullio Masoni

Mario Brenta sul set di “Barnabo delle montagne”

In due occasioni recenti, al Cinema Trevi di Roma e al Pompidou di Parigi, Mario Brenta è stato al centro di prestigiosi eventi culturali. Suscitando un notevole interesse, ha presentato a Parigi “Corpo a Corpo”, il film girato durante le prove di uno spettacolo di Pippo Delbono, “Orchidee”, nel 2014.

Come in altre occasioni ultime il cineasta veneziano ha lavorato con Karine de Villers, vera e propria co-autrice anche per “Delta Park”, un film che dovrebbe uscire presto.

Dal film “Corpo a corpo” di Mario Brenta e Karine de Villers

I più attenti ricordano lo splendido, lontano e “anomalo” esordio di “Vermisat” (1974) – la vicenda di un ex-contadino cacciatore di vermi per la pesca, la cui emarginazione dall’insorgente società industriale conduceva alla miseria, all’autolesionismo, alla vendita del proprio sangue – al quale avrebbero fatto seguito, nel secolo da poco trascorso, “Effetto Olmi” (1982), “Jamais de la vie!” (1983), “Robinson in laguna” (1985), “Maicol” – una notte di infelicità a Milano; una giovane donna dai cattivi amori che si dimentica il figlio per vederselo portare dalla polizia il mattino dopo – nel 1988, e “Barnabo delle montagne” (1994). C’era stata, intanto, l’esperienza di Ipotesi Cinema a Bassano del Grappa, la scuola voluta da Olmi con l’appoggio di Paolo Valmarana (Rai Uno) di cui egli sarebbe stato docente e animatore.

Facendo riferimento ai lungometraggi di fiction e al medio “Robinson in laguna” – un “documentario” sulle vite residuali di veneziani che abitano isole fatiscenti – Gian Piero Brunetta così si esprimeva: « Un film ogni dieci anni: questo è il periodo di gestazione di Mario Brenta, forse il più francescano dei registi delle ultime generazioni e quello che ha cercato di metabolizzare al meglio la lezione di Olmi, Rossellini e Bresson (…) In Brenta c’è una ricerca esasperata dell’essenzialità, del rigore; per lui il cinema è una forma di artigianato alto in cui ogni immagine e segno devono avere una necessità assoluta. “Barnabo delle montagne”, tratto dal romanzo di Buzzati, è un grande viaggio a ritroso nella cultura veneta, contadina e di montagna.»

Stando a ciò, si potrebbe pensare a un autore “tradizionale”, legato alla purezza “originaria” del cinema in pellicola; Brenta invece ha accolto le novità del digitale senza esitazioni e con vera curiosità.

Un atteggiamento che lo ha condotto ad analizzare il mezzo, e a sperimentarlo, curando nel contempo la riflessione teorica.

Film come “Calle della Pietà”, del 2010, “Black Light” e il già menzionato “Corpo a corpo” entrambi del 2014, senza trascurare “Agnus Dei” – per la regia della sola de Villers, al quale Brenta si è prestato come direttore della fotografia – testimoniano un ricerca entro la quale il mezzo digitale si rivela come “sollievo economico” e inusitata agilità di scrittura.

“Calle della pietà” di Mario Brenta

“Calle della pietà” prende spunto dall’ultimo giorno di vita di Tiziano Vecellio (come è noto la Pietà incompiuta oggi custodita alle Gallerie dell’Accademia di Venezia fu trovata dai visitatori della casa-studio dove giaceva il cadavere), e il regista applica al lavoro una sorta di archeologia moderna nella quale ( Venezia si presta come forse nessun’altra città del mondo) il passato è sempre visibile e vivo per il presente di chi osserva. Un fatale trascorrere; le rovine delle isole già contemplate in “Robinson” tornano quindi nella pietra consunta della città monumentale, nelle alghe che pendono dalle funi, nel ferro intaccato dalla salsedine, nei gradini a riva, incessantemente battuti dalle onde. Film “archeologico” e di memoria, quindi, ma anche riflessione sul rapporto fra arte e vita, fra caducità dell’artista e sopravvivenza (eternità) dell’opera.

“Blach Light” – del 2014, sempre girato assieme a Karine de Villers, applica l’illuminazione visiva e ritmica attraverso i movimenti di un pittore che sul palcoscenico interagisce (creandole o ricreandole) con immagini riflesse dai suoi gesti e dal corpo. Non come in La piéce, del 2011 – uno spettacolo in dialetto veneto al quale aveva collaborato Giorgio Tinazzi – dove la regia, nei confronti di una messa in scena di teatro tradizionale, agiva col montaggio sperimentando sulla stessa una filmica (e drammaturgica) scomposizione.

Molto interessante infine “Agnus Dei” – diretto come si diceva dalla sola Karine de Villers nel 2014 ( che per di più, su richiesta del padre moribondo, si era decisa a raccontare una fosca esperienza adolescenziale di questi) – perché mostra una sensibilità comune ai due cineasti, un affine senso dei luoghi e della memoria, un approccio condiviso con la materia filmica e la sua organizzazione nelle opportunità che la tecnologia odierna consente.

A proposito del digitale, Brenta – che comunque tiene sempre a confermare l’elezione a maestri di Olmi, Bresson, De Seta, Rossellini e Tarkovskij – riconosce una sorta di “reciprocità”; ossia una occasione dialettica dove la sperimentazione è immediata e imprevista. Tale scoperta, si preoccupa di rilevare, non equivale a un semplice, spontaneo abbandono, ma aggiunge una facoltà di selezione e di sintesi: «…aprirsi alla realtà piuttosto che rinchiudersi nella nostra idea precostituita di essa; andare incontro alla scoperta inattesa e sorprendente dei percorsi di senso sconosciuti o, quantomeno, inattesi, imprevedibili; operare per la fine progressiva della finzione non in quanto “falsificazione” ma in quanto “a priori” sulla realtà e sul come raccontarla.»

Seguendo l’insegnamento di Rossellini e la priorità del fenomeno nei confronti del concetto, infine, Brenta si chiede: «Quali sono i codici che impieghiamo nell’interpretazione dei fenomeni della realtà?», per poi abbozzare una impegnativa risposta: « Parliamo dunque (cinematograficamente) per fenomeni e non per concetti. In modo che il concetto non sia qualcosa di noto a priori nemmeno al suo comunicatore…perché anch’egli scopra nel suo contatto diretto, immediato e libero con il reale un’emozione vissuta e non soltanto immaginata; perché consenta di rivivere la stessa emozione allo spettatore e renda lo spettatore stesso partecipe della scoperta.»

Ma De Seta, gli ha chiesto qualcuno, ha lavorato per i suoi splendidi “documentari” secondo un’economia dei materiali a confronto della quale i nuovi mezzi apparirebbero perfino “bulimici”. A questo Brenta risponde richiamando la durata come discriminante.

Quando lavorava con la pellicola ne usava moltissima per aver modo, successivamente, di scegliere le inquadrature e le sequenze giuste. Oggi, col digitale, le opportunità e la rapidità del lavoro sono molto cresciute, ma l’esigenza metodologico-espressiva di fondo non cambia. Se Tarkovskij stabiliva la durata evitando di far leggere il copione agli attori, Bresson faceva lo stesso col primo piano. Cambia il lavoro col mezzo, quindi, non cambia il rigore col quale il mezzo stesso viene usato.

SAGGI

SULLE DIFFICOLTÀ D’IMMAGINARSI IN SALA D’ATTESA
PER PIÙ DI UNA GENERAZIONE DI SPETTATORI
di Roberto Lasagna

  • Forse non è un caso se soprattutto la cinematografia statunitense è stata in grado di esprimere con evidenza le forme del disagio capaci di essere terreno di incubazione per qualsivoglia forma di depressione pre o post partum. Negli Stati Uniti in cui la terapia di gruppo è pratica collaudata di sostegno al disagio, il cinema, espressione di arte “collettiva”, diviene presto cassa di risonanza e osservatorio privilegiato di attitudini, tensioni, vezzi, inquietudini. I film guardano e registrano il mondo. Soprattutto, marcano i cambiamenti in atto. Donne che fuggono dall’oppressione maschile e ripongono la propria identità nella promessa riparatrice di un altrove lontano, ancora tutto da elaborare e definire (“Alice non abita più qui”, Martin Scorsese, 1974), destinato a rivaleggiare con il ruolo atavico di madre e con gli antichi valori che questo ruolo reca con sé. Spavalde che affermano il punto di vista di “donne in carriera” (è il titolo di un celebre film di Mike Nichols, 1988), oppure ostentano con sicurezza il mito di una libertà di orizzonti che si coniuga, un po’ troppo pericolosamente, con l’assimilazione di abitudini e mosse tipicamente maschili (“Thelma e Louise”, Ridley Scott, 1991). La strada per l’affermazione, non esattamente un processo di individuazione, passa per il confronto con il ruolo di madre, che nella società della competizione è sovente costretto a convivere con altri ingombranti compiti. Il parossismo della donna moderna e ipertecnologica è incarnato dall’eroina di “Alien” (4 film: 1979, 1986, 1992, 1997), esploratrice spaziale che porterà in grembo il frutto dell’inseminazione con una razza aliena(nte): apparente esaltazione dell’autonomia riproduttiva raggiunta dalla donna, nonché raffigurazione della paranoia che sospinge le ritrovate amazzoni cibernetiche. Questo scenario di femmine aggressive è sovente ritratto dai cineasti con colori sulfurei, spettrali. Un inferno in terra che possiamo percepire come il controaltare dell’habitat geografico e mentale per tante disillusioni da parte di uomini smarriti. L’individuo comune delle metropoli, il tassista metropolitano che sconta la sua solitudine tra le strade violente di New York e cova sogni megalomanici in “Taxi driver” (Martin Scorsese, 1976), ha un conto aperto con il passato.

Lui che vorrebbe ripulire le strade dai papponi e dai senatori corrotti, ridare libertà alle prostitute e voce a chi non ha diritti, è un cavaliere oscuro, incapace di liberare se stesso, cioè di dominare le sue ossessioni. Travis, reduce dal Viet Nam, ha un conto aperto con i suoi fantasmi, con quello paterno in particolar modo. Il volto di un giovane Robert De Niro incute tenerezza e scomoda empatia per un personaggio sociopatico, e il suo gesto estremo nel finale del film (la carneficina ai danni, tra gli altri, del protettore interpretato da Harvey Keitel, che pone fine anche al suo doppio persecutorio) è un momento “critico”, le cui sfaccettature etiche, conflittuali e laceranti, hanno condotto ad un profondo dibattito complice la sceneggiatura filosofica di Paul Schrader. Può infatti un sociopatico essere anche un “eroe”? Travis, più propriamente, è nel film un antieroe, porta in scena l’uomo notturno, che si rivolge al suo specchio parlando direttamente con i suoi incubi. L’uomo che non è stato mai in cura da alcun terapeuta, anche perché nessuno si è accorto della gravità dei suoi sintomi. Eppure egli ha covato nell’urgenza delle sue quotidiane allucinazioni il richiamo costante ad un malessere che attraverso il cinema può essere anche medium catarchico. Il protagonista di Taxi driver non ha i mezzi e la consapevolezza per poter essere padre. Come tanti al pari di lui è maldestro. Riesce ad avvicinare la segretaria altezzosa del senatore e la conduce al cinema a luci rosse, dove lei fugge sdegnata, mentre lui non comprende perché lei si alteri. “Perché fai così? Ci vanno tutti!”. Travis è l’emblema della solitudine metropolitana, quasi una figura cristologica che vede l’oppressione e il cinismo e si vorrebbe salvatore; un individuo che non potendo avere figli riesce però a salvare un’adolescente dedita alla prostituzione (Jodie Foster), che un giorno si ricorderà di lui come si ricorderanno di lui i genitori della ragazza che lo ringrazieranno per aver ritrovato la loro figlia persa tra la malavita. In quest’America di ferite, di lacerazioni, di dolori, di figli troppo soli o di genitori impreparati, Hollywood e gli autori intrecciano le loro ossessioni con le vicende della nazione; l’America del melting pot è anche l’America della solitudine, della lontananza. I film dell’indipendente di Akron, Jim Jarmusch, sono un esempio raffinato di raffigurazione del destino di individui esangui confinati nei sobborghi e nelle proprie disillusioni (“Stranger than paradise”, “Mistery train”) e quando persino il più internazionale dei registi italiani, Roberto Faenza, decide di portare in scena un film “all stars” sulle vicissitudini di un ragazzo figlio della buona borghesia americana di oggi, nel suo adattamento del romanzo di Peter Cameron “Un giorno questo dolore ti sarà utile” il regista di “Prendimi l’anima” racconta con delicata partecipazione il disarmante romanzo di formazione di una generazione di figli persi nel vuoto di senso di una realtà di superfici uniformi e luci ovattate, dove i significati latitano e l’individuo comprende a malapena la gravità e il peso delle proprie azioni. In questa omologazione del vedere e del sentire, è possibile rintracciare l’eco di un discorso sull’alienazione dell’individuo che Michelangelo Antonioni affrontò con il suo cinema dell’incomunicabilità (“L’avventura”, “La notte”L’eclisse”, “Il Deserto rosso”) che tracciò di senso la cultura cinematografica e non solo degli anni Sessanta.

Gabriele Ferzetti e Monica Vitti in “L’avventura”

  • E’ dunque sul fronte del cinema mainstream che, di recente, il tema della depressione post partum, per quanto mai seriamente affrontato nella variante paterna (e raramente anche in quella materna, si pensi quasi soltanto all’eccezione rappresentata dal film “L’amore nascosto” di Alessandro Capone, 2007), risulta per così dire circoscrivibile, attraverso alcune pellicole di successo che imprimono il “tono” della rappresentazione comunemente accettata. Si tratta, in un campo di confine come la sociologia del cinema, di segnare un contorno, quello che i film rendono visibile, tracciabile; in altri termini, il cinema delimita quello che la società rende visibile, ciò che autorizza e delimita allo sguardo dei più. Attraverso commedie come “ Doubtfire” (Chris Columbus, 1993), “Nove mesi – imprevisti d’amore” (Chris Columbus, 1995), “About a boy” (Paul e Chris Wetz, 2002), si intrecciano e si riepilogano attitudini, aspettative, stati d’animo. In questi film si discorre d’inadeguatezza, di vulnerabilità. Nei due film diretti da Chris Columbus, l’uomo è posto dalla società sotto osservazione, e la paternità è costantemente minacciata. In “Nove mesi”, l’artista interpretato da Jeff Goldblum sconsiglia allo psicologo dell’infanzia interpretato da Hugh Grant di avere dei figli, perché gli elenca gli svantaggi. In “Mrs. Doubtfire”, viceversa, un padre separato riesce a recuperare la vicinanza dei propri figli amatissimi proprio in virtù della sua arte, della sua capacità camaleontica grazie alla quale si trasforma in governante degli stessi.

Robin Williams in “Mrs Doubtfire”

Dopo tutto, il regista Chris Columbus invita ad andare fino in fondo, a riappropriarsi del proprio ruolo di padre, ad essere artisti di se stessi in quanto artefici del proprio destino e della propria autoefficacia. Governare la sfida della paternità significa affrontare il campo dell’imprevedibile e questo anche un film come “Nove mesi” lo esprime con gusto del nonsense e musicalità mozartiana, ponendo a confronto due interpreti efficaci e sensibili, l’inglese Hugh Grant per la prima volta in un film americano nella parte del giovane psicologo “incinto” della sua fidanzata Juliane Moore, e il ginecologo, lo straripante compianto Robin Williams, un russo esperto di scimmie e prestato agli umani, che offrirà al film le situazioni più esilaranti, dimostrando, in forma pressoché smagliante, l’inadeguatezza degli uomini al cospetto della gravidanza in sala parto. Esilarante è poi l’incidente conseguente alla scoperta della paternità e tutta la sequenza del parto, che contempla i due attori svenire alla vista della siringa per l’iniezione epidurale mentre le partorienti restano urlanti in un clima di anarchia che può far rimpiangere “Nashville” di Robert Altman (1970).

  • L’inadeguatezza del maschio non si accompagna però a tratti di depressione. La depressione, quella vera, quella che avrebbe convinto vent’anni dopo Robin Williams a porre fine ai suoi giorni, è un rischio in qualche modo vicino all’esistenza del protagonista di “About a boy”. Qui si racconta di un quarantenne anaffettivo che non lavora e vive di rendita grazie ai fortunosi proventi di una canzoncina divenuta un long-seller natalizio. Convinto assertore della sua vita disimpegnata, si finge separato e con un figlio a carico solo per continuare ad avere fugaci frequentazioni con le giovani madri che partecipano ad un gruppo di sostegno, le quali a turno lo scaricano togliendogli l’imbarazzo di doverlo fare lui a sua volta. Un giorno il figlio dodicenne dell’amica di una delle sue “vittime” lo prende in simpatia e torna a trovarlo. Nascerà così una relazione di amicizia. Forse la prima relazione vera, sentita, profonda, della sua vita. Si accorgerà a quel punto di aver vissuto soltanto una vita apatica, ad un passo dalla disperazione.
  • Tratto dal romanzo di grande successo di Nick Hornby, “About a boy” conferma una volta di più la commedia come il contenitore più ispirato per le riflessioni sull’individuo contemporaneo, come ben sa Woody Allen nei cui film, coerentemente con il nostro discorso, la figura del figlio è, per il maschio metropolitano, quasi un tabù, risolvendosi o sviluppandosi, il suo mondo espressivo, lungo i temi di una memoria autobiografica che ha i sapori e i contorni dell’eden ritrovato.
  • Ma il cinema di Woody Allen, per altro verso, in oltre quaranta lungometraggi scritti e diretti, dove sono disseminati non pochi gioielli di sintesi creativa (“Io e Annie”, “Manhattan”, “La rosa purpurea del Cairo”, “Zelig”), è anche espressione della messa in forma della memoria corpuscolare, dove l’individuo, le sue nevrosi, il suo narcisismo rinascono al cospetto del presente dell’osservatore contemporaneo, nel segno della testimonianza storica, la stessa per la quale Allen sembra avere molti padri ispiratori (Jerry Lewis, Groucho Marx, ad esempio), mentre non sembra a sua volta riconoscersi in alcun figlio. Un cinema senza figli e senza eredi, dunque. Triste lascito di un grande cineasta. Lascito “depressivo” di un regista che con la sua opera ha fatto del cinema una cura, una terapia riparatoria indirizzata soprattutto ad uno spettatore intellettuale o del ceto medio, ma anche, come si evidenzia ad esempio ne “Il dormiglione” (1973), ad uno spettatore timoroso del presente e a disagio con le donne (che nella macchina masturbatoria posta ad elemento parodistico del film di George Lucas “THX 1138” risolve la sua foga sessuale confrontandosi con un attrezzo).

Un’Immagine di “la rosa purpurea del Cairo”

  • Il rapporto alterato con la natura, il sovvertimento sbilanciato dei ruoli, l’asservimento dell’individuo alle nuove derive tecnologiche. Nei casi migliori il cinema ci parla anche di questo, nell’attesa che anche un aspetto così delicato come la depressione maschile legata al concetto di identità si faccia strada tra i significati e le immagini, attraverso percorsi e opere cui valga la pena soffermarsi e riflettere.

VILMOS ZSIGMOND, PITTORE DI LUCE
di Marco Incerti Zambelli

Per fare in modo che qualcosa appaia in un film nel modo nel quale gli occhi lo vedono nella vita reale , bisogna usare la luce in modo creativo. Locchio vede profondamente nel buio e lontano nella luce forte. Nessuna pellicola o tecnologia digitale può “vederenel modo nel quale vede locchio, così i cinematographers devono sapere come illuminare per creare quellimpressione.

Vilmos Zsigmond

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In una lunga intervista rilasciata a Master of light (1), Vilmos Zsigmond racconta che Robert Altman a Londra si era recato a vedere 2001 “Odissea nello spazio” mentre nella sala accanto era in programmazione “I compari”. Casualmente, nella stessa sera, Stanley Kubrick assisteva al western del collega. I due si incrociarono all”uscita e Kubrick cominciò a chiedere : “Robert, come hai fatto a fare quelle belle riprese con lo zoom, quando la camera comincia a zoommare a stringere e in contemporanea panoramica e finisce in quella bella composizione? L’hai girata tu stesso?” e Altman rispose: “Non lo fatto io, è stato il mio cameraman”

Kubrick sbottò “E tu ti sei fidato?”

“Certo che mi sono fidato , lui ha fatto esattamente nel modo che avrei fatto io se fossi stato dietro la camera, questo è il suo lavoro”

Stanley aveva probabilmente negli occhi la sequenza finale del film, che pare mettere in dubbio la condivisa convinzione della ineleganza nell’uso dello zoom.

Questo contraddice quello che noi diciamo sempre, ma qualche volta funziona essere contraddittori. Non possiamo essere ostinati e dire : non uso lo zoom perché odio lo zoom. Se funziona è ridicolo essere spaventati dallusarlo.

 

Rivedere i tre zoom-in che chiudono il film lo conferma.

https://www.youtube.com/watch?v=4E0RaHH6E_s

Il primo inizia con un piano medio e panoramica a seguire un giovane cinese che dalla chiesa si muove a scomparire dietro un muro, la panoramica continua ad inquadrare il primo piano di un suonatore di flauto (la musica introduce Winter Lady di Leonard Cohen) ed una porta si apre, ne esce una figura che attraversa l’inquadratura da sinistra a destra per svelare l’interno dalla sala da oppio, ed una seconda figura percorre lo schermo da destra a sinistra. Inizia lo zoom a stringere mentre sale la musica, una donna si muove da sinistra a destra e si inginocchia vicino a Mrs Miller, una ulteriore figura attraversa da sinistra a destra a mo” di quinta, la donna allontana la pipa da Mrs Miller e lo zoom continua fino a portare al primissimo piano. La complessa coreografia e l’intersecarsi dei movimenti donano profondità alla scena, segnata da tonalità calde , come in movimento di macchina, ma è l’ingigantirsi del bellissimo volto di Julie Christie che trasmette una sensazione di condivisione della sua tristezza.

Il secondo zoom, semplice e lento, è immerso in sfumature fredde, va dal campo medio al primissimo piano del volto immobile, coperto di neve di McCabe, e gelidamente ne constata la morte.

Un campo/controcampo tra il volto della donna e la pipa introduce allo zoom finale, che porta fin dentro l’occhio di Mrs Miller, melanconicamente persa nei fumi dell’oppio fino alla soffice psichedelia dell’immagine ingigantita dei cangianti colori del fornello che fa da sfondo ai titoli di coda mentre la soffusa dolcezza della melodia della canzone viene soffocata dal rumore del vento, emozionante chiusura dello struggente western di Robert Altman.

La scuola di cinema in Ungheria era interessante. Cerano veramente degli eccellenti professori, dei direttori della fotografia molto buoni ed erano tutto tranne che egoisti. Ci insegnavano tutto quello che potevano. Potevamo esercitarci dopo i corsi, utilizzare il materiale, porre domande.

 

Vilmos Zsigmond, morto l”1 gennaio di quest’anno a Big Sur , era nato nel 1930 in Ungheria, figlio di un famoso giocatore di calcio. Fin dai tempi del Liceo aveva dimostrato una forte passione per la fotografia, organizzando corsi per insegnarne l’arte agli operai della sua città e, a vent’anni, si era iscritto all’accademia di cinema di Budapest dove, un paio di anni dopo, era arrivato come studente Laslo Kovacs. Il sodalizio umano ed artistico tra i due continuò per tutta la vita, portandoli a diventare gli autori fondamentali delle

immagini di gran parte del rinnovato cinema americano a partire dagli anni ‘70.

Da sin- Vilmos Zsigmond e Laslo Kovacs

Da sin- Vilmos Zsigmond e Laslo Kovacs

L’invasione dell’esercito sovietico dopo la rivolta del “56, vide i due amici impegnati in pericolose riprese di quegli avvenimenti e la loro successiva, rocambolesca fuga in Austria con le pellicole nascoste in un paio di valige.

Quel materiale, che ha dato vita al documentario “Hungarn in flamen”, è stato utilizzato in parte per il primo capitolo di “No subtitles necessary . Laszlo e Vilmos”(2009), un prezioso documentario di James Chressanthis che ripercorre la storia dei due amici,(2)

Arrivati negli Stati Uniti all’inizio degli anni ‘60, si ingegnarono con diversi lavori, da tecnici di laboratorio a fotografi per bambini, per poi approdare alla realizzazione di decine di film a basso costo, opere da realizzare molto velocemente con budget irrilevanti, che comunque permisero loro di entrare in contatto con il mondo del cinema off Hollywood. La svolta nel 1969, con la realizzazione della fotografia di “Easy Rider” (1969) firmata da Kovacs ma alla quale collaborò anche Zsigmond, che rivelò di quale straordinario talento fossero dotati. Le panoramiche in movimento sulle moto dei protagonisti, la poetica rappresentazione degli scenari americani, l’innovativo uso delle luci naturali, diedero inizio ad uno stile fotografico che ha dato forma a molto del miglior cinema di quegli anni.

Peter Fonda mi fece vedere più volte Sfida infernaledicendo che voleva fare un film così, vecchia maniera, non un nuovo Easy rider, ma a colori e più realistico, senza quellovvia illuminazione artificiale da studio Hollywoodiano. Questo è esattamente quello che facemmo, Cercammo di renderlo il più realistico possibileBeh, magari un pomeglio del reale.

Una mitica inquadratura del film “Easy rider”

Quando Peter Fonda decise di girare “Il ritorno di Harry Collings” ( The Hired Hand, 1970), Laszlo, impegnato in un altro film, gli consigliò di ingaggiare Vilmos , “ é il mio mentore” gli disse. Le invenzioni visive che costellano il film sono stupefacenti, lunghissime dissolvenze, sovrapposizioni di tre, a volte quattro immagini, controluce e scene notturne, rallenty e fermo immagine in un continuo dialogo che le insinuanti musiche di Bruce Langhorne dipingono (è il caso di utilizzare questo verbo) un western atipico, delicato e melanconico.

Io ho trovato che Altman fosse enormemente creativo, perché gli piaceva una buona fotografia nei suoi film. Gli piaceva sperimentare sempre e così era veramente eccitante lavorare con lui.

Zsigmond ha più volte affermato che fase fondamentale per un buon lavoro è confrontarsi a lungo con il regista prima di iniziare a girare, “quei quindici giorni di scambio di opinioni sono come le prove di un’orchestra prima del concerto” . Per “I Compari” (McCabe & Mrs. Miller, 1971), con Altman concordarono che “sarebbe dovuto sembrare come alla fine dell”800, se avessero avuto il cinema in quei giorni sarebbe apparso sfumato, ruvido, granuloso, e molto morbido e con poco contrasto”. Vilmos mostrò un libro con i quadri di Andrew Wyeth che piacque al regista e poi lo fece vedere al laboratorio di sviluppo, spiegando che per ottenere quell’effetto era necessario sottoporre la pellicola al processo di flashing, una rischiosa sorta di leggera preesposizione con una piccola controllata quantità di luce su tutto il negativo prima di utilizzarlo, che muta la gradazione dei colori desaturandoli e rendendoli più morbidi, e nelle riprese furono aggiunti l’uso di filtri e una forzatura nella esposizione.

Il risultato è il succedersi di esterni impressionisti ed interni rembrandtiani, tra i quali la macchina si muove leggera e libera, mescolando panoramiche , carrelli e zoom in un affresco nostalgico e dolente.

Dal film “Il lungo addio”

Se in “Images” (1972) la decolorazione rasenta la monocromia e lo zoom la fa da padrone, è con “Il lungo addio” ( The long goodbye, 1973) che il sodalizio consegna un altro capolavoro: la macchina è sempre in movimento, anche nei primissimi piani, l’inquadratura si riempie di sorgenti luminose, il controluce conferisce profondità di campo pur nello sfumato che è la cifra costante nella cromaticità del film, le superfici riflettenti regalano una sorta di campo controcampo sovrapposto.

I miei film hanno un aspetto diverso, ho girato Un tranquillo weekend di paura, che è tutto in esterni subito dopo Images” che è tutto in interni, ed è completamente diverso da I compario Complesso di colpa.

Girato in condizioni estreme, dentro e fuori dal fiume, tra i boschi e sulle montagne, “Un tranquillo weekend di paura” ( Deliverance, 1972) di John Borrman ha una fotografia netta , giocata tra il verde e l’azzurro, a dimostrazione della sensibilità di Zsigmond, della sua capacità di entrare in sintonia con la storia narrata, con le intenzioni del regista.

Ne sono conferma le due collaborazioni con Spielberg.

Ho avuto una situazione terribile in Incontri ravvicinati, la produzione voleva licenziarmi più volte nel corso della lavorazione, anche se Spielberg non era daccordo. Non lhanno fatto solo perché non avevano un sostituto che potesse portare a termine il film.

L’alieno del film “Incontri ravvicinati del terzo tipo”

Se in “Sugarland Express” (1973) ritroviamo molte delle soluzioni visive de “Il lungo addio”, con “Incontri ravvicinati del terzo tipo” ( Close encounters of the third kind, 1977) per il quale vinse l’Oscar, il cinematographer rinuncia al flashing ed alla esposizione forzata, la fotografia attraversa tutta la tavolozza dei colori, le immagini sono nitide e definite a conferire una forte impressione di realtà alla vicenda fantascientifica, grazie anche alla stretta collaborazione con gli effetti speciali di Douglas Trumbull, con uno stupefacente uso delle luci in campo.

Mentre giravamo con Michael Cimino I cancelli del cielopensavamo che stavamo realizzando un capolavoro, ma alla fine fu un disastro. Eppure sono convinto che sia davvero un ottimo film.

L’incontro con Michael Cimino con “Il cacciatore” ( The deer hunter, 1978) permette al direttore della fotografia di mettere in campo tutte le sfumature della tavolozza del suo “realismo poetico”: Clairton , la città della Pennsylvania da cui provengono i protagonisti, è rappresentata con toni bluastri, fumosi, nuvolosi, l’interno dall’acciaieria è illuminata dai toni caldi delle fornaci in contrasto con l’Eterno. Le sale del matrimonio si popolano di avvolgenti, morbide luci mentre la scena vietnamita è raccontata con la secchezza di un newsreel. Sulle montagne il sentimento di libertà e freschezza si esprime in immagini nitide, pulite, frizzanti.

Immagine del film “Il cacciatore”

“I cancelli del cielo” (Heaven gate, 1980) risuona dell’eco de “I compari”, ma qui lo sfumato è creato all’interno del film, giustificato dal vero fumo delle stufe o dalla polvere dei cavalli e delle carovane, a disegnare un grande affresco che l’utilizzo del flashing arricchisce di particolari sia nelle zone in ombra che in che in quello sovraesposte, ammorbidendo l’immagine, arricchendola di un tono pastello che rimanda alla atmosfera delle foto dell’ottocento. La macchina si muove con straordinaria eleganza, accompagna protagonisti e comparse tra i paesaggi fiabeschi del Wyoming e nelle strade e nelle case delle città di legno, fino alle mirabili sequenze di ballo, dalle atmosfera impressionistiche à la Renoir della festa di diploma a Harvard, alla calda immersione nella roller skate dance   fino al solitario, commovente Ella’s Waltz

In The Rose ho cercato di ricreare il senso ed il feeling che ti dà un concerto Rock.

L’esperienza con Scorsese, che lo volle per “L’ultimo valzer” (The last waltz ,1978), con Laszlo Kovacs e Michael Chapman, gli servirà per realizzare “The Rose” (1979), di Mark Rydell. L’impronta documentaristica, soprattutto nelle scene musicali, è impreziosita dall’uso cinematografico dei fari sul palco e da un accurato uso delle illuminazioni sul pubblico, come se fosse reso visibile dal riflesso delle luci dello show, facendolo diventare coprotagonista.

La collaborazione con Rydell era iniziata qualche anno prima con “Un grande amore da 50 dollari” ( Cindarella Liberty, 1973), ammirevole esempio, anche come immagini, del cinema off Hollywwod, e proseguirà con “Il fiume dell’ira” (The river, 1984) che gli valse la nomination all’Oscar, giocato tra i riflessi azzurri e marroni del fiume fangoso, immerso nei cieli bigi delle continue piogge, ed il dimenticabile “Trappola d’amore” (Intersection 1994) lultimo buon film che ho fatto è probabilmente The Black Dahlia”.

“Obsession- Complesso di colpa” (1976) è la prima collaborazione con Brian De Palma, contraddistinta da una desaturazione dei colori che toglie smalto perfino alle architetture fiorentine per confezionare l’ambigua atmosfera nella quale si dipana la vicenda.

L’ambientazione notturna di “Blow out” (1981) è attraversata da bagliori rossi e blu che rimandano alla bandiera americana, raddoppiati dall’esplosione dei fuochi artificiali nel sottofinale e se “ il Falò delle vanità” ( The bonfire of the vanities, 1990) si apre con uno strepitoso piano sequenza è con “The Black Dahlia” (2006) che Zsigmond guadagna la quarta nomination all’Oscar grazie ad un uso sapiente di tutte le sue invenzioni visive, dal flashing allo sfumato, al continuo muoversi della macchina da presa in un susseguirsi e sovrapporsi di panoramiche, zoom e dolly.

Scarlett Johansson in "Black Dahlia" di Brian De Palma.

Scarlett Johansson in “Black Dahlia” di Brian De Palma.

Ho lavorato con Allen tre volte, ed il rapporto non è cambiato molto. Woody è un grande scrittore, ed un ottimo regista, è bravo con gli attori, la parte visiva per lui non è così importante.

Zsigmond conferma la naturale capacità di mettersi al servizio non solo della storia narrata ma anche delle scelte del regista. Mettendo la sordina alle caratteristiche più spettacolari della sua cinematografia, fotografa splendidamente la Londra periferica di “Sogni e delitti” (Cassandra’s dream, 2007), disegna con raffinata eleganza la capitale inglese della borghesia e delle gallerie d’arte in “Incontrerai l”uomo dei tuoi sogni” (Yuo will meet a tall dark stranger, 2010) , regala a “Melinda e Melinda” (2006) una “luce dorata e autunnale: ruggine, bruno, marrone, nocciola, color castagna”.

Dal film “Melinda e Melinda”

Credo che la fotografia cinematografica stia perdendo la caratteristica di arte, sommersa dagli effetti speciali. Continuo comunque a fare cinema, perché amo la fotografia, amo fare le riprese, e provo gioia nel farlo.

Nella sua carriera Vilmos Zsigmond ha lavorato a più di cento film, ha fotografato anche per la televisione, “Stalin” (1992) di Ivan Passer con Duvall nella parte del dittatore sovietico, “Le Nebbie di Avalon” ( 2001) di Uli Edel e tutti i 24 episodi della prima stagione di “The Mindy Project” (2014), ha realizzato documentari e commercials.

La filmografia più accurata la si può ritrovare qui

http://www.cinematographers.nl/PaginasDoPh/zsigmond.htm

Non penso che abbiamo più avuto la possibilità di fare qualcosa di così buono come negli anni 70. In quegli anni veramente abbiamo fatto qualche grande lavoro.

 

 

(1) Masters of light. Conversations with contemporary cinematographers.

Dennis Schaefer. University of California Press. 1986

(2) Il film si può vedere qui.

http://ffilms.org/no-subtitles-necessary-laszlo-vilmos-2008/

E” divertente e curiosa la puntata del vulcanico chef Antony Bourden, autore di serie televisive sulle cucine di tutto il mondo che in un episodio del 2013 ha voluto farsi accompagnare da Zsigmond, di cui è grande estimatore, alla scoperta di Budapest.

https://www.youtube.com/watch?v=ItNDDe_SBec

A Cannes è stato presentato quest”anno un accurato documentario di Pierre Filmon , “Close encounters with Vilmos Zsigmond” sull”intera opera del direttore della fotografia.

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FEDIC, LE PERSONE E I FATTI

FILMMAKER ALLA RIBALTA: ENRICO MENGOTTI di Paolo Micalizzi

Enrico MengottiIl suo primo film è un cortometraggio a soggetto e riguarda il dramma del terremoto in Friuli del 1976. S’intitola “Perché” e viene presentato nel concorso interno del Cineclub Fedic Venezia al quale  quell’anno si era iscritto. E’ un’opera  in super8 che diventa un importante documento storico perché contiene ampie scene girate  a poche settimane delle scosse  di terremoto avvenute nel settembre di quell’anno.  Mengotti, come ebbe a raccontare. potè girarle perché “ era crollata anche la mia casa d Moggio. Quindi  feci opera di volantariato notturno nell’unica cabina telefonica del paese  stando  in piedi tutta la notte per passare quelle drammatiche telefonate. Sentiì cosi l’urgenza di raccontare, con le immagini  di un  film quello che stava accadendo. Scelsi Gemona perché era l’epicentro del sisma.

Lo storico  Carlo Gaberscek ebbe a scrivere su il “Messaggero veneto” del  29 marzo 2008  che trattasi di “Una storia fondamentalmente semplice, con una forza interna capace di comunicare sentimenti, emozioni, stati d’animo, atmosfere.

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Enrico Mengotti con lo storico Carlo Gaberscek a Gemona durante la presentazione al pubblico del film “Perché”

Un racconto breve, dotato di ritmo, immediatezza, forza d’impatto.E viene anche  sottolineato che si tratta dell’unico film girato tra le macerie del terremoto, di un piccolo gioiello in super8. Dura 22 minuti, e la scena più intensa, dichiara l’autore, è una sorta di flashback  In cui il protagonista, quasi  a cercare di vincere la morte, rivive una seconda celebrazione del matrimonio con l’amata. L’azione è ambientata tra le rovine del Duomo di Gemona con gli sposi( Franca Vianello e Lucio Zanverdian) inginocchiati davanti all’altare semidistrutto mentre trascinanti panoramiche verticali sulle pareti squarciate si elevano con la forza di un’implorazione. E grande potenza visiva ha anche la scena successiva, con gli sposi dapprima inquadrati davanti al portale del Duomo, poi seguiti dalla cinepresa fino all’ingresso di ciò che fu la loro casa. Un’opera che diventa l’icona della Cineteca del Friuli dove l’autore l’ha depositata. Nel 1980, Enrico Mengotti fa il suo esordio a “Montecatini Cinema Fedic”, Festival che dopo frequenterà più assiduamente, con il film “Il vincitore” che racconta un episodio di vita partigiana, con protagonisti un soldato tedesco(Guido Mattolin) ed una contadina della montagna friulana(Maria Rosa Casarin), realizzato con l’efficace fotografia di Ernesto Barosco. Un’opera , secondo la critica, che è un’allegoria pacifista della solitudine umana, acuita dall’esplosione  di avvenimenti eccezionali. E pervasa da un sentimento di angoscia e di fatalità.” Un’opera, scrisse Francesco Valvassori su “Diario” del marzo 1980 , ove era facile infilarsi nel banale, nel puerile o nel ridicolo come purtroppo spesso abbiamo dovuto constatare in questi lunghi anni, niente di tutto questo. Una lunga sequenza ove il suspense è mantenuto senza cadute, essenziale e gioca favorevolmente su una sobria ma controllatissima ed attenta regia, un costante ripensamento a livello introspettivo, accompagnato dalla sorprendente bravura degli interpreti”.

Il 1980 è un anno importante nell’attività di Enrico Mengotti.  Organizza, infatti, a Treviso il Primo Congresso dei Cineclub del Triveneto. Due giorni d’incontri sul tema : “Il cinema non professionale: problemi, impegni, prospettive”, al quale hanno partecipato otto province. L’intenzione era di creare un primo razionale contatto tra i vari operatori del cinema a formato ridotto. Nella sua relazione introduttiva Enrico Mengotti  sottolineava l’importanza di una approfondita conoscenza fra i rappresentanti dei vari Cineclub, definendo il Cineclub, ancora “ uno dei mezzi più puri per avvicinarsi al cinema: puro in quanto assolutamente al di fuori di ogni  legge di mercato del cinema professonale”. Che va inteso,  continuava  Mengotti, “come mezzo rivolto alla promozione sociale, politica e culturale al di fuori di qualsiasi interesse imprenditoriale che segue esclusivamente le leggi di  mercato sacrificando ogni forma d’arte e di ricerca atta a trovare un nuovo linguaggio cinematografico, relegando il cinema a mero spettacolo di baraccone che sforna sogni e relax per il sabato sera con la famiglia”. E spezzava  una lancia  a favore “di  un cinema che senza paura si può definire ‘povero’ in quanto le possibilità  tecniche ed il formato sono  limitate, ma ricco in quanto il mezzo di espressione, il discorso filmico si avvicina  sinceramente a noi’, aggiungendo poi, dopo aver affermato che “l’epoca dei miti di Hollywood è finita cosi come sono finiti i miti dei divi sul piedistallo d’oro”, che “ oggi il cinema( e molti grandi autori lo fanno) deve essere verità, deve essere decentrato, singolo, e per singolo si intende che deve rispecchiare i problemi di un determinato ambiente a noi vicino, esempio il Veneto”. Spiegando cosi il motivo del Congresso triveneto con la presenza di un Cineclub per provincia. “Non un incontro competitivo ,ha affermato, ma uno sprono perché ogni cineclub si faccia partecipe dei problemi e delle iniziative riguardanti la propria area e le traduca in linguaggio filmico il più vero e reale possibile”. E qui  invitava  le televisioni private a saper cogliere il valore e il significato del lavoro dei Cineclub ed invitava  gli Enti ,locali, comune e regione, a farsi partecipi ed a  collaborare con i Cineclub per una produzione non solo filmica ma anche didattica al fine di far conoscere alla cittadinanza il linguaggio cinematografico, ciò perché “il cinema non deve essere più un fatto di élite, o un’arte magica di pochi eletti, ma bensì una nuova forma di linguaggio comune a tutti”. L’invito quindi all’ente locale, i comuni, a promuovere corsi di tecnica e linguaggio cinematografico, ad aprire cioè le porte del cinema, considerate ancora sacrario, a tutti”.  Un’esigenza espressa anche dal critico cinematografico Roberto Ellero, funzionario dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Venezia che auspicava anche la realizzazione di una rassegna di film non professionale per far conoscere alla cittadinanza la produzione dei Cineclub.

Un Convegno importante che nel 1981  ha dato origine, organizzata proprio da Enrico Mengotti, alla “Prima rassegna del cinema non professionale. Il film a soggetto” di Mirano. Quattro giornate di proiezioni in cui sono state presentate, dopo un’accurata selezione, 32 opere provenienti da tutt’Italia. Una Rassegna che è andata avanti per cinque edizioni aprendosi, nell’ultima, anche alle esperienze nella Scuola. L’obiettivo futuro era di aprirsi ad una dimensione europea, ma causa i risultati delle elezioni politiche la VI edizione non vide mai la luce.

libroNel 1985 nasce però la prima edizione di “Veneto Film Maker” grazie al “Circuito Cinema del Comune di Venezia, guidato dal critico Roberto Ellero, che si avvalse del patrocinio del SNCCI(Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani).Una Rassegna non competitiva di cinema indipendente, cui hanno preso parte tredici opere( video, super8,16mm.) selezionate, da  una commissione di critici, tra le 45 pervenute all’organizzazione. Tra   queste , “Manicomi per impazzire” di Enrico Mengotti, girato nell’isola di San Clemente a Venezia, sede dell’allora manicomio veneziano, oggi diventato un albergo a 5 stelle. Su questo film Cinzia Baldazzi su “Cineclub quotidiano” del Festival di Montecatini Terme del 12 maggio 1984  ha scritto: “ Questo video ha il pregio di gettare immediatamente lo spettatore nell’angoscia e nelle sofferenze umane insite nel problema clinico dei disturbi mentali”.

In precedenza, Enrico Mengotti aveva realizzato altre opere. Del 1982 è “Il militante”, che è stato presentato al Festival di Montecatini; una fiction sul fenomeno del  terrorismo in Italia e sui metodi di reclutamento. Nel 1983, Enrico Mengotti realizza un film di particolare importanza ”  Due volti della Resistenza: Porzus”, video- inchiesta che viene presentata a “Valdarno Cinema Fedic” 1983. Si racconta del tragico eccidio alle malghe di Porzus, episodio fra i più amari della guerra di liberazione che rivelò gli aspetti più contraddittori e drammatici della Resistenza.  Fra le vittime, anche il fratello di Pier Paolo Pasolini.

Su Porzus nel 1997 venne presentato  alla Mostra di Venezia un film di Renzo Martinelli che era finanziato dallo Stato, come sottolinea nel suo articolo su “Il Giornale” Maurizio Cabona, con tre miliardi e seicento milioni. Nell’occasione, Enrico Mengotti intervistato dal giornalista  ricordava il suo mediometraggio del 1983 e si rammaricava che su di esso era calato subito il silenzio. “Ho pensato di realizzare un film  sulla strage di Porzus, spiegava Mengotti, perché  avevo uno  zio partigiano osovano, Romano Zoffo, nome di battaglia Barba Livio, trucidato il 29 aprile 1945 dai cosacchi di Hitler per salvare Tarcento” . E faceva vedere al giornalista un diario, un libricino ingiallito fitto di annotazioni sintetiche dalla calligrafia precisa e fine: l’ultimo appunto è del 7 febbraio 1945, proprio il giorno dell’eccidio di Porzus.

articoloIntanto nasce il figlio Emanuele ( filmmaker che oggi raccoglie consnsi in USA) ed Enrico si dedica soprattutto alla famiglia, trascurando il cinema. Riprenderà l’attività filmica nel 1997 con il video “L’isola che c’è” girato con i bambini della V elementare di Malamocco(Venezia) che interpretano se stessi, nell’isola di Poveglia ,una delle isole abbandonate della laguna, lasciata all’incuria. Del 2008 è “Doppio binario”, storia di una coppia senza figli, dove il marito stufo dei tradimenti della moglie s’inventa un figlio che alla fine sconvolgerà la vita di entrambi. Venne presentato alla “Casa del Cinema” di Venezia intitolata a Francesco Pasinetti.

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Del 2009 è “ Nino e Nina”, un cortometraggio  che racconta la vicenda di un uomo ed una donna che, dopo aver conosciuto entrambi il dolore di uno sfratto improvviso, s’incontrano per caso nei pressi di una panchina. Ne nasce una bella amicizia e cominciano a sostenersi nell’affrontare i numerosi disagi che una vita di strada comporta.  Nel ruolo dei due protagonisti Rossana Molinatti e Fausto Muta che con la loro spontaneità danno una prova di grande bravura. Per questa sua interpretazione Rossana Molinatti ha ricevuto a “Valdarno Cinema Fedic “ 2009 il premio per la migliore attrice.

Si gira “Nino e Nina”

Sempre del 2009 è il  video-inchiesta  sull’affondamento della motonave “Giudecca” avvenuto a Pellestrina il 13 dicembre del 1944. Fu realizzato in occasione della celebrazione del 65° anniversario di quel giorno drammatico per la comunità isolana. Nel darne notizia della sua realizzazione, Lorenzo Mayer(“ Il Gazzettino”, 13 ottobre 2009) rivela che il film si sviluppa su due piani sequenza: tra interviste a chi quel giorno c’era, e ricostruzione storica di quel tragico evento, pochi minuti prima dell’affondamento da parte di aerei anglo-americani. Precisa poi che la ricostruzione storica, attraverso una fiction con immagini in bianco e nero, cerca di essere il più fedele possibile e potrà essere ripercorsa scenograficamente grazie alla collaborazione di Franco Scarpa Barche( all’epoca aveva dieci anni e ricorda lucidamente quel giorno) e dalla popolazione di Pellestrina (merlettaie, pescatori, bambini delle scuole elementari dell’isola). Oltre alla consulenza storica del  professor  Sergio  Ravagnan di Chioggia, alla realizzazione del film contribuiranno, inoltre, Maria Grazia Belluomini (moglie di Mengotti) per la sceneggiatura e Rossana Molinatti  per le riprese: due filmmaker che in più occasioni hanno  dato un valido contributo nei film di Enrico Mengotti.

Enrico Mengotti con due superstiti della motonave “Giudecca” intervistati per la realizzazione del video-inchiesta

Obiettivo del film, veniva sottolineato  era di contribuire a non cancellare la memoria di quel giorno anche tra  i ragazzi e che, soprattutto per le giovani generazioni, diventi un monito alla pace e alla concordia. Un forte monito, secondo il regista, contro errori ed orrori della guerra, ripudiando la violenza. Un messaggio recepito dal pubblico che alla proiezione, come informa “Il Gazzettino”, rimase colpito dalle parole e dai volti di sette sopravvissuti a quella strage di innocenti.

Nel 2011 Enrico Mengotti realizza “L’ultimo corsaro”, film che s’impernia sulla figura di un autore/ disegnatore di fumetti di Malamocco (Lele Vianello) in crisi d’ispirazione, che interpreta se stesso dentro una storia in cui si afferma la sublimità della fantasia. Un film delicato, secondo Piero Zanotto(“Duemila”, maggio 2011), “ dall’intreccio di squisito sapore surreale, tra realtà e sogno”.

Si gira “L’ultimo corsaro”

L’ultimo suo film, per ora, è “La Dogaressa”, film in cui, ancora secondo Piero Zanotto(“Duemila”, dicembre 2012) si sentono gli echi profondi della celebre frase  shakesperiana dell’”Amleto” :” C’è del marcio nel regno di Danimarca”. Nello stesso articolo, il critico  informa che il titolo, “La Dogaressa”, porta sapori lontani e ancora sentiti nella Venezia dei giorni nostri, emblematicamente rappresentati dall’anziano protagonista che in esso, come nella vita( attore Fausto Muta) veste i sontuosi abiti del Doge per figurare durante il corteo storico di “bissone”( barche da parata) dell’annuale  Regata su Canal Grande. C’è del marcio nella famiglia del Doge, ed è lui da pacioso egoista a incarnarlo. Corruttore delle donne di casa, una delle quali fuori di senno col sogno di cantare alla Fenice( si tratta nella realtà del soprano Marina Bontempelli) si esprime sempre cantellinando con frasi d’opera, durante una crisi uccide la madre e soccombe subito dopo per sincope. Ma alla fine, prosegue il racconto di Zanotto, come in Amleto muoiono tutti per avvelenamento, pure il vecchio finto Doge( era scappato da casa prelevando gli ingenti risparmi di famiglia) farà la stessa fine, per mano della giovane( d’ambigua nascita) chiamata da tutti con ironia Dogaressa: la sola a sopravvivere. Esce di scena col malloppo salendo su un aereo che da Venezia  la  porterà in un paese dove non esiste estradizione. Piero Zanotto conclude che “Mengotti, filmmaker di mano sicura, in questo film  affronta “un tema sconvolgente”.

Un’immagine del film “La dogaressa”

Una ventina ancora i film di Enrico Mengotti, oltre a quelli segnalati che lui ritiene tra i più importanti della sua attività di filmmaker. Da citare ancora, tra essi, un’opera particolare, che è stata presentata a Coingressi medici internazionali. Ci riferiamo a “Fatti di tango: una terapia”, video- inchiesta sul tango come terapia del morbo di parkinson, girato nel 2014 nella scuola “Tango park” di Mestre con la consulenza del dottor Michele Zecchin di  Venezia.

Venezia  sarà ancora la location  di un altro film di Enrico Mengotti per il quale sta scrivendo la sceneggiatura. Ancora un film ispirato dalla città in cui è nato e vive.

L’AIRONE DEL MISFF VOLA VERSO CIELI INTERNAZIONALI
di Marcello Zeppi

MISFFIl MISFF (Montecatini International Short Film Festival rivolge sempre più la sua attenzione ad una dimensione internazionale e tende a radicarsi maggiormente nel territorio di Montecatini Terme. In quest’ottica, dal 2015 il MISFF ha una nuova immagine: un airone( simbolo di Montecatini che era   stato rielaborato dal celebre illustratore e scenografo Lele Luzzati)di pellicola colorata che avvolge la città. La nuova immagine, realizzata da un giovane disegnatore fiorentino, Lorenzo Ghignone, rispecchia meglio l’idea del festival di oggi: il cinema, con la sua sorgente creativa, avvolge l’intero territorio.

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Airone di Emanuele Luzzati 2

Airone di Emanuele Luzzati 2

Oggi poi l’Associazione Montecatini Cinema ha una vasta rete di partner internazionali. Una forte collaborazione è stata creata con Avanca Film Festival (Portogallo), Festival di Cinema Prolog (Ucraina), Festival di Cinema Kinoproba (Russia), Università Statale di Cinema, Teatro, Televisione di San Pietroburgo, etc.

Una novità importante del 2016 è il partenariato con il Festival Internazionale du Film sur l’Handicap (Francia).Infatti, MISFF è diventato il partner ufficiale di questo Festival , la cui prima edizione avrà luogo dal 16 al 22settembre 2016 a Cannes (Francia). Si tratta del primo Festival internazionale del film sulla disabilità. Creato su iniziativa di Katia Martin-Maresco, direttore del FIFH e Marie-Hélène Delon, segretario generale di “Diverso … come tutti gli altri”, questo evento culturale mira a riunire le donne e gli uomini che partecipano alla promozione della differenza creativa e del talento emotivo e cittadino. Il festival si propone di mobilitare i creatori, attori, registi, produttori, pubblico. Un partenariato è stato ufficialmente registrato con il CNC, i cinema Gaumont Pathé, Agnès b. e la città di Cannes e con le città che hanno deciso di ospitare il treno del Festival: Amiens, Cannes, Lille, Lione, Marsiglia, Montpellier e Parigi.

Il cinema sta cambiando. La questione della disabilità si rivela inevitabile. La descrizione audio, accoglienza dei sordi, sale con accesso universale, un piano di assistenza ai film, la partecipazione delle persone disabili…

Una conferenza stampa, svoltasi il 7 gennaio 2016 presso il Teatro delle Gaite a Parigi, ha segnato il lancio ufficiale del Festival internazionale del film sulla disabilità e la partnership MISFF-FIFH.

Un’altra conferenza stampa ha avuto luogo a Cannes, il 13 maggio 2016, durante il festival di cinema. Diverse altre conferenze stampa sono previsti sul percorso del treno Festival.

Marcello Zeppi (Presidente MISFF) alla conferenza stampa del 7 gennaio 2016, Parigi

Marcello Zeppi (Presidente MISFF) alla conferenza stampa del 7 gennaio 2016, Parigi

Infatti un “Expo Train Du Cinemà sur l’Handicap” partirà da Copenaghen il 5settembre 2016 e attraversando diverse nazioni-partner arriverà il 16 settembre a Cannes. MISFF sarà a bordo con i propri film.

Il treno è composto da diverse carrozze: una carrozza con sala di proiezione dove saranno programmati i film accessibili a tutti, un’altra carrozza sarà dedicata ad una mostra fotografica, un’altra carrozza ospiterà un salotto e sala per le conferenze.

Una volta fermato il treno, le porte si apriranno e inizierà l’evento che coinvolgerà tutta la città, fino a quando il treno ripartirà. E’ previsto che diverse associazioni locali saranno presenti presso gli stand lungo il binario per avviare il dialogo e la sensibilizzazione del pubblico. A seconda delle possibilità offerte dalle stazioni, i film saranno anche proiettati in sala d’attesa per i viaggiatori.

Vista la multinazionalità del progetto, che unisce diversi paesi europei, abbiamo ritenuto la partecipazione del MISFF fondamentale per promuovere il cinema italiano, anche nel settore strettamente dedicato alla tematica disabilità. Il tema della disabilità attualmente interessa diversi autori anche italiani, che riescono a raccontare, creare le opere ad alto valore culturale e artistico. Il progetto del cinema sull’ handicap ha come approccio la promozione della creatività trattando il tema non facile di inclusione dell’ handicap.

Grazie a questa collaborazione il pubblico europeo vedrà un programma del cinema italiano dedicato al superamento delle barriere fisiche, morali, psicologiche utili non solo per disabili, ma motivanti per qualunque persona. Il programma è stato selezionato dalla nostra commissione artistica, tenendo presente la idoneità tecnica ed alto valore artistico, culturale e spettacolare.

L’attività del MISFF tende poi a svilupparsi internazionalmente secondo alcune linee principali.

Collaborazioni internazionali pluriennali

Il MISFF collabora attivamente con diverse scuola di cinema, Cineclub e Festival di Cinema con le quali organizza master class e workshop professionali, con l’obiettivo di aumentare lo scambio culturale nel campo cinematografico a livello internazionale, creare e diffondere nuovi parametri e standard (modelli) di co-produzioni e progetti internazionali.

Festival di Cinema di Avanca (Portogallo)

MISFF è il partner pluriennale di Avanca Film Festival. Si è stabilita una forte collaborazione con Avanca Film Festival, che include lo scambio della programmazione e la organizzazione di laboratori e master class. Ogni anno Avanca Film Festival mostra il programma del cinema corto italiano selezionato dal MISFF per il road-show internazionale e lo promuove in Portogallo.

Da sette anni nell’ambito dell’Avanca Film Festival viene organizzata la conferenza “Avanza Cinema” interamente dedicata alla ricerca nel campo di cinema. Quest’anno MISFF parteciperà alla conferenza Avanca Cinema con la lezione “Costume e Cinema: La scuola italiana di stilisti di costumi per cinema”, che sarà pubblicato nel libro della conferenza.

Partecipazione ai mercati di cinema

Partecipazione ai mercati di cinema

Importante per MISFF è la partecipazione annuale con uno stand di cinema italiano (Italian Short Corner) all’International Short Film Festival di Clermont Ferrand, uno dei più grandi festival e mercati del cinema corto nel mondo. La partecipazione al mercato del cortometraggio dà la possibilità di attrarre pubblico internazionale al MISFF, selezionare le migliori opere europee ed internazionali per il MISFF, effettuare lo scambio culturale con enti ed istituzioni di cultura cinematografica provenienti da tutto il mondo.

russiaCollaborazione con l’International Motivational Short Film Festival (Rostov sul Don, Russia)

Per il secondo anno partecipiamo al IMFF dopo aver presentato l’anno scorso il film “Fabrizio Misce Caselli: un Atleta, un Eroe… un Uomo”, quest’anno porteremo una selezione dei film italiani maggiormente rappresentativi di questa edizione del festival.

Collaborazione con gli Istituti Italiani di Cultura

Importante è anche la collaborazione con gli Istituti Italiani di Cultura. Il 26 marzo 2016 è stata organizzata una presentazione del MISFF 2016 presso l’Istituto Italiano di Cultura a Mosca. Dopo la presentazione è stata proiettata una selezione dei film italiani dalla selezione MISFF2015, seguita dalla discussione con il pubblico. L’evento era gratuito. Il pubblico presente era giovane, composto da studenti delle scuole di cinema, studenti dei corsi di lingua italiana, giornalisti.

Quelle succitate sono collaborazioni volte a dare una solida reputazione ad un Festival internazionale qual è il MISFF, mantenendo una costante evoluzione Attuando strategie di collaborazione innovative che guardano ai problemi della società, trovando, in collaborazione con i partners internazionali soluzioni adeguate grazie ai programmi, progetti, scambi interculturali e azioni.

Per questo vengono selezionati cortometraggi, documentari, animazioni di produzione italiana in cui le opere prime compongono una buona parte della programmazione. Si tratta di opere sempre selezionate con criteri severi di idoneità tecnica e di alto valore culturale, artistico e spettacolare.

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CARLO VERDONE MATTATORE AL “VALDARNO CINEMA FEDIC” 2016
di Paolo Micalizzi

valdarno cinemaA “Bellissima” di Alessandro Capitani il “Marzocco 2016” intitolato a Marino Borgogni, compianto Presidente di “Valdarno Cinema Fedic”. Secondo la Giuria (il produttore Marco Martani, presidente; l’attore Giulio Scarpati e il critico cinematografico Boris Sollazzo: protagonisti di tre distinte masterclass sulla loro attività), verdetto che si può condividere, è la migliore opera in assoluto, tra le 27 in competizione, della 34. Edizione di “Valdarno Cinema Fedic”, svoltasi a San Giovanni Valdarno dal 3 all’8 maggio. Un corto di 10 minuti che subito prendi in simpatia per il caratteristico faccione di Giusy Lodi premiata giustamente con il “Giglio Fiorentino d’Argento”  come migliore interprete femminile. Dà  volto a  quello di Veronica, imprigionato in un enorme corpo obeso, che in discoteca viene presa in giro proprio per il suo aspetto fisico. Rinchiusasi disperata, per errore, nei bagni degli uomini della discoteca, il suo pianto attira l’attenzione di un ragazzo che viene affascinato dalla sua voce. Lei, ripetendo a se stessa che è bellissima, si fa convincere a uscire dalla sua “prigione” per incontrare il ragazzo, ma questi vedendola fa però finta di niente. Nei bagni  però è presente un  altro ragazzo che invece gli sorride, e ne nasce un’intesa. Un’opera che punta su quest’equivoco facendo capire alla ragazza che in fondo può piacere.

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Giusy Lodi il “Bellissima”

Giusy Lodi è stata premiata perché “In soli 10 minuti con talento e misura riesce a modulare la sua espressività su una vasta gamma di registri differenti facendoci conoscere Veronica e permettendo a tutti noi di perdere la testa per lei”, mentre il film ha avuto il massimo riconoscimento del Festival “Per il rigore e la fluidità della scrittura unita a una capacità di narrazione per immagini, essenziale ma efficace, gestita perfettamente nei ritmi, nei movimenti di macchina e nella valorizzazione degli attori”. Premiato con un “Giglio Fiorentino  d’Argento” anche Emanuele Vicorito, il ragazzo innamorato della voce di Veronica “ Per la naturalezza nel dar vita a un personaggio cialtrone e feroce, un  guappo che non diventa mai stereotipo e che con pochi gesti sa essere un perfetto Romeo di strada”. Il Premio “Adriano Asti” per il miglior lungometraggio è stato appannaggio del film “Il segno del Capro”  di Fabiana Antonioli, un’opera sull’anarchia in Italia la cui storia è tracciata attraverso interviste a persone e racconto di fatti in cui è stata condivisa un’idea di libertà. Premiato  con la seguente motivazione. “In un mondo che ha perso la memoria storica ed emotiva dei suoi eroi e degli ultimi, quest’opera conduce lo spettatore in un percorso dimenticato ma fondamentale di lotta esistenziale e politica”. Migliore cortometraggio, a cui è stato attribuito il  Premio “Amedeo Fabbri”, a “La macchina americana” di Alessandro Spada perchè “La semplicità della struttura narrativa unita a un soggetto originale porta lo spettatore in un bel romanzo di formazione arricchito da un cast di altissimo livello espressivo”. Si tratta di  un’opera che sottolinea le ambizioni dei giovani d’oggi che compiono però azioni di cui non valutano le conseguenze. Continuando a dar conto dei riconoscimenti  principali, è da segnalare che il Premio “Luciano Beccattini” per il miglior documentario di particolare rilevanza espressiva è stato assegnato a “Mare nostro” di Gadaleta Caldarola Andrea, opera di denuncia dell’inquinamento del Porto di Molfetta, simbolo di altri luoghi marini degradati dalla “ civiltà” odierna. Secondo la Giuria “ Un ipnotico viaggio che attraverso regia, fotografia e montaggio mai banali,  restituisce a chi guarda un universo realistico e poetico, attraverso  la vita, il lavoro e l’esperienza di pescatori allo stesso tempo testimoni e protagonisti di un mare che non è più nostro”. Da segnalare che un altro “Giglio Fiorentino d’Argento” è andato a “Oro viola” di Franco Fais “per l’armoniosa fusione di immagine e suono in una narrazione naturale, nel senso più ampio del termine. E che diventa per lo spettatore un’originale esperienza sensoriale”. Il cortometraggio di Franco Fais è un  viaggio, attraverso suggestive immagini dall’ambientazione onirica, nei colori e nei profumi della lavanda coltivata nella costa occidentale della Sardegna: un’opera che coinvolge e affascina.

Altri i Premi attribuiti dalla Giuria. Quello della Banca  del Valdarno all’opera che meglio evidenzi i valori della cooperazione e della solidarietà è stato assegnato al film “La notte non fa più paura” di Marco Cassini incentrato sul terremoto dell’Emilia del 20 maggio 2012. Un film, la cui storia evidenzia la voglia di rimboccarsi le maniche dopo tragedie  di grande gravità. Premiato perché “Il regista dà vita ad un racconto impietoso di chi non può essere che una vittima: nella vita, della precarietà di una generazione; nella morte, di un terremoto che come sempre colpisce i più deboli e indifesi. L’autore non si accontenta di mostrare la crudeltà del destino degli ultimi, ma preferisce guardare alla solidarietà e la speranza”. Il Premio dell’A.N.P.I. per l’’opera che meglio interpreti e rappresenti i valori storici e ideali dai quali è nata la Costituzione della Repubblica Italiana è stato attribuito al film “Il sarto dei tedeschi” di  Antonio Losito, mentre quello dedicato a Franco Basaglia per il film che meglio rappresenti le tematiche della salute mentale nel nostro presente in Italia e nel mondo è stato conquistato da “Incontri al mercato” di Dario Albertini. Non sono rientrate nelle scelte della giuria alcune opere meritevoli di autori FEDIC: “Lara” di Francesco Giusiani (Corte Tripoli cinematografica Pisa) che ha per protagonista una donna colta in un momento esistenziale particolare e “De Gallo bellico” di Gianfranco Miglio (Cineclub Roma), omaggio alla figura do Don Gallo e alle sua battaglie a favore degli “ultimi” della vita. Ma anche “Promiseland” di Francesco Colangelo (Cineclub Roma), viaggio in Puglia alla ricerca delle proprie radici di una giovane donna insieme al figlio.

Per il miglior film di un autore FEDIC il Premio  è stato attribuito a “ SK- Sonderkommando” di Nicola Ragone “per il coraggio di una visione diversa e dolorosa della quotidianità e della banalità del male.

Un’immagine drammatica del film ““ SK- Sonderkommando”

Attraverso una regia sapiente indaga negli occhi e nell’abisso dei condannati all’orrore”. Quest’opera è stata anche  scelta  dalla Giuria UNICA (Paolo Micalizzi, Bruno Pastori e Vivian Tullio) per rappresentare l’Italia all’appuntamento UNICA che avrà luogo nel 2017 a  Dortmund(Germania).Insieme a quest’opera del Cineclub Firenze vi parteciperanno “Solitudine bucolica”(Cineclub Super8 VideoClub Merano) e “Invisibili” (Cineclub Piemonte). Una narrazione intensa è quella che rileviamo  nel film di Ragone che racconta storie umane in una realtà poco conosciuta all’interno dell’immane tragedia dei campi di concentramento nazisti, l’istituzione di un Sonderkommando, appunto, che rende carnefici dei propri “fratelli”, inviando ai forni crematori persone unite nella stessa tragedia. Persone, le cui storie personali semplificano sentimenti come l’amore, la paura, l’omosessualità. Un film di grande impatto emotivo e di grande sensibilità umana. E di umanità è ricco anche il ritratto tracciato da Gunther Haller. Protagonista, un  personaggio vero “pedinato”, secondo l’estetica zavattiniana, nella sua quotidianità all’interno di una casa di montagna nella quale “consuma”, e difende, la sua solitudine. Personaggi costretti alla solitudine, che sopravvivono grazie alla pietà ed alla solidarietà umana, sono poi quelli colti nel cortometraggio di Giuseppe leto.

Il protagonista di “Solitudine bucolica”

Si tratta di opere scelte tra le cinque in Concorso e le 20 dello “Spazio Fedic”, non avendo potuto scegliere anche tra le cinque dello “Spazio Toscana” proiettate dopo la conclusione del Festival con la cerimonia di premiazione, quando cioè gli ospiti della manifestazione erano rientrati nelle loro città di provenienza. Ed a questo proposito vi è da dire che sarebbe opportuno, onde dare  visibilità  a queste opere anche tra tutti o partecipanti del Festival e non solo a quelli del territorio, che esse siano proiettate durante il suo svolgimento e non a margine.  La  FEDIC  quest’anno è stata presente con nomi già consolidati ed altri giovani talenti che tengono vivo un movimento, quello dei filmmaker, fatto di passione e volontà di espressione non contaminata da interessi  commerciali. Un cinema “puro” che offre  una fucina di idee anche se non espressa con quella capacità di linguaggio e di approfondimento tematico che si trovano  invece negli Autori del cinema professionale ma che scaturiscono dalla volontà di esprimere storie e sentimenti che nascono dal piacere di raccontare  quotidianità,  osservazione della realtà,  memoria ed altri aspetti importanti del mondo contemporaneo. Oppure fare sperimentazione. Nelle opere presentate quest’anno , Pierantonio Leidi (Cinevideo Club Bergamo) in “Il cinema di Ermanno Olmi” traccia un ritratto di  questo grande Maestro sulla base di una lezione sull’autore di Angelo Signorelli, direttore del Bergamo Film Meeting. Beppe Rizzo (Cineclub Alassio) in “Quasi un Amarcord” presenta personaggi del cinema, critici e autori, da lui conosciuti nell’arco di quarant’anni. Sul tema del ricordo, “Il canto della Fenice. 1996- 2016” di Rossana Molinatti (Cineclub Venezia) che invita a non dimenticare il tragico evento dell’incendio  di uno dei più prestigiosi teatri  del mondo, “La Fenice” di Venezia, città a cui lei è sentimentalmente legata cosi come  espresso anche in altri lavori. Sentimenti e ricordi di una persona sensibile al cambio del tempo in “Nevica” di Lu Pulici (Cineclub Fedic Sedici Corto Forlì)  e ricordi di alcuni  momenti  della sua vita di  un uomo molto sofferente a letto in “Una visita (in) attesa” di Massimo  Alborghetti (Cinevideo Club Bergamo). Giorgio Sabbatini con Carlo  Allorio (Cineclub Piemonte Torino) realizza “Medee” sulla base di uno spettacolo teatrale cogliendo la protagonista sul palcoscenico e nella vita privata. Sul tema dell’acqua, Ettore Di Gennaro(Cineclub 3D Production Parma) realizza “Offerta” in cui l’acqua  serve a incontrare due persone che se la offrono come atto d’amore, mentre Paolo Fantini (Cineclub ISCA Milano) in “Lacrime” sottolinea lo spreco dell’acqua nei Paesi più industrializzati, elemento vitale invece per le zone povere del mondo. Strali di indignazione lancia Rolf Mandolesi (Super8 & Video Club Merano) in “Monumento- Memento” incentrato su un gigantesco bassorilievo fascista sito sulla facciata del Palazzo delle Finanze di Bolzano che vive  grottesche situazioni di depotenziamento. Il tema del cibo viene affrontato da Lorenzo Caravello (Gruppo Cineamatori delle Apuane Massa Carrara) in “Un futuro da gustare” , mentre Lauro Crociani (Immagine e Suono Chianciano Terme) in “ Quadro anonimo si sofferma su un tema di carattere esistenziale e Gabriella Vecchi(Cineclub Piemonte Torino) tratta, attraverso l’osservazione della vita di una specie di formiche, il tema della sopravvivenza.

Opere FEDIC che sono state discusse con gli Autori da Daniele Maggioni, produttore e docente di cinema. Ospite illustre di “Valdarno Cinema Fedic” 2016, l’attore-regista Carlo Verdone la cui presenza ha riportato il Festival ai tempi in cui a ricevere il “Marzocco alla carriera” erano, tanto per citare alcuni nomi, Antonioni, Monicelli, Pontecorvo,  Scola, Vancini, Quilici, Giuseppe Bertolucci, Carlo Lizzani, i fratelli Taviani, Silvana Pampanini, Sandra Milo ed altri personaggi di rilievo del cinema italiano.

Un pubblico foltissimo, delle grandi occasioni appunto, ha ascoltato la sua masterclass in cui, stimolato dal direttore artistico del Festival Simone Emiliani e dal critico cinematografico Giovanni Bogani, ha ripercorso da vero mattatore dello spettacolo momenti significativi o curiosi della sua carriera, in un clima di grande festa. E, giustamente, ha incantato la platea.

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Carlo Verdone e il foltissimo pubblico intervenuto ad ascoltarlo

Particolarmente apprezzata poi la proiezione del film di Louis Malle “Ascensore per il patibolo”, presentato nella versione recentemente restaurata  dal critico cinematografico Aldo Tassone, direttore di “France Cinéma” dal 1986 al 2008.

Altri gli Eventi di “Valdarno Cinema Fedic” 2016, fra cui il Premio FEDIC, attribuito da un’apposita Giuria presieduta da Roberto Barzanti alla 72. Mostra di Venezia, “Non essere cattivo” di Claudio Caligari. E’ stato premiato “perché descrive con crudo realismo ma con affettuosa e partecipe umanità un microcosmo di emarginati di cui rappresenta, con una forza creativa ormai rara per il cinema italiano, desideri di una vita e di un futuro diversi”. Il film è stato presentato dall’attrice Silvia D’Amico che ha raccontato alcuni momenti della realizzazione di questa opera postuma del regista, prematuramente scomparso.

Ma anche l’omaggio al compianto Piero Livi, colonna portante della FEDIC, con il film “Pelle di bandito” nell’ambito degli “Splendidi cinquantenni”, curato da Angelo Tantaro, che ha presentato altre pregevoli opere realizzate nel 1966:  “L’orchestra si diverte”, film d’animazione di Piero Pintor e Giovanni  Meli(Cineclub Cagliari); “Irene” di Aldo Vergine (Cineclub Napoli),incisivo ritratto femminile; “R.W. Positiva” di Luigi Mochi(Cineclub Montecatini), film  sui malati di affezione veneriche  colti in  un ospedale nella loro drammatica situazione di alienazione psichica.

Per Fedic Scuola, la proiezione di  “Astrosamantha- La donna dei record nello spazio”, alla presenza del regista Gianluca Cerasola. Ne parla in questo numero Laura Biggi.

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MATTINATA VALDARNO FEDIC SCUOLA
di Laura Biggi

L’evento speciale dedicato alle scuole si è tenuto la mattina del 6 maggio presso il cinema Masaccio con la proiezione del film “AstroSamantha – La donna dei record nello spazio”.

Samantha Cristoforetti durante la missione spaziale

Samantha Cristoforetti durante la missione spaziale

Numerosissime le classi di scuola secondaria intervenute, sistemate anche in galleria e nei palchetti. Serena Ricci, responsabile dei rapporti tra il festival e le scuole del Valdarno, ha riferito che le richieste pervenute dai vari istituti scolastici erano decisamente superiori rispetto alla capienza della sala.

Il film-documentario segue Samantha Cristoforetti , pilota dell’ Aereonautica Militare, prima donna italiana nello spazio, sia durante le intense fasi di preparazione che durante la missione presso la stazione spaziale internazionale.

La riprese del film, seguendo l’intero arco temporale della grandiosa impresa dell’astronauta italiana, hanno avuto la durata eccezionale di 3 anni. Samantha stessa ha girato nello spazio immagini suggestive ed esclusive che ha inviato al regista Gianluca Cerasola, con cui è sempre stata in contatto.

Per la realizzazione del film, come racconta lo stesso regista, si sono incontrate notevoli difficoltà, poi superate, nell’ottenere permessi in zone riservate (Star City a Mosca).

Il regista Gianluca Cerasola con Simone Emiliani, direttore artistico del Festival, e Simona Ricci di Valdarno Cinema-Scuola

Il regista Gianluca Cerasola con Simone Emiliani, direttore artistico del Festival, e Simona Ricci di Valdarno Cinema-Scuola

“Il materiale girato era molto, è stato necessario un meticoloso lavoro di scelta delle immagini: gli scarti sono stati numerosissimi “– dice Cerasola, che sottolinea di aver cercato di limitare l’aspetto tecnico della vicenda a favore di quello umano.

I ragazzi presenti in sala, infatti, erano incuriositi ed affascinati soprattutto dall’atteggiamento di Samantha Cristoforetti che con gli occhi che brillano ha vissuto intensamente questo suo sogno divenuto realtà e l’ha condiviso con il pubblico.

Particolare attenzione è stata riservata dai giovani spettatori allo svolgimento delle operazioni di routine all’interno della stazione internazionale. Gesti ed azioni quotidiane ,come mangiare, bere, lavarsi, in assenza di gravità richiedevano procedure particolari ed insolite.

Il film “Astrosamantha – La donna dei record nello spazio” ha anche regalato al pubblico un perfetto connubio tra due eccellenze italiane: Samantha Cristoforetti e Giancarlo Giannini. Al grande attore è stato infatti affidato il compito di voce narrante.

Al termine della proiezione il regista ha risposto a domande poste anche dagli studenti e ha raccontato aneddoti . Ha svelato che Samantha si è commossa alla visione del film presentato nelle sale cinematografiche nei giorni 1- 2 marzo con incassi record e che avrà distribuzione internazionale in DVD durante l’estate.

pubblico.

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FESTIVAL ED EVENTI

CANNES 2016:
UN’EDIZIONE CHE PROMETTEVA PIU’ DI QUANTO ABBIA MANTENUTO
di Giancarlo Zappoli

Per fare memoria è innanzitutto necessario ricordare il Palmarès della sessantanovesima edizione del Festival di Cannes.

Palma D’Oro: “I, Daniel Blake” di Ken Loach

Grand Prix  Xavier Dolan “Juste la fin du monde”.

Miglior regia  ex aequo: vincono il francese Olivier Assays per “Personal shopper” e il rumeno Cristian Mungiu per “Bacalaureat”.

Premio della Giuria al film britannico “American Honey” diretto dalla regista Andrea Arnold.

Sceneggiatura al regista iraniano Asghar Farhadi per “Forushande”.

Migliore interpretazione femminile a Jaclyn Jose premiata per il film “Ma’ Rosa” di Brillante Mendoza.

Miglior interpretazione maschile a Shahab Hosseini, interprete del film “Forushande” dell’iraniano Asghar Farhadi.

 

Il verdetto dei giurati (George Miller, presidente della giuria, Valeria Golino, Arnaud Desplechin, Kirsten Dunst,  Mads Mikkelsen, László Nemes, Vanessa Paradis,  Katayoon Shahabi e Donald Sutherland) appartiene al novero di quelli che rispecchiano in linea di massima le accoglienze ricevute dai film nel corso delle proiezioni e che hanno dovuto prendere atto di una selezione che sulla carta prometteva più di quanto non abbia poi mantenuto nei fatti.

Come lo scorso anno forniamo una breve valutazione per ognuno dei film in competizione presentandoli in rigoroso ordine alfabetico.

 

American Honey di Andrea Arnold

 American Honey di Andrea ArnoldStar è un’adolescente che lascia la propria complicata famiglia per unirsi a un gruppo di giovani che percorrono il Midwest americano vendendo abbonamenti a riviste porta a porta. Attratta in modo particolare da uno di loro, Jake, Star inizia ad entrare nella vita del gruppo fatta di feste notturne, di lavoro e di storie d’amore non sempre facili.

Ciò che colpisce in questo on the road un po’ stile anni ’70 sono le interpretazioni. Da un lato abbiamo un’esordiente (Sasha Lane) che sostiene l’azione dall’inizio alla fine e dall’altra un attore sorprendente come Shia LaBeouf capace di passare dal cinema mainstream a un’opera che ha tutti i tratti del cinema indie come questa.

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Aquarius di Kleber Mondonça Filho

 Clara,sessantenne e critica musicale, è nata in un ambiente borghese a Recife. Vive in un palazzo particolare, l’Aquarius, costruito negli Anni ’40. Una compagnia ha acquistato tutti gli appartamenti per destinare l’edificio ad un nuovo utilizzo. Tutti tranne il suo che non ha alcuna intenzione di cedere.

Un film di impianto sociale che vede Sonia Braga nel ruolo di mattatrice assoluta.

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Bacalaureat di Cristian Mungiu

 Bacalaureat di Cristian MungiuRomeo, medico in una piccola città della Transilvania, ha fatto di tutto perché la figlia Eliza possa diplomarsi ed andare poi a studiare all’estero. Ma poco prima degli esami la ragazza viene aggredita e tutto sembra crollarle addosso. Romeo però non vuole che il suo sogno si tramuti in cenere e decide di andare contro tutti principi di onestà che ha insegnato alla figlia per far sì che ciò non accada.

Mungiu, con un’intensità inferiore a quella del suo film precedente ma con la medesima lucidità, racconta di una Romania in cui i principi morali cedono il passo alla convenienza pur tra difficoltà e ripensamenti.

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Elle di Paul Verhoeven

 Elle di Paul VerhoevenMichelle è la proprietaria di una società che produce videogiochi ed è una donna capace di giudizi taglienti sia in ambito lavorativo che nella vita privata. Vittima di un stupro nella sua abitazione non denuncia l’accaduto e continua la sua vita come se nulla fosse accaduto. Fino a quando lo stupratore non torna a manifestarsi e la donna inizia con lui un gioco pericoloso.

Verhoeven dedica il film all’attrice protagonista sin dal titolo e fa bene. Perché se non ci fosse ‘lei’ con la capacità di sostenere qualsiasi ruolo si potrebbe notare maggiormente che il regista olandese non ha una particolare predisposizione per la commedia. Lo si vede nella prevedibilità dell’identità dello stupratore così come nell’iper stupidità di un giovane neopadre. Ma poi c’è Lei e tutto nel complesso sembra funzionare. Sembra.

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I, Daniel Blake di Ken Loach

 I, Daniel Blake di Ken LoachNewcastle. Daniel Bake è sulla soglia dei sessant’anni e, dopo aver lavorato per tutta la vita, ora per la prima volta ha bisogno, in seguito a un attacco cardiaco, dell’assistenza dello Stato. Infatti i medici che lo seguono certificano un deficit che gli impedisce di avere un’occupazione stabile. Fa quindi richiesta del riconoscimento dell’invalidità con il relativo sussidio ma questa viene respinta. Nel frattempo Daniel ha conosciuto una giovane donna, Daisy, madre di due figli che, senza lavoro, ha dovuto accettare l’offerta di un piccolo appartamento dovendo però lasciare Londra e trovandosi così in un ambiente e una città sconosciuti. Tra i due scatta una reciproca solidarietà che deve però fare i conti con delle scelte politiche che di sociale non hanno nulla.

Ken Loach conquista la Palma d’Oro con un film che non è, come si è letto, un comizio (perché allora molti suoi film lo sono stati) ma l’ennesima dichiarazione di solidarietà nei confronti di chi è vittima dell’adorazione dell’idolo neoliberista che cerca di schiacciare qualsiasi forma di solidarietà. Definirlo il Dickens del cinema è forse eccessivo ma quel che è certo è che è bene che si sia contraddetto. Aveva affermato che avrebbe girato solo documentari.

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It’s Only the End of the World di Xavier Dolan

Dopo dodici anni di assenza uno scrittore torna in famiglia per annunciare la sua morte imminente. Il clima però non è dei più favorevoli a una rivelazione del genere. Rancori, frustrazioni, sentimenti incapaci di trovare un canale di comunicazione impediscono di ascoltare e farsi ascoltare.

Xavier Dolan sarà anche sovrastimato come dicono alcuni ma è di certo un giovane regista in grado di dirigere tre generazioni di attori (qui si va da Nathalie Baye alla Seydoux passando per Cotillard e Cassel) continuando a tenere le redini della rappresentazioni ben salde in mano evitando di farsi fagocitare dalle ‘star’. Non è poco.

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Julieta di Pedro Almodovar

 Julieta di Pedro AlmodovarJulieta vive a Madrid con la figlia Antia. Entrambe soffrono per la perdita di Xoan, marito e padre. Ma il loro dolore non le avvicina tanto che, non appena compiuti i diciotto anni, Antia se ne va di casa e Julieta finisce con il perderne le tracce. Scoprirà di sapere davvero poco di lei.

Pedro Almodovar invecchia e lo dichiara senza remore. Si ritrova a così a proporre un mélo formalmente perfetto e ineccepibile in quanto adesione al genere. Privo però di quell’’anima’ che dava vita a “Tutto su mia madre” o a “Parla con lei”.

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La fille inconnue di Jean-Pierre e Luc Dardenne

 La fille inconnue di Jean-Pierre e Luc DardenneJenny Davin è una giovane dottoressa molto stimata al punto che un importante ospedale ha deciso di offrirle un incarico di rilievo. Intanto conduce il suo ambulatorio di medico condotto dove va a fare pratica Julien, uno studente in medicina. Una sera, un’ora dopo la chiusura, qualcuno suona al campanello e Jenny decide di non aprire. Il giorno dopo la polizia chiede di vedere la registrazione del video di sorveglianza dello studio perché una giovane donna è stata trovata morta nelle vicinanze. Si tratta di colei a cui Jenny non ha aperto la porta. Sul corpo non sono stati trovati documenti.

I Dardenne continuano ad occuparsi degli ultimi, di coloro che come l’Amadou del loro lungometraggio d’esordio nella fiction (“La Promesse”) rischiano di non avere rispetto neanche dopo la morte. Lo fa attraverso il senso di colpa ma anche la determinazione di una giovane donna medico che insegna il non coinvolgimento sul piano professionale ma non sa fortunatamente applicarlo su quello umano.

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Loving di Jeff Nichols

 Loving di Jeff NicholsLa storia vera dei coniugi Loving, Mildred e Richard, lei afroamericana e lui bianco, che per nove anni hanno lottato per affermare il diritto di essere una coppia in un’America ancora profondamente razzista. La causa da loro intentata contro lo Stato della Virginia finì dinanzi alla Corte Suprema che sancì il loro buon diritto.

La vicenda è di quelle che meritano di essere raccontate. Nichols però individua in una sorta di understatement cinematografico la propria cifra stilistico-narrativa e rischia la noia. Questo è un peccato perché invece il film avrebbe potuto entrare nella lista delle opere di impegno civile capaci di tenere sempre (anche oggi) sveglie le coscienze contro ogni forma di razzismo.

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Ma loute di Bruno Dumont

 Ma loute di Bruno DumontBaia de La Slack nel Nord della Francia.Estate 1910 Delle sparizioni misteriose di persone spingono l’ispettore Machin e il suo assistente a recarsi sul luogo per cercare di indagare. In zona vive la famiglia Brufort a cui appartiene Ma Loute, un giovane che lavora come raccoglitore di cozze e, insieme al padre, come trasportatore a braccia di borghesi che vogliono raggiungere la riva opposta di una piccola laguna e da borghesi è formata la famiglia dei Van Peteghem che raggiunge la villa di famiglia in stile egizio situata su un’altura prospiciente il mare.

Bruno Dumont tenta la strada della comicità surreale in un lungometraggio dopo averla sperimentata in una serie televisiva. L’esito è un film in cui accade un po’ di tutto e in cui pulsioni primordiali e bon ton di facciata si contrappongono.

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Ma’ Rosa di Brillante Mendoza

 Ma’ Rosa ha quattro figli e gestisce un negozietto in un quartiere povero di Manila. Tutti la conoscono e le vogliono bene. Si trova coinvolta in un giro di spaccio di stupefacenti e viene arrestata insieme al marito. I poliziotti li minacciano e chiedono denaro per liberarli. I figli cominciano a cercare di raccoglierne non senza difficoltà.

Brillante Mendoza continua la sua analisi spietata della società filippina ma questa volta lo fa liberandosi dal sospetto del compiacimento nel mostrare il degrado. La figura di questa donna forte (che ricorda alcune protagoniste femminili del neorealismo) domina il film anche grazie a un’interprete di grande intensità espressiva.

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Mal de pierres di Nicole Garcia

 Mal de pierres di Nicole GarciaAnni ’50. Gabrielle vive un piccolo paese nel sud della Francia. Vedendola presa da passioni che ritengono sconvenienti i genitori la fanno sposare con José, un gentile e onesto contadino spagnolo, sperando che questo la induca a comportarsi come si vorrebbe. Quando però si ritrova affetta da calcoli renali e viene inviata in una casa di cura sulle Alpi incontra un ufficiale che ha combattuto in Indocina e se ne innamora. Da quel momento il suo pensiero e i suoi sentimenti sono rivolti solo a lui. Saranno le situazioni della vita a decidere cosa ne sarà del suo desiderio.

Era sufficiente un piccolo passo falso nell’interpretazione e la protagonista poteva trasformarsi in una ninfomane di paese da far sposare o da far internare in un manicomio. Invece nel corpo e negli sguardi che la Cotillard le regala si legge tutta la sofferenza interiore di una donna che, negli anni ‘50, attende quella liberazione femminile che seguirà solo nel decennio successivo.

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Paterson di Jim Jarmusch

Paterson di Jim Jarmusch Paterson vive a Paterson nel New Jersey, cittadina in cui hanno vissuto poeti (da William Carlos Williams ad Allan Ginsberg). Autista di autobus vive con la compagna Laura la quale è costantemente impegnata sul versante creativo, che si tratti dei colori con cui arredare la casa o di dolci da lei preparati. Paterson scrive delle poesie su un quaderno che porta sempre con sé.

Jim Jarmusch, dopo il clima raggelato del suo film precedente dedicato a vampiri malinconici, descrive una coppia quasi sospesa nel tempo quasi che le poesie non fossero solo quelle scritte dal suo protagonista ma che il film stesso dovesse avere la struttura di una poesia.

 

 

Personal Shopper di Oliver Assayas

Personal Shopper di Oliver Assayas Maureen, una giovane americana che vive a Parigi si occupa degli acquisti di indumenti e accessori per una celebrità che non ha il tempo per farlo. Non è un lavoro che le piaccia particolarmente ma è quello che le permette di attendere che si manifesti il fantasma del fratello gemello Lewis, deceduto da poco. Comincia però a ricevere degli sms anonimi.

Olivier Assayas ha conquistato un riconoscimento (ex aequo) probabilmente perché una regola non scritta di Cannes prevede che, con tanti film francesi in Concorso, il Paese ospitante non se ne possa andare a mani vuote. Per il resto siamo di fronte ad un’esercitazione sul ghost movie priva di originalità che ha meritato i dissensi manifestati a fine proiezione stampa.

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Sieranevada di Cristi Puiu

 Sieranevada di Cristi PuiuL’azione si svolge a Bucarest tre giorni dopo l’attacco a Charlie Hebdo a Parigi. Sono trascorsi quaranta giorni dalla morte di suo padre e il dottor Lary raggiunge i propri familiari per una cerimonia commemorativa in casa della madre. Tra i presenti emergono, sempre più evidenti, le tensioni che sono di varia natura.

Ci si interroga su cosa sia ora la Romania attraverso il microcosmo familiare, cogliendo l’occasione in una tradizione locale che vuole che quaranta giorni dopo la cerimonia funebre familiari ed amici del defunto si riuniscano per commemorarlo. A distanza di molti anni l’ombra del Conducator Ceausescu e del suo regime si proietta ancora sulla società rumena.

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Staying Vertical di Alain Guiraudie

 Staying Vertical di Alain GuiraudieLèo incontra un giovane lungo la strada e gli propone di seguirlo per entrare nel mondo del cinema. Dopo aver ricevuto un rifiuto , si imbatte in una pastorella e nel suo gregge e in tempi rapidissimi i due hanno una relazione sessuale. la nascita di un figlio li allontana ma Léo torna comunque spesso a trovare il suocero e uno strano vicino di casa.

Alain Guiraudie, dopo i riconoscimenti ricevuti per “Lo sconosciuto del lago”, torna sui temi a lui cari (tra cui quello dell’omosessualità) con la convinzione però che sia sufficiente fare scandalo per avere un buon film. Inserisce così una scena di suicidio assistito con sodomia compresa e pensa che il gioco sia fatto. Allo spettatore resta la speranza che i lupi presenti nel finale facciano il loro dovere di predatori.

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The Handmaiden di Park Chan-wook

 The Handmaiden di Park Chan-wookCorea Anni ’30 durante l’occupazione giapponese. La giovane Sookee viene assunta come cameriera dalla ricca giapponese Hideko che vive reclusa in un’immensa abitazione sotto il controllo di uno zio tirannico. Sookee nasconde però un segreto: insieme a un nobile giapponese vogliono ingannare la donna per rubarle i suoi averi e poi farla ricoverare in manicomio.

Esteticamente perfetto questo film sembra però farci trovare un Park Chan-wook troppo innamorato delle immagini che realizza per potersi poi anche occupare dei temi che mette in scena senza però approfondirli. Il periodo storico scelto gliene avrebbe invece potuto fornire l’occasione.

 

The Last Face di Sean Penn

 The Last Face di Sean PennWren Petersen, direttrice di una ONG, incontra Miguel Leon, chirurgo spagnolo che ‘opera’ sul campo e se ne innamora Impegnati in una Liberia martirizzata da una feroce guerra civile, tamponano come possono ferite e orrore. Uniti nel sentimento ma divisi sulla politica da adottare nell’emergenza, si prendono e si lasciano sotto le bombe e i colpi dei ribelli.

C’erano una volta…un Sean Penn e una Charlize Theron innamorati. Ora non lo sono più ma della loro unione resta questo film che mostra e dimostra come talvolta l’amore possa accecare anche i professionisti più rodati. Perché questo film ‘d’impegno’ è carico di una retorica e avviluppato in un romanticismo così reiterato dal finire con il non fare del bene alla causa che vorrebbe sostenere. In confronto il film della Jolie sulla guerra nella ex Jugoslavia era un capolavoro.

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The Neon Demon di Nicolas Winding Refn

 The Neon Demon di Nicolas Winding RefnJesse è una sedicenne che dalla Georgia raggiunge Los Angeles per tentare la carriera di modella. La sua bellezza e la sua innocenza si fanno immediatamente notare suscitando l’attenzione di colleghe ben più navigate (Gigi e Sarah) le quali si avvalgono di Ruby, una truccatrice che le si presenta come amica, per attrarla in un gioco che per lei si farà sempre più pericoloso.

Dopo tanti film sugli uomini NWR, come ormai si firma, si dedica all’universo femminile con il quale ha avuto più di un problema tra infanzia e adolescenza. Se gli uomini dei primi film non si vedevano concedere la possibilità di una redenzione, qui si è dinanzi a una negatività priva di qualsiasi complessità immersa in un’estetica e in flussi narrativi che maestri come De Palma e Lynch hanno già proposto in passato.

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The Salesman di Asghar Farhadi

 The Salesman di Asghar FarhadiEmad e Rana sono due  coniugi costretti ad abbandonare il proprio appartamento a causa di un cedimento strutturale dell’edificio. Si trovano così a dover cercare una nuova abitazione e vengono aiutati nella ricerca da un collega della compagnia teatrale in cui i due recitano da protagonisti di “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller. La nuova casa era abitata da una donna di non buona reputazione e un giorno Rana, essendo sola, apre la porta (convinta che si tratti del marito) a uno dei clienti della donna il quale la aggredisce. Da quel momento per Emad inizia una ricerca dell’uomo in cui non vuole coinvolgere la polizia.

Chi conosce il testo di Arthur Miller sa che ha saputo descrivere un momento di svolta nella società americana attraverso le vicende familiari del suo protagonista. È quello che anche Farhadi vuole fare, individuando in questa fase storica dell’Iran una trasformazione così veloce dal finire con lo schiacciare chi non è pronto per adattarvisi. Lo fa, ancora una volta, filtrando la lettura attraverso quella che per lui è la cartina al tornasole delle dinamiche umane: la coppia.

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Toni Erdmann di Maren Ade

Toni Erdmann di Maren AdeInès lavora presso una grande società tedesca che ha sede a Bucarest. La sua è una vita perfettamente scandita dagli impegni la cui regolarità viene però messa in pericolo dall’arrivo di suo padre Winfried che le pone una semplice domanda: “Sei felice?” Inès non sa rispondere e allora il genitore inventa un personaggio decisamente ingombrante. Si tratta di un certo Toni Erdmann (che è lui con una orribile dentiera) che farà di tutto per crearle situazioni imbarazzanti che   la costringano a reagire.

Doveva essere, a detta della stampa internazionale, il film vincitore della Palma d’Oro e invece non ha conseguito neppure un riconoscimento. E’ sicuramente divertente e fuori dagli schemi del cinema teutonico che riesce a uscire dai confini ma forse con situazioni troppo insistite nella parte centrale che finiscono con il sovradimensionarne la durata.

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copertina Voci InchiestaREALTA’ MAI VISTE AL CENTRO DI
“LE VOCI DELL’INCHIESTA” 2016
di Paolo Micalizzi

Ospite eccellente di “Le voci dell’inchiesta” 2016 la regista Liliana Cavani, omaggiata dalla proiezione di due suoi documentari (“La donna nella Resistenza”, 1965 e “Clarisse”, 2012) e due suoi film (“I cannibali”,1969 e “L’ospite”, 1970) e dal libro “Liliana Cavani. Follia, santità, potere, povertà”, curato da Fabio Francione per le edizioni Cinemazero, che contiene suoi scritti e interviste del periodo 1960-2016. Un’ampia selezione della produzione pubblicistica e saggistica della regista che documenta un ‘attività critica misconosciuta svolta agli inizi degli anni Sessanta, in cui emergono riflessioni su temi importanti come religione, condizione della donna, rapporti tra cinema e Tv. Un’utile lettura per conoscere il pensiero di questa grande protagonista del cinema italiano.

La regista Liliana Cavani

La regista Liliana Cavani

Un Festival sempre più interessante “Le Voci dell’Inchiesta” di Pordenone(13-17 aprile 2016) ritornato alla ribalta, dopo un anno di assenza per consentire con i suoi finanziamenti  i lavori della  nuova sede in pieno Centro storico della Mediateca. Un Festival  prestigioso che si rivela sempre più utile per avere un panorama della realtà d’oggi , spesso drammatica, in ogni parte del mondo. Testimoniare la “memoria dell’oggi” con “realtà mai viste” al centro delle opere presentate alla IX edizione. Testimonianze sull’oggi, riscontrabili nelle opere che ho potuto vedere, in film  come “Napolislam”(2015) di Ernesto Pagano, incentrato sui napoletani che si sono convertiti all’Islam perché hanno trovato in quella realtà una risposta a ciò che non hanno visto funzionare in Italia.

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NapolislamOppure   come la vita d’inferno dei minatori di una comunità mongola raccontata in  “Behemoth” (2015) di Zhao Liang  che presentato negli ultimissimi giorni della Mostra del Cinema di Venezia, dove peraltro ha vinto  il Green Droop Award, è stato poco visto. Utile quindi questa riproposta di un film che denuncia una situazione drammatica, quella del  sacrificio umano dei minatori mongoli il cui risultato è la costruzione di alcune città fantasma, megalopoli fatte di grattacieli in cui nessuno abita. Un sacrificio alla  modernità il cui peso e ben sottolineato nelle drammatiche immagini della faticosa e inumana  vita di quei minatori. A sottolineare le contraddizioni e i problemi ambientali della grande potenza cinese, anche la testimonianza dal vivo, che ha fatto seguito alla proiezione del film, del fotoreporter Pierpaolo Mittica che ha documentato in immagini quella realtà. Una testimonianza sui  muri eretti ai quattro  angoli del mondo: Spagna e Marocco, U.S.A. e Messico, Sud Africa e Zimbabwe, Israele e Palestina, ci perviene poi da “Walls” di Pablo Iraburu e Miguelbo Molina( Spagna, 2015), confini invalicabili in cui si scontrano paure e speranze di tanta gente. L’influenza sull’ambiente dell’allevamento e industria animale è oggetto del documentario ”Cowspiracy.

CowspiracyThe sustainability secret” di Kip Andersen e Keegan Kunhn(Stati Uniti, 2014),una docu-fiction scioccante che solleva l’attenzione sui rapporti  che legano il consumo di cibo ai problemi dell’inquinamento globale e dello sconvolgimento climatico. Opera coraggiosa che indaga a fondo su come l’allevamento di animali sia la principale causa di deforestazione, consumo d’acqua, inquinamento e produzione di effetto serra, nonché della distruzione della foresta pluviale con la conseguente estinzione delle specie indigene e del loro habitat, dell’erosione del manto terrestre, delle cosiddette “zone morte” oceaniche e di ogni altra forma di malattia ambientale. Una pratica, denunciano gli autori, che nonostante i danni che provoca va avanti senza che nessuno si opponga. Interessante anche il ricordo dei sopravvissuti al genocidio da parte delle truppe serbo-bosniache di Ratko Mldacic   che è oggetto di  “The fog of Srebenica” di Samir Mehanovic (Bosnia, Herzegovina, Scozia, 2015).

Dal film “The fog of Srebenica”

Una tragedia che difficilmente riescono a dimenticare perché anche ,se la guerra è finita, la sentono ancora sulla loro pelle. Un altro dramma umano è quello di Omar Khadro, che ha il triste primato di essere il primo bambino soldato processato dagli Stati Uniti alla fine della Seconda Guerra Mondiale per un’accusa che non è stata mai pienamente provata. Per la quale ha trascorso metà della sua esistenza dietro le sbarre, di cui una decina d’anni  nella tristemente nota, dopo l’11 settembre, Guantanamo dove era il prigioniero più giovane. Rilasciato nel 2015 oggi può dare testimonianza di quanto ha dovuto subire. Il film ha ricevuto il Premio del pubblico. I danni provocati dalle  mine antiuomo nei teatri di guerra sono al centro di una storia raccontata  da Mattia Epifani in “Il successore”( 2015). Dove protagonista è l’erede  del titolare di un’azienda pugliese che le fabbricava, e che oggi sentendo il rimorso per le tragedie provocate si è recato in quel territorio  per guidare squadre di sminatori in  un’attiva operazione di bonifica. Commuove poi la storia d’amore di due siriani oppositori del regime  che conosciutosi in carcere si sono sposati ed hanno avuto quattro figli. Lei è ritornata poi nuovamente in prigione  per aver pubblicato la loro storia, ed è stata liberata dopo la primavera araba.

Ma è una donna diversa, come risulta dal documentario  “A Syrian love story” di Shan McAllister (Gran Bretagna, 2015) che racconta questa  coinvolgente storia d’amore sullo sfondo tumultuoso della Siria contemporanea. Tra le opere in programma negli ultimi giorni del Festival  anche “Our last Tango.

a Syrian love storyUn  tango Màs” prodotto da Wim Wenders e diretto da German Kral, presentato in sala dal critico cinematografico Andrea Crozzoli. Un viaggio nei sentimenti “passionali” che muove il tango come amore, gelosia e odio, attraverso  il ritratto della coppia di ballerini più famosa del mondo, insieme sulle scene da quasi cinquant’anni : Maria Nieves Rego e Juan Carlos Copes. Affascinante poi il monologo del telecronista sportivo Federico Buffa sulla storia di Jesse Owen, l’uomo più  veloce del pianeta, protagonista del film “Race-Il colore della vittoria” di Stephen Hopkins proiettato a conclusione del Festival e nelle sale cinematografiche italiane in quest’ultimo periodo.

Omaggio di “Le voci dell’inchiesta” anche al regista Gualtiero Jacopetti con il film “Africa addio” che è stato presentato da Fabio Francione. Un regista ingiustamente dimenticato Gualtiero Jacopetti, autore che nel 1962 con i “mondo movie” diede inizio ad un filone di successo, anche se accolto da consensi e dissensi per i suoi contenuti giudicati scandalistici. In “Africa addio”, premiato nel 1966 con il David di Donatello, traspare un’immagine molto cruda dell’Africa di quegli anni che stava vivendo il processo di decolonizzazione. Ma altre opere denunciano  situazioni sconosciute legate a costumi esotici e religiose, anche se viziate da un’eccessiva spettacolarizzazione. Un autore, Gualtiero Jacopetti, che merita un attento riesame di tutta la sua opera, al di là dei dissensi ideologici.

Una significativa immagine del terremoto del Friuli

Una significativa immagine del terremoto del Friuli

Il Festival si era aperto con il ricordo del terribile evento del terremoto che nel maggio del 1976 distrusse interi paesi del Friulì, una catastrofe senza precedenti che provocò quasi  mille morti, oltre 100mila sfollati(il 60% della popolazione), provocò la distruzione completa di 45 comuni e il grave danneggiamento di 52 centri. A raccontare quella tragedia c’era anche, inviato dalla Rai, il giornalista Gianni Minà. Ed al Festival, propria la sua voce ha accompagnato, insieme a quella del collega Rai Edek Osser, i vari contributi  video realizzati che sono stati presentati  40anni dopo a ricordo di quel tragico avvenimento. A Gianni Minà il Sindaco di Pordenone Claudio Pedrotti ha consegnato il sigillo della città e un gettone telefonico, proprio come quelli che il giornalista , nella notte tra il 6 e il 7 maggio 1976, utilizzava ogni 100 chilometri  in viaggio verso il Friulì-Venezia Giulia per telefonare alla redazione della Rai e ricevere aggiornamenti sul terremoto.

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SI AFFERMA SEMPRE PIU’ IL “LUCCAFILMFESTIVAL E EUROPACINEMA” di Paolo Micalizzi

lucca film festival

Un manifestazione , il “LuccaFilmFestival e EuropaCinema”, che riscuote sempre più successo ed anche il plauso della città, com è testimoniato da un intervento di una persona autorevole come la scrittrice  Flavia Piccinni su “Il Tirreno” del 10 aprile 2016. Scrive, infatti:” Se cinque anni fa mi avessero detto che, nel giro di un paio di giorni, sarebbero passati dal centro storico George Romero, William Friedkin, Marco Bellocchio e Paolo Sorrentino non ci avrei creduto. ‘State scherzando, vero?’, avrei chiesto. E invece è quello che sta succedendo a Lucca, per la gioia della città, che è stata catapultata sui più importanti media nazionali”.  E ricorda che il merito è di Nicola Borrelli  che dieci anni prima, quando non aveva nemmeno venticinque anni, aveva avuto l’intuizione di creare il “ Lucca Film Festival” grazie alla sua insaziabile passione per il cinema e un’incredibile fiuto per quello che dovrebbe essere definito come “ business of culture”. Oggi, aggiunge la scrittrice, il “Lucca Film Festival”  è l’esempio perfetto  di come il futuro della nostra città passi sempre d più attraverso eventi che hanno come cuore e radici tutta la cultura. A Lucca , prosegue nel suo intervento, è successa una magia, o forse un miracolo: la cultura passa come svago, e si intrufola nelle scuole, in noi cittadini, nei turisti, che rispondono  all’intelligente proposta del Festival che mira a coinvolgere il pubblico anche con eventi in cui è richiesta la partecipazione in prima persona –come la spassosissima festa di “Lucca Effetto Cinema Notte” che giunge adesso alla sua terza edizione – ma non tradisce le radici indipendenti, rivolte a quella nicchia che ispirò la nascita del Festival. Il riferimento è alla marcia degli zombie , guidata dal regista George Romero, che ha animato Lucca con tantissime persone truccate e vestite come i temibili morti viventi.

Il regista George Romero

Il regista George Romero

Un  regista, George  Romero che rimarrà nella storia del Festival anche grazie al calco delle sue mani effettuato per iniziativa del “Lucca Comics & Games” avvenuto in una cerimonia svoltasi al Cinema Moderno. George Romero era uno degli ospiti di grande caratura  internazionale al “LuccaFilmFestival e EuropaCinema” 2016 diretto da Nicola Borrelli, un Festival che dal 2015 ha unito due importanti manifestazioni cinematografiche del territorio dando inizio ad un nuovo percorso che propone prospettive diverse sul mondo del cinema: il maestro dell’horror George Romero, appunto, ma  anche William Friedkin che nell’horror si è ben distinto spaziando anche nel film di genere con il poliziesco, il Premio Oscar Paolo Sorrentino e il regista con “I pugni in tasca” Marco Bellocchio i cui film si sono imposti anche in Festival Internazionali. Ed una riscoperta, quella di  Gualtiero Jacopetti, che nel 1962 con “Mondo cane” ha dato inizio ad un genere( che per i suoi contenuti suscitò molto scalpore) che ebbe molto successo al box office. Ed alcune interessanti Mostre come quella allestita a Lucca su George Romero, a cura di Paolo Zelati, con i manifesti originali, soprattutto americani, che introducono efficacemente al cinema del regista degli Zombi a cui diede inizio con “La notte dei morti viventi”(1968) programmato al festival insieme ad altri componendo cosi una retrospettiva significativa per immergersi nelle atmosfere create dal maestro hollywoodiano. La cui conoscenza diretta, suscitando una grande emozione da parte dei numerosi fans che hanno affollato il cinema Moderno, è stata possibile grazie ad una straordinaria Masterclass a cui abbiamo avuto modo di assistere consentendoci di conoscere direttamente dal suo autore lo straordinario  percorso del suo cinema che, con più ricchezza di contenuti ovviamente si può anche leggere nel libro, curato da Claudio Bartolini con la prefazione di Mauro Gervasini, “George A:Romero.Appunti sull’autore”( Edizioni Bietti,2016). Ma su George Romero e i suoi Zombi si può leggere in questo numero della Rivista un’accurata analisi di Riccardo Poma.

Se George Romero ha chiuso il Festival , ad aprirlo è stato un altro “mito” del cinema americano, William Friedkin, autore di film di culto come “Il braccio violento della legge”(1971),

01 Il regista William Friedkin

Il regista William Friedkin – Gene Hackman nel film “Il braccio violento della legge”

“L’esorcista”(1973), “Il salario della paura”(1977), “Cruising”(1980), “Vivere e morire a Los Angeles” (1985) , riproposti con successo al Festival. Ospite di primo piano anche Paolo  Sorrentino il cui successo internazionale, soprattutto americano, è stato testimoniato anche dal fatto che ad intervistarlo è stata la giornalista di “Repubblica” Silvia Bizio che vive a Los Angeles e che ha avuto modo di conoscere molto bene  il regista italiano, in particolare  per l’assidua frequentazione americana dovuta all’Oscar a “La grande bellezza”.

Il regista Paolo Sorrentino - Toni Servillo nel film “La grande bellezza”

Il regista Paolo Sorrentino – Toni Servillo nel film “La grande bellezza”

Precise ed argute le sue domande che hanno consentito di approfondire la carriera di un regista di grande rilievo del cinema contemporaneo.

05 Il regista Marco Bellocchio

Il regista Marco Bellocchio – Lou Castel in “I pugni in tasca”

Protagonisti del Festival anche Marco Bellocchio e Gualtiero Jacopetti, le cui iniziative si sono svolte, soprattutto, a Viareggio per il regista di “I pugni in tasca” omaggiato anche con una Mostra sulla sua attività pittorica, ed a Barga, suo paese d’origine, per il regista dei “mondo movie”  che era stato ingiustamente dimenticato. Anche per lui un’opportuna Mostra di locandine e manifesti, anch’essa a cura di Paolo Zelati, per ricordare il suo cinema.

07 Gualtiero Jacopetti

Gualtiero Jacopetti

A Viareggio anche una  Mostra dal titolo “Mario”, cioè Mario Monicelli con foto d’archivio recuperate dalla moglie Chiara Rapaccini che l’ha rielaborate su lenzuoli di lino di  notevoli dimensioni.

Di interesse anche le iniziative competitive: Concorso lungometraggi e Concorso Cortometraggi. Vincitore della sezione riservata ai lunghi è il film “Paradise” dell’iraniano Sina Ataeian Dena.

Dal film “Paradise”

Un film, che attraverso la storia della ventiquattrenne  Haiena  che insegna in una scuola di periferia e che un giorno scopre che due studentesse sono scomparse, indaga su un Paese dove le donne subiscono ancora grandi violenze. La Giuria ,presieduta dal produttore Paulo Branco, lo ha premiato  perché” è un ritratto  asciutto e sobrio ma anche libero e fantasioso della situazione femminile in Iran che, con coraggio, da individuale diventa universale”. Menzione speciale a “French Blood. Un Francaise” di Diastème, storia di uno skinhead dei sobborghi di Parigi  e dell’estinzione  dopo trent’anni della sua rabbia contro gli arabi, ebrei, neri, comunisti che ,lo fanno diventare un’altra persona. E’ stato premiato “ per la capacità di adottare uno sguardo contemporaneo –nella drammaturgia come nella sintassi filmica- su problematiche complesse che fanno parte non solo della realtà francese, ma della nostra quotidianità sociale”. Tra i premi anche una Menzione al merito, da parte della direzione del Festival ,al film “Rosso dal vetro”( dovunque tu vada)” di Alberto Tempi. Per i “cortometraggi sperimentali” un  riconoscimento a “Black Code/Code Noir” di Louis Henderson, che intende portare ad una riflessione critica su due omicidi di persone di colore  per mano della polizia  frutto, secondo l’autore, di una storia di schiavitù preservata da leggi coloniali. Nella sezione “Educational” si è ben distinto “Gramsci 44” di Emiliano Balducci, su sceneggiatura di Emanuele Milasi, incentrato sui 44 giorni di confine  ad Ustica di Antonio Gramsci prima di essere trasferito al carcere di San Vittore sulla terraferma.

Un  Festival , questo diretto da Nicola Borrelli, a cui ha collaborato anche la FEDIC promuovendola  fra i suoi soci attraverso i Cineclub  d’appartenenza. Una giusta collaborazione con un Festival che sempre più s’impone nel panorama italiano coinvolgendo  autori di grande livello, stampa, e un pubblico sempre più ampio.

Lucca film.

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LE EMOZIONI DEL GENIO TARKOVSKIJ
di Paola Dei

Figlio di un poeta e poeta per immagini egli stesso Andrei Tarkovskij è considerato da alcuni l’unico regista che ha saputo trasformare le sensazioni in immagini senza connotarle con le etichette cognitive con le quali di solito descriviamo una emozione.
Sensibile e nostalgico il regista amava la natura e le mille fascinazioni che è capace di suscitare. Gli alberi, i ruscelli, i paesaggi rupestri incontaminati che, come per magia ci vengono incontro mentre osserviamo i suoi film evocando immagini interiori o archetipi che rivivono grazie ad un bagno sensoriale a tutto tondo fra le suggestioni delle atmosfere tarkovskiane.

A Montalto di Castro nel mese di aprile, Donatella Baglivo, regista sensibile e attenta che lo ha conosciuto, con la partecipazione di Alberto Di Giglio, regista di cinema Sacro, ha dedicato una rassegna  al grande cineasta russo in occasione dell’anniversario della nascita avvenuta il 4 aprile 1932, presso lo spazio “Alfredo Bini” con il titolo Il potere al cinema. Dal 4 al 28 aprile sono stati proiettati tutti i suoi film; contemplazioni delle forme, lento incedere della vita che appare e scompare fra le suggestioni della natura. Parlando di sè nel documentario di Donatella Baglivo che ha inaugurato la rassegna, il cineasta dice: “…Allora non volevo diventare né pittore né musicista.. Il mio carattere assomigliava a quello di una pianta: non pensavo, piuttosto sentivo, percepivo…!”

“..Non sono mai riuscito a separare la mia vita dai film che realizzavo.” asserisce ancora il regista russo, che ha ispirato le opere di Aleksandr Sokurov, il cineasta delle “Elegie” e dell’”Arca russa”, Leone d’Oro a Venezia nel 2011 con il film “Faust”, premio che nel 1962  ricevette anche Tarkovskij presentando il film “L’infanzia di Ivan”, ex aequo con Valerio Zurlini che concorse con “Cronaca familiare”. “..Perché andiamo a frugare l’Universo quando non sappiamo nulla di noi?” prosegue ancora Tarkovskij lasciandoci comprendere la sua visione del cinema come mezzo di conoscenza prevalentemente spirituale, in quanto legato all’attività del contemplare.

Il regista Andrej Tarkovskij

Il regista Andrej Tarkovskij

Al termine del documentario per la serata di inaugurazione, Donatella Baglivo, visibilmente commossa ha offerto con generosità le sue sensazioni preferendo rimanere per un po’ in silenzio. La parola è passata a Paola Dei che ha iniziato il suo intervento partendo dalle suggestioni del paesaggio Toscano, della Tuscia, dell’Umbria. La location più famosa del penultimo film “Nostalghia” è senz’altro la Val d’Orcia, proclamata dall’Unesco nel 2004 patrimonio dell’Umanità, con i suoi contrasti e i paesaggi al confine fra le selve e le praterie, dove il regista ha avuto la capacità di cogliere le polarità insite negli stessi territori con quel suo straordinario saper contemplare gli eventi rimanendo al confine fra l’una e l’altra cosa, a cavallo fra la struggente bellezza e l’inquietudine, fra il desiderio del ritorno e quella nostalghia che in lingua greca significa dolore del ritorno che non è semplicemente il rimpianto per qualcosa che si è perduto o il Nostos- Ritorno descritto da Franco Piavoli nel 1989 con l’opera omonima, ma suggerisce innanzi tutto la paura della delusione del ritorno; il timore di tornare e di rimanere profondamente delusi.

“Nostalghia”

Paola Dei ha poi messo in luce la straordinaria capacità di Tarkovskij, attraverso l’uso sapiente della macchina da presa, di far venire incontro allo sguardo di chi osserva le immagini esteriori dei ricordi, permettendo allo spettatore di far emergere le immagini interiori significative, o, per dirla con le parole di Henri Maldiney, “…il fondo di mondo al quale siamo originariamente legati”, i cui contorni si definiscono in modo sempre più netto, o di metterci improvvisamente davanti  il volto della Madonna del Parto di Piero della Francesca mentre, secondo Dei, l’atto del guardare si fa “estetica” del guardare in quella unione di platonica memoria dove etica ed estetica si uniscono nella sintesi della bellezza. A seguire Massimo Nardin, uno dei maggiori esperti della cinematografia di Andrej Tarkovskij, autore del testo Evocare l’inatteso. Lo sguardo trasfigurante nel cinema di Tarkovskij edizioni ANCCI, (Associazione Nazionale Circoli Cinematografici Italiani). Nella sua appassionata prolusione Nardin ha spiegato come Tarkovskij sia probabilmente l’unico autore cinematografico ad aver compreso fino in fondo che cos’è il cinema, esortando a leggere: Scolpire il tempo, il libro testamento scritto dallo stesso regista, a metà fra il saggio e l’autobiografia poetica. Nardin ha poi illustrato le similitudini fra fotografia e cinema soffermandosi sul concetto di “soglia”, criterio essenziale per comprendere la cinematografia di Tarkovskij, il quale, nei suoi film e nei suoi scritti, rivela una capacità di vedere le cose con una modalità profonda come quella di un saggio, eppure innocente come quella di un bambino.

Nelle sue opere tutto ciò che vediamo è “soglia”, il suo stesso cinema è cinema-soglia, a cominciare dai suoi protagonisti, anime tormentate e cristalline che ricercano un senso che è lo stesso senso verso il quale si protende anche il regista.

Nardin ha infine introdotto il film “Lo specchio”, quarto lungometraggio di Tarkovskij e la sua opera più personale, una storia narrata attraverso il compenetrarsi di tre “zone” fondamentali: i ricordi dell’infanzia, le riflessioni sul presente e le immagini d’archivio della storia russa.

OCCHIO CRITICO

SVOLTE D’AUTORE. GUS VAN SANT E MICHEL GONDRY
di Marco Incerti Zambelli

Arrivano, con un certo ritardo, al cinema le opere di due autori di culto, Gus Van Sant e Michel Gondry. Accomunati dalla frequentazione di videoclip musicali di qualità ( più classici e misurati quelli dell’americano, esplosivi, immaginifici, debordanti quelli del francese), spesso impegnati nella realizzazione di documentari e short films, capaci di muoversi tra produzioni indipendenti e mainstream, nelle opere più personali sul grande schermo portano una concezione divergente del narrare cinematografico, ridotto all’essenziale, al limite dell’astrazione il primo, straripante di surreali invenzioni il secondo.

Con esiti diversi, ma contrassegnati entrambi da una forte discontinuità stilistica rispetto ai film precedenti, le due uscite meritano attenzione.

Accolto dai fischi a Cannes tanto di indurre la casa di distribuzione a rinviarne l’uscita sugli schermi Usa, il film di Gus van Sant, “The sea of trees” (Il mare d’alberi) tradotto in Italiano con il titolo con il quale venne presentato a Cannes un anno fa, “La foresta dei sogni”, prova una uscita in alcuni paesi europei, (in Francia il titolo viene cambiato ancora in “Nos souvenirs”, forse per cercare di far dimenticare le pessime recensioni del festival).

L’accoglienza di critica e pubblico pare confermare le disastrose impressioni della scorsa primavera.

Naomi Watts e Matthew McConaughey

Naomi Watts e Matthew McConaughey

Eppure sulla carta c’erano tutte le premesse per un’opera valida: Matthew McConaughey reduce dalle strepitose performances di “Dallas Buyers Club” e “True Detective”, la sempre affascinate Naomi Watts, la stoffa di Ken Watanabe, un editor come Pietro Scalia, l’affidabile direttore della fotografia Kasper Tuxen e soprattutto la solidissima reputazione di Van Sant, la comprovata eclettica capacità di navigare sicuro tra raffinate prove autoriali e solide e mai banali incursioni hollywoodiane.

Le vicende di Arthur Brennan, il professore americano che il rimorso spinge in Giappone, nella foresta di Aokigahara, ai piedi del monte Fuji, nota come la ‘foresta dei Suicidi’, il suo incontro con Takumi, il loro peregrinare sperduti nei boschi, l’intreccio tra amore e morte che si svela nei flashback, echeggiano tematiche care all’autore.

Purtroppo la sceneggiatura di Chris Sparling trascina il regista in territori altri rispetto alla metafisica solitudine di “Last Days”, la pur meravigliosa natura della foresta non assurge mai alla trascendentale indifferenza del deserto di “Gerry”, il pudico, delicato, emozionante equilibrio di “L’amore che resta” si spezza nei concitati frammenti che narrano il matrimonio del protagonista. Dopo un inizio promettente, il prezioso lavoro di astrazione che caratterizza molte delle opere di Van Sant si disperde in un affastellarsi di parole, di episodi avventurosi, di svolte narrative a tratti improbabili a tratti banali, arrivando a lambire una dolciastra atmosfera new age.

Il tocco dell’autore, comunque, emerge, pur faticando a dare unitarietà narrativa e stilistica e a tener sotto controllo ottimi attori che tendono al sopra le righe ( McConaughey) o al sottotono (Watanabe).

Le stroncature di molti critici sono probabilmente ingigantite dalle attese per un film, che pur imperfetto, ci pare tuttavia degno di attenzione.

Lavora di sottrazione invece Michel Gondry nel suo “Microbo & Gasolina”. Dopo aver raggiunto l’apice dell’accumulo con “La schiuma dei giorni”, nel quale la debordante invasione di pur geniali e mirabolanti invenzioni visive arrivava a soffocare la struggente storia d’amore da Boris Vian, riprende le atmosfere del domestico “La spina nel cuore”, sorta di intimo e delicato home movie intorno alla figura della zia Suzette, e del docufiction “The we and the I”, una esplorazione nel mondo multietnico di un gruppo di giovani ragazzi del Bronk nel lungo viaggio in bus verso casa nell’ultimo giorno di scuola, spesso crudo ma non privo di poetica emozione.

I due protagonisti del film “Microbo & Gasolina”

Leggerezza è la cifra stilistica che l’autore adotta nel raccontare le vicende di Daniel (interpretato da Angel Dargent, nome talmente perfetto da parere inventato), soprannominato Microbo per il suo apparire più giovane della sua età e i cui lunghi capelli lo fanno scambiare a volte per una ragazza.

Poco integrato studente del liceo di Versailles, ( lo stesso frequentato da Gondry) con una madre affettuosa e dolcemente stralunata ( Audrey “Amélie” Tatou decisamente in parte e che ha fortemente voluto la realizzazione del film) ed un amore “impossibile“ per una deliziosa compagna di classe, stringe amicizia con Théo, ultimo arrivato a scuola da poco, battezzato Gasolina dai compagni per l’odore di grasso che l’accompagna a causa del suo maneggiare motori.

Il talento come disegnatore dell’uno e la grande abilità dell’altro nel riciclare rottami li portano costruire un improbabile casa viaggiante, una sorta di camper hippy con il quale si mettono in viaggio per le strade blu della Francia, alla ricerca di improbabili ricordi di infanzia o di altrettanto improbabili appuntamenti amorosi.

Le tappe del viaggio, sottolineando la loro inattualità ( il fin troppo esplicito ‘abbandono’ dell’Iphone, la fuga dalla camera con il poster di Shakira, il rifiuto del ‘cinque’ ) sono segnate da avventurosi incontri tra ‘bulli e pupe’ coreani, feste di paese, campi rom e nevrotici dentisti che permetteranno ai due ragazzi di mettere a prova la loro amicizia e la loro inventiva.

Più ricordo nostalgico che racconto di iniziazione, con un finale melanconicamente geniale, ‘Microbo & Gasoline’ sottolinea la vena ironica e elegiaca di un autore dal sicuro talento.

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ALL’OPPOSTO: LE CONFESSIONI E LA PAZZA GIOIA
di Tullio Masoni

A fine stagione due film italiani hanno avuto un certo successo di pubblico e, in qualche modo, sollevato l’attenzione di una critica non di rado pigra.

Andò ha voluto riproporre in “Le confessioni” il Servillo che già gli aveva portato fortuna col doppio ruolo di “Viva la libertà”. Oggi propone un tema complesso, cioè il confronto fra due segreti: la confessione cattolica da un lato, e dall’altro la regola canagliesca dei poteri forti, cioè della finanza internazionale. Figura anomala e non si sa bene perché convocata al summit del G8, il frate già matematico raccoglie notizie sconvolgenti, ossia il motivo che porterà il Presidente – disperato ben oltre l’esigenza di cercare un prete – a togliersi la vita. Il religioso si muove fra i magnati silenziosamente, con la sola presenza infila pause e dubbi nelle loro sicurezze, dà risposte nette e al medesimo tempo interrogative, difende il rigore della dottrina e ammette il senso di una irrimediabile debolezza. Cioè di un limite entro il quale, però, si conferma man mano la pacifica tranquillità del testimone.

Ben scritto, montato “in partitura” con un Piovani mai così discreto e attento ai ritmi specifici dell’azione filmica, “Le confessioni” comincia coi toni di un dramma in sordina e finisce con accenti visionario-fiabeschi. Ciò procura una indubbia sorpresa e, senza tradire la compostezza del personaggio, lancia un prudente messaggio di speranza; ma, al tempo stesso sconta una variazione forse troppo repentina. Intendo che visione e fiaba irrompono senza alcun segnale preparatorio, con ciò determinando una sorta di stonatura. Il film, tuttavia, credo resti buono; e i consensi che ha raccolto sono meritati.

Se si guarda la commedia drammatica di Virzì: “La pazza gioia”, attraverso il filtro del Servillo di “Le confessioni”, ci si accorge immediatamente di essere dalla parte opposta.

Un po’ ripresa di “Thelma e Louise” – anche se il regista lo nega aggiungendo che quel film famoso non era affatto piaciuto alla sua collaboratrice di oggi: Francesca Archibugi – un po’ riaffermazione della “sanità” del folle quando la società in cui tutti viviamo, cioè dei normali, marcisce, “La pazza gioia” racconta di Beatrice e Antonella, ospiti di una comunità terapeutica per donne mentalmente disturbate. Due donne assai diverse – sia per condizione sociale che per esperienza – ma unite in un bislacco tentativo di fuga.

Dal film “La pazza gioia”- in primo piano, da sin. Micaela Ramazzotti e Valeria Bruni Tedeschi

Sembra che Virzì abbia pensato alle vicende della madre, in particolare per il personaggio interpretato da Valeria Bruni Tedeschi: «Quando Paolo mi ha proposto il film – ha detto l’attrice – non ho avuto il minimo dubbio. Beatrice mi ha ricordato Blanche, la protagonista di “Un tram che si chiama Desiderio” di Tennessee Williams.» Un Virzì che per i luoghi e il clima ha pensato bene di restare nei confini della natia ed evidentemente amata Toscana.

La perizia professionale del regista livornese non è in discussione, così come, nell’attuale fatica, l’impiego efficace del montaggio. Mi sembra tuttavia che il concepire le sue primattrici in senso para-actor’s scopra da un lato un’ambizione quasi accademica, dall’altro una scommessa rischiosa – cioè viziata da sopravvalutazione – e alla lunga non vinta.

Con ciò, l’intento generale del regista mi sembra sincero. Pur esagerando un poco nella celebrazione dei tipici paesaggi toscani, Virzì si preoccupa di porre in evidenza una società ormai bastarda, “cattiva” e incline alla violenza (soprattutto maschile) alla quale si oppone il valore umano di pochi “separati”: gli operatori della comunità, le suore, qualche esasperato di passaggio come il taxista.

Tutto considerato non credo, per chiudere, che l’ambiziosa messa in scena sia all’altezza dei più alti modelli di commedia – quella degli anni ‘60/’70 – di cui il regista vorrebbe essere l’erede.

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HOLLYWOOD BABILONIA: “L’ULTIMA PAROLA – LA VERA STORIA DI DALTON TRUMBO”, DI JAY ROACH;
“AVE, CESARE!”, DI JOEL ED ETHAN COEN
di Paolo Vecchi

“L’ultima parola” eAve, Cesare!” raccontano la Hollywood del secondo dopoguerra, mettendone in scena i protagonisti con un’ottica che più diversa non potrebbe essere. Il primo è un biopic su Dalton Trumbo, lo sceneggiatore di “Vacanze romane” e “Spartacus”, alla fine anche regista di un solo titolo, “E Johnny prese il fucile”, tratto dal suo romanzo omonimo.

Dal film “l’ultima parola”- Bryan Cranston nel ruolo di Dalton Trumbo

Come è noto, Trumbo, che era comunista, rifiutò di deporre davanti alla commissione per le attività antiamericane, venne incarcerato e finì sulla lista nera del senatore McCarthy insieme ad altri nove compagni, costretti in seguito a lavorare sotto pseudonimo. Roach lo vede come un eroe della libertà tipicamente americano, pur con tutte le sue ambiguità e contraddizioni. Con diligente piattezza di scrittura, il film alterna momenti della vita, professionale e privata, del protagonista, sequenze in bianco e nero rubate a documenti d’epoca e frammenti di film da lui sceneggiati. Questa rispettabilissima volontà di contestualizzazione stride però con l’uso di attori di oggi come sosia di divi dell’epoca (Edward G. Robinson, John Wayne, Kirk Douglas), tycoon (Louis B. Mayer), registi (Otto Preminger) e “pettegole” (Hedda Hopper). Da questo imbarazzante “effetto Noschese” si salva solo Frank King, vulcanico produttore di B-movies che esce dai panni delle altre statue di cera grazie alla ribalda caratterizzazione dell’enorme – in tutti i sensi – John Goodman, presenza assidua nei film dei Coen, dunque ulteriore trait-d’union con Ave, Cesare!Che, mettendo in scena la Hollywood dello stesso periodo, sciorina una serie di beffarde riesumazioni, delle quali lo spettatore cinefilo si può sbizzarrire a riconoscere i modelli. Così, George Clooney è un po’ il Richard Burton della “Tunica” e un po’ il Charlton Heston di “Ben Hur”, il regista omosessuale con foulard e maniere impeccabili di Ralph Fiennes ricorda George Cukor, Scarlett Johansson è immersa nelle coreografie natatorie di Esther Williams, Channing Tatum ha le fattezze e gli atteggiamenti di Gene Kelly, il cow – boy sempliciotto di Alden Ehrenreich sta tra Tom Mix e Gene Autry, la sua amichetta ha i lineamenti, gli abiti e l’incredibile pettinatura di Carmen Miranda, le gemelle Thacker, entrambe interpretate da Tilda Swinton, sono riconducibili a Louella Parsons e alla già citata Hopper.

George Clooney in “Ave, Cesare!”

Nell’ambito della filmografia dei Coen, “Ave, Cesare!” ha dunque alcuni punti di contatto con “Barton Fink”, che in maniera più allusiva rievoca la Mecca del Cinema degli anni d’oro. Qui i due autori abbandonano le atmosfere da incubo che caratterizzano la Palma d’Oro di Cannes ’91, per un grottesco di cui fanno le spese un po’ tutti i personaggi. In particolare la loro satira colpisce appunto un ben identificabile Trumbo insieme a quegli sceneggiatori di sinistra che di lì a poco sarebbero finiti nel tritacarne del maccartismo, messi in burla come un’accolita di ottusi stalinisti. Nonostante questa aggressione canagliesca, e al di là del divertimento implicito in ogni caricatura o dissacrazione, “Ave, Cesare!” non si sottrae comunque al fascino della più grande industria dei sogni del secolo scorso. A farsene interprete è il personaggio di Mannix, interpretato con finezza da Josh Brolin, tuttofare senza orario e dai compiti spesso ingrati, anche lui preso da quell’incanto un po’ straccione al quale soggiacciono tutti i membri della troupe del kolossal cristologico di fronte all’orazione del suo protagonista, salvo poi, come lo spettatore, mettersi a ridere, o a imprecare, per l’amnesia dell’attore, in uno di quei repentini salti di tonalità ai quali i Coen ci hanno fortunatamente abituato e che rendono comunque godibile anche un film che non ci sembra da annoverare tra i loro più riusciti.

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ALTRE RECENSIONI

PRETI PEDOFILI
di Marino Demata

Per una strana combinazione nella distribuzione italiana dei film, abbiamo potuto vedere in sequenza nelle nostre città prima il film di McCarthy, vincitore dell’Oscar 2016, “Il caso Spotlight” e subito dopo il film di Larrain, “Il club”, Orso d’Argento a Berlino lo scorso anno (arrivato con molto ritardo da noi). E abbiamo dunque potuto vedere due film che trattano il medesimo problema da due angoli visuali del tutto diversi. Il primo, “Il caso Spotlight” ci mostra “l’assalto” di un gruppo di giornalisti alla cittadella del potere omertoso degli alti vertici della Chiesa di Boston tesa a nascondere e finanche a proteggere un ingente numero di preti pedofili, in una sorta di film inchiesta di rara efficacia. Con “Il club” la prospettiva è in certo senso capovolta: entriamo all’interno di una ristretta comunità di preti “spretati”, perché colpevoli di orribili colpe, che avrebbero meritato processi penali, e che sono invece in un paesino sperduto della costa cilena, La Boca, ospiti di una casa intesa come luogo di meditazione e di espiazione.
Il cinema dunque, da due diverse angolazioni, ha voluto affrontare oggi il problema della pedofilia all’interno della Chiesa cattolica. E questo sta a dimostrare che il problema è tuttora molto sentito e non solo indigna chi giudica dall’esterno, ma soprattutto scuote le coscienze degli stessi cattolici, soprattutto di coloro che si mostrano più sensibili ad un rinnovamento innanzitutto morale dell’Istituzione, con la richiesta di un vero ritorno ai suoi principi originari.
In realtà la richiesta, anche su questa delicata materia, di un ritorno alle origini, non è inopportuna, perché, andando proprio alle origini, ci imbattiamo nei passi dei Vangeli contro “chi scandalizza i piccoli” e le numerose prese di posizione, nei secoli successivi, all’epoca della Patristica, di alcuni Papi e Vescovi. Ma poi il periodo del Rinascimento avrebbe conosciuto, secondo le accuse di uomini di cultura dell’epoca (oltre che attraverso le cosiddette Pasquinate), il fenomeno della pedofilia non solo da parte di preti, ma anche da parte di alcuni Papi, malgrado la Chiesa tentasse di tenere nascosti questi fenomeni.
Dunque un fenomeno e un dibattito che viene da lontano e che, a quanto pare, non ha mai perso, purtroppo di attualità. Negli Stati Uniti il fenomeno ha interessato l’opinione pubblica ancor prima dei fatti denunciati dall’equipe “Spotlight” del Boston Globe, trattati nel film di McCarthy: nell’ultimo ventennio del ‘900 emergono numerose denunce soprattutto giornalistiche ed anche la Magistratura intervenne in alcuni casi. Quale l’atteggiamento della Chiesa americana di fronte a questi casi? E’ il medesimo che ci viene descritto ne “Il caso Spotlight”: trattare con le famiglie delle vittime un risarcimento per mettere tutto a tacere e trasferire il sacerdote ad altra parrocchia o al massimo affidarlo ad un programma rieducativo. In genere la tendenza della Chiesa americana è stata quella di occultare o minimizzare tali fatti. Questo atteggiamento ha in parte funzionato fino a quando non è “esplosa” la bomba innescata dal nuovo direttore del Boston Globe, Martin Baron (nel film interpretato da Liev Schreiber), che imprime una nuova linea editoriale al giornale, che, come afferma nel film “deve diventare non importante, ma indispensabile per i cittadini di Boston”, che devono sapere quello che finora è stato tenuto nascosto. Chiede pertanto ai suoi redattori di mettere da parte le varie inchieste delle quali si stavano occupando e di concentrarsi sullo scandalo dei preti pedofili, nella certezza che il fenomeno sia più diffuso di quanto non sembri e che abbia subito insabbiamenti e depistaggi.

Un’immagine del film “Il caso spotlight”

“Il caso Spotlight” è un Oscar ben meritato, a nostro giudizio, non solo per l’onestà e la chiarezza con la quale affronta il problema dei preti pedofili, che già preoccupava non poco l’opinione pubblica americana, ma anche perché si pone con forza dirompente sulla scia di quel genere cinematografico, spesso denominato “film inchiesta”, che ha avuto illustrissimi precedenti non solo in America, ma anche in altre parti del mondo, in primis in Italia, se solo vogliamo ricordare un maestro del genere, il nostro grande Francesco Rosi. E all’interno di tale genere, “Il caso Spotlight” è riconducibile ad un sottogenere particolarmente amato negli USA, i film inchiesta a sfondo giornalistico. Basterebbe ricordare uno degli indiscussi capolavori del genere, “Tutti gli uomini del Presidente”, di Alan J. Pakula del 1976, che porta sugli schermi la famosa inchiesta di un gruppo di giornalisti del Washington Post nel 1972, che smascherò le responsabilità del Presidente repubblicano Nixon nel cosiddetto caso Watergate, costringendolo poi alle dimissioni due anni dopo.
Il film potrebbe essere definito come la storia della progressiva scoperta da parte del team Spotlight del Boston Globe di prove inconfutabili della copertura e della omertà dei vertici delle gerarchie ecclesiastiche di fronte al problema. Una inchiesta da parte di quei giovani giornalisti d’assalto così strategicamente ben concepita e di così rara efficacia, da meritare nel 2003 il Premio Pulitzer di pubblico servizio al quotidiano.
Questo perché, come ci descrive il film, l’inchiesta portata avanti dal team Spotlight, che opera con gioco di squadra al’interno della redazione del Boston Globe, riesce ad andare alla radice del problema, smascherare un sistema di omertà, connivenze e soprattutto insabbiamenti che è il vero cancro che rode la Chiesa di Boston e di altre comunità ecclesiali americane. E, ironia della sorte, uno dei mezzi viene involontariamente fornito proprio dalla Chiesa di Boston, che pubblica annualmente l’elenco dei parroci e che, per alcuni di essi , indica che sono stati trasferiti per ragioni di salute o per altre motivazioni. Questi ultimi sono appunto i preti pedofili, la cui lista viene dunque fornita al team di giornalisti su un piatto d’argento dalla pubblicazione della curia e il cui numero si avvicina addirittura a 90. Lo scandalo è che quei preti, anziché pagare per le loro malefatte, che spesso hanno provocato il suicidio delle loro vittime, o comunque guasti irreparabili per le loro vite, vengono semplicemente trasferiti ad altra diocesi, ove continueranno a commettere altri crimini. Al vertice del sistema omertoso troviamo il numero uno della Diocesi di Boston, quel Cardinale Law, che coinvolto pesantemente nell’inchiesta, che da giornalistica diverrà giudiziaria, riceve paradossalmente, in omaggio all’immorale ma diffusissimo principio del “promoveatur ut amoveatur”, varie promozioni, come ricorda il film, tra le quali quella clamorosa ad arciprete della Papale Basilica Liberiana di Santa Maria Maggiore a Roma, ove sembra che si trovi tuttora, malgrado lo sdegno di Papa Francesco che avrebbe rifiutato di incontrarlo. Ma a quanto pare l’ex numero uno della Chiesa Cattolica di Boston è ancora lì. Evidentemente inamovibile!
In ogni caso uno dei meriti del film di McCarthy è di aver riaccesa la discussione anche all’interno dello stesso mondo cattolico, che sembra oggi decisamente più sensibile a fronteggiare il problema non con armi a salve come una volta. “Famiglia Cristiana” di alcune settimane fa riporta un’intervista a Don Di Noto, che ha fatto della denunzia e della lotta alla pedofilia tra i sacerdoti uno degli assi portanti della sua vita. Don Di Noto ribadisce che chi si macchia di tali crimini deve essere considerato automaticamente fuori dalla Chiesa. In questo senso molti passi sono stati fatti, ma non sono ancora sufficienti: “Nel mio girare per le diocesi italiane mi sono imbattuto più d’una volta in vescovi che non mi pareva avessero colto per nulla la pericolosità e la dinamica di questa perversione, e i disastri che causa nelle vittime”. In questa campagna Don Di Noto è guidato anche dalla consapevolezza dei gravi danni subiti dalle vittime degli abusi, le cui storie sono ora raccolte in un libro: “Abbiamo ritrovato la vita”, che è una raccolta di lettere delle vittime.
In effetti in molti atteggiamenti anche recenti della Chiesa sembra emergere più una preoccupazione per il danno di immagine dell’Istituzione, che non per i danni irreparabili per le vittime degli abusi.
L’altro film che affronta il medesimo problema, “Il club”, del cileno Pablo Larrain (autore di grandi opere quali “Tony Manero”, “Post mortem” e “No. I giorni dell’arcobaleno”), si pone in un angolo visuale completamente diverso. Una piccola comunità di quattro preti spretati per pedofilia ed altri crimini odiosi in un paesino della costa viene vista “dall’interno”, ove la prima cosa che stupisce è la non piena consapevolezza dei quattro personaggi di aver compiuto cose gravissime.

Dal film “Il club”

Quasi si meravigliano di essere dove sono. Ma c’è un quinto ex sacerdote che non può avere lo stesso atteggiamento. Egli infatti è pedinato, quasi braccato in ogni suo spostamento da una delle sue vittime, soprannominato Sandokan, che gli ricorda dalla strada, urlando, tutto il male che gli ha fatto, senza mezzi termini, ma anzi con la stessa volgarità di cui erano piene le azioni subite. Il quinto prete arriva anch’egli nella casa che ospita gli altri quattro e non resiste più alle urla volgari e scende in strada con una rivoltella datagli da Monica, la sorvegliante della casa. Si uccide davanti alla sua stessa vittima, chiudendo così un cerchio di intensa drammaticità. Ma il cerchio si chiude fino ad un certo punto: Sandokan continuerà ad urlare in strada la sua straziante storia di vittima degli abusi che gli hanno marchiato definitivamente l’animo.
E’ questo del suicidio del prete un episodio che scuote apparentemente la piccola comunità dei quattro spretati e della strana sorvegliante. In realtà ben presto tutti riprendono la solita vita, che poi di vita è solo un simulacro: In quella strana casa arroccata su un’altura, che ricorda forse non casualmente la casa ove si consumavano gli assassinii di “Psyco” di Hitchcock, i quattro ex-preti hanno la medesima vitalità della madre impagliata nella cantina di Anthony Perkins!
Gruppo di sacerdoti in un interno: giusto per parafrasare il titolo di un bellissimo film di Visconti. L’abilità di Larrain consiste infatti proprio nel farci calare nelle loro discussioni, nei loro rari movimenti, nel farci prendere il posto della macchina da presa per attaccarci a loro, inquadrati sempre in maniera diretta, in primi piani ravvicinati. E per seguirli nella loro quotidianità senz’anima. In un piccolo soggiorno la macchina da presa indugia su quelli che hanno abusato di bambini e di ragazzi e in pratica hanno distrutto le loro vite. In questo strano “club” c’è inoltre chi ha pienamente collaborato con Pinochet, utilizzando il potere per le proprie finalità e per alimentare i propri vizi; e c’è chi si è dedicato perfino al traffico dei bambini. Ora sono lì, quattro di loro, sorvegliati e curati da una suora, anch’ella privata dei propri abiti sacrali e quindi non priva a sua volta di trascorsi non proprio limpidi.
In quel luogo non possono avere rapporti con altre persone né intrattenere amicizie. Uno dei quattro, Padre Vidal (Alfredo Castro, l’attore più utilizzato dal Larrain), coltiva la passione per le corse dei levrieri e a sua volta alleva ed allena un proprio levriero (“L’unica razza di cani citata nella Bibbia”), e ne fa anche oggetto di scommesse, anche se può guardare le corse solo da lontano col binocolo (i quattro non possono avere rapporti con altre persone). Ad assistere il cane ai nastri di partenza ci pensa la sorvegliante, Monica.
Proprio perché il fenomeno Larrain indugia sulla psicologia dei quattro personaggi e sulla loro strana e per loro in parte inspiegata agonia, il film ha una forza e una portata drammatica e polemica superiore a “Il caso Spotlight”. E, rispetto alla linearità di quest’ultimo, è invece denso di significati palesi ed occulti, ricco di metafore che spingono lo spettatore a riflettere al di la della vicenda illustrata, già di per sé raccapricciante.
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“L’OMBRA DEL DUBBIO: ZONA D’OMBRA”
di Francesco Saverio Marzaduri

zona ombraC’è del buono. Con tale definizione l’autorevole rivista “Segnocinema” usava indicare, nei propri pagellini, quelle pellicole dotate di un’impronta suggestiva, o comunque interessante, nonostante la fragilità dell’esito. Nel caso in esame, verrebbe da dire “c’è del buono” dopo la visione di un prodotto come “Zona d’ombra – Una scomoda verità,” che le anteprime dello scorso inverno annunciavano come un atipico thriller, senza venir meno a risvolti indagatori e pervaso, qua e là, di venature fantapolitiche.

Beninteso: la visione del film diretto da Peter Landesman non delude le aspettative, anche se solo in parte. Sfaccettature fantapolitiche non ne reca, ma un’indagine sì: e la vera novità in un simile prodotto, benché non sia chiaro se si tratti di un difetto o di una qualità, consiste nel non saper bene in che direzione condurre un intreccio thrilling a sfondo sportivo. Si rischia persino qualche difficoltà quando il discorso si vela di sfumature psicologiche, nella fattispecie inerenti la figura principale: un patologo afroamericano, visibilmente ingenuo e non particolarmente esperto su usi e costumi dell’american way of life, determinato tuttavia a far luce su un caso, proprio di questi tempi tornato attualissimo. Ovvero, la scoperta di una malattia degenerativa del cervello (l’encefalopatia cronica traumatica) che colpiva i giocatori di football vittime di ripetuti traumi al capo. Durante la propria testarda ricerca, il medico tenta di smantellare lo status quo dell’ambiente sportivo che, per ovvi interessi economici (e politici), mette consapevolmente a repentaglio la salute degli atleti.

Lo spunto sarebbe suggestivo, e in un certo senso mostra di esserlo nella resa scenica, perché gli ingredienti per apparire qualcosa di diverso dagli usuali gialli ad inchiesta, in “Zona d’ombra,” ci sarebbero: tali però da avvincere un pubblico che si contenta di prodotti simil-televisivi, e comunque è lecito aspettarsi di più dalla media confezione. Dove sta il difetto? Ciò che potrebbe essere una virtù, almeno nella prima metà, si stempera ben presto in un’indecisione del regista-sceneggiatore, tra il dire quanto più possibile su una storia buia (paradossalmente, una parentesi nuova per l’osservatore non americano), e al contempo il seguire ogni singola traccia d’azione del solitario protagonista. Il che finisce col dissipare ineludibilmente ogni originaria intenzione giallistica, e ci si trova di fronte all’ennesimo (superfluo?) biopic su un altro eroe dei nostri tempi.

Distribuito in un momento particolarmente caldo della politica americana, in cui partito repubblicano e democratico giungono a un palpitante showdown come non accadeva dallo scontro Bush-Clinton, “Zona d’ombra” si può riporre in tutta tranquillità nel novero di quei recenti lavori che, mirando alla ricerca di una verità rischiosa quando non scomoda, ripropongono la formula che mescola l’inchiesta alla denuncia. Nella più parte dei casi la prima anticipa la seconda, giacché è più interessante il rischioso sforzo per individuare e produrre prove tangibili che suonino come un monito d’allarme; e visto che siamo in America, almeno al cinema, che tali prove s’impongano come una rivincita della giustizia sul marciume. La vicenda è sempre quella, neanche troppo in camuffa, di Davide contro Golia, tanto più che il protagonista è un religioso (ed è sua una battuta memorabile che contrappone lo sport alla religione): ma a dispetto degli altrettanto recenti “Il caso Spotlight” e “Truth” (di cui “Il prezzo della verità,” non a caso, era il sottotitolo italiano), non è un cronista l’eroe probo e onesto, ostinato nel proprio desiderio di far luce sulle emicranie che affliggono, e uccidono, alcune leggende del football. E il fatto che “Zona d’ombra” ambisca a equipararsi a un certo cinema d’impegno – intellettualmente utile quanto non necessario, come mostra l’opera in questione – lo prova la scelta di un medico intriso di candore e genuino idealismo, che ne fa un Forrest Gump di disarmante sincerità, molto meno allocco del prototipo. Si aggiunga che l’eroe è di quella carnagione scura divenuta abitudine nelle pellicole statunitensi liberal degli anni Sessanta, che in Sidney Poitier trovavano l’eponima icona.

Alec Baldwin e Will Smith

Alec Baldwin e Will Smith

Questo lavoro di Landesman, già cimentatosi nel film-inchiesta con “Parkland” sull’omicidio Kennedy, segue le mosse del dottor Bennet Omalu – nigeriano emigrato a Pittsburgh, ancora non integrato con l’America e con le sue passioni e contraddizioni – in un pellegrinaggio sempre più pericoloso, e con ostilità crescenti che lui affronta sempre col sorriso sulle labbra. C’è chi lo considera un suonato, perché parla con le salme suscitando l’ilarità di chi gli è intorno, senza che questi comprendano (e d’altronde neppure vogliano comprendere) il motivo di tale modus operandi. Bennet è una creatura che farebbe la gioia della politique spielbergiana, benefico alieno in un’area inquietante e sinistra, anch’egli portavoce di una missione salvifica (“celestiale,” oseremmo dire), come suggerisce la scelta di pagare di tasca propria alcuni costosi esami, indispensabili per la ricerca. La scelta di un divo new age quale Will Smith, in una parte che calzerebbe a pennello per il bianco Tom Hanks, è studiata allo scopo di proseguire la gamma di eroi alle prese col perenne compito di salvare il pianeta, che da “Independence Day” a “Men in Black,” passando per “Io sono leggenda,” “Hancock” o i lavori americani di Muccino (e tra gli eroi realmente esistiti non si può non ricordare Muhammad Ali), hanno fatto dell’interprete afroamericano un’icona carismatica ed edificante. È l’accattivante simpatia di Smith – e non potrebbe essere altrimenti – a consentire allo spettatore di seguirne impacci e ostacoli, caparbietà e volontà, forza e coraggio, per approdare alla scoperta della “concussione” del titolo originale, la commozione cerebrale. Dal canto proprio, Landesman tende spesso a inquadrare l’attore “stringendo” la cinecamera, abbondando in primi piani sui suoi sguardi, sui dettagli degli occhi neri e penetranti, e confezionando quello ch’è un film cucito su misura. Perché prima di essere una vicenda di cronaca medica e sportiva, il film è la storia della battaglia personale, professionale e sociale di un emarginato: l’altro binario del racconto, infatti, è la lotta di Omalu per diventare cittadino di un Paese che ama senza esserne, al momento, riamato.

La prima parte, che contempla il solito risvolto sentimentale per il protagonista (e l’anima gemella, pure, è una nigeriana “fuori dal mondo”), mantiene l’indagine con fedeltà scenica, doviziosamente attenta a non tradire sfumature thrilling che in più d’un momento ben alimentano il senso di crescente tensione. L’aspetto alquanto inusuale risiede nell’alternanza di inserti cronachistico-sportivi (si pensi ai titoli in apertura) tesi a restituire un’impronta documentaristica in cui retorica agonistica e climax patriottardo se la vedono con la propria labilità, smascherata dalla denuncia di zone d’ombra, cui si riferisce il titolo italiano, accuratamente celate. Nondimeno, forse per indecisione nel tener desta l’attenzione del pubblico, l’opera di Landesman si arena a un dubbio che dalla seconda parte si estende sino alla conclusione: il timore di non voler andare fino in fondo, quando molti pezzi del mosaico sono disposti in modo da permettere una visione del problema tutto sommato chiara.

Così, quando la narrazione presenta episodi in cui il Potere ritorce contro sé stesso la macchinazione (e perfino qualche importante nome della politica rimane stritolato), il dipanarsi di Landesman nelle trame dell’inchiesta si alterna in modo frammentario alle scottanti scoperte di Bennet e al privato di questi, sino a coinvolgere – va da sé – anche coloro che gli sono a fianco. L’ordinaria amministrazione non si fa attendere, e fattori quali le minacce, le intimidazioni, i ripetuti stalking e le omertà, dopo che il patologo pubblica un articolo contro la National Football League, rientrano nello standard ormai abusato del genere. Né si omette un senso di paranoia, dapprincipio sottile e via via palpitante, quando la moglie di Omalu teme di essere pedinata a mo’ di avvertimento da chi vorrebbe far tacere la questione. Tutti espedienti collaudati, funzionali all’operazione e calcolati per far sì che lo spettatore non si rilasci allo sbadiglio, il che invece accade: ciò, inevitabile, va a scapito di un’organica omogeneità, scissa tra la voglia di denunciare una torbida parentesi di storia americana recente (di cui il film costituisce il primo capitolo, senza strillare nulla di nuovo nello spettacolo a effetto) e il disegno, psicologico e risoluto del personaggio principale. Il fatto che tante persone coinvolte nello scandalo decidano, benché di nascosto, di collaborare con Bennet o di dargli qualche dritta, ben si allinea con la scelta del classico happy ending anche per un thriller dai contorni tutt’altro che colmi di speranza.

Ebbene sì: il candido e niente affatto ingenuo ottimismo del protagonista – pervicace come centomila altre figure mitiche della storia nordamericana – è l’essenziale ragione d’interesse (e della parziale riuscita) di “Zona d’ombra,” nel quale fanno capolino tanti volti noti (Alec Baldwin, Albert Brooks, Arliss Howard, David Morse, Paul Reiser). Il suo puntare il dito verso i responsabili, pacato e tenace, affinché dicano la verità per il bene dell’America entro una cornice idealista e politically correct, fa il paio col bizzarro tentativo di spiegare il football, lui che non conosce affatto le abitudini a stelle e strisce, agli squali dell’istituzione meravigliati dalle sue maniere catechizzanti. E al termine di tutto, consapevole che la (sua) battaglia non è ancora terminata, lo vediamo assistere a una partita di football giocata, in modo anche violento, da alcuni ragazzi: perché il lato agonistico della cosa è parte della cultura sociale del Paese, e ha radici profondamente americane che lui intende far proprie. In un compitino ben confezionato, che assortisce temi studiatamente ammiccanti quanto logori (il conflitto d’interessi, il self made man, gli States come terra delle opportunità…), “Zona d’ombra” non si esime dalla considerazione che, se l’American Dream è possibile a volte, è il Fato a permetterne la realizzazione. Altro irrinunciabile topos, le didascalie conclusive che informano circa la sorte del patologo, accolto positivamente solo molto dopo, quando una vittima donò per testamento il cervello alla scienza: questo permise di effettuare ulteriori studi e addirittura spalancò a Omalu le porte della Casa Bianca, quale patologo forense dell’America. Di nuovo, l’America e le sue contraddizioni misurate con la persistente necessità d’inventarsi (e aggrapparsi a) nuovi miti: ma ce n’è ancora bisogno?

DOCUMENTARI E DOCUMENTARISTI

IL SALE DELLA TERRA – Rubrica di documentarismo, cinema della realtà,
fotografia sociale, realismi narrativi a cura di Marcello Cella

 

LA FABBRICA E IL FALSO – VERITÀ SULLA MIA BAMBOLA
di Marcello Cella

Questa rubrica nasce come tentativo di riflettere e far riflettere su quello che consideriamo e definiamo, nel cinema, come in altre realizzazioni dell’ingegno umano, come “realtà”. Se questo è vero un documentario come “La fabbrica fantasma – Verità sulla mia bambola” di Mimmo Calopresti, nonostante la sua apparenza di riflessione personale sul mercato del falso, si presta a numerose considerazioni e non solo sul concetto di realtà, ma sulla sostanza stessa di un processo storico in cui ci troviamo immersi, quello della cosiddetta globalizzazione economica.

Il regista Mimmo Calopresti

Il regista Mimmo Calopresti

L’opera di Calopresti che per comodità definiamo documentario, ma che incrocia altri generi di narrazione come il reportage giornalistico, la narrazione diaristica o il resoconto di viaggio, racconta il mondo della contraffazione attraversando città e culture le più diverse, da Torino a Napoli e poi in Ungheria e Ucraina sulle tracce dei trafficanti che invadono i mercati europei di prodotti dannosi per l’economia e spesso anche per la salute dei consumatori, soprattutto quella dei bambini.

Il mercato di Budapest

Il mercato di Budapest

Una produzione, una “fabbrica” che tutti conoscono, ma che nessuno è disposto a denunciare, relegata ai margini dell’impero, in non luoghi che hanno spesso, significativamente, preso il posto di luoghi con una storia e un’identità ben precisa, come le vecchie fabbriche manifatturiere, facendo evaporare le antiche divisioni di classe, ben lungi peraltro da essere superate, nascondendole dietro una “vetrina” permanente di oggetti, merci in perpetua disponibilità dei “consumatori”. In questo senso il titolo del documentario di Mimmo Calopresti, “La fabbrica fantasma” è molto azzeccato: in effetti la realtà della produzione e dei rapporti di classe che essa sottende anche oggi non è per niente superata, ma si presenta come entità fantasmatica, come oblio dietro una sterminata quantità di oggetti colorati che appaiono al consumatore come nati dal nulla, oggetti senza storia, “apparsi”, non prodotti da qualcuno. Ma quella fabbrica esiste, per quanto frammentata e dai contorni geografici e temporali ambigui, e il merito del documentario di Calopresti è proprio quello di rivelarlo agli spettatori nella sua crudezza materiale e nella sua pericolosa natura classista e mortifera, con toni che a volte possono perfino apparire didascalici, ma che in realtà non abbandonano mai la strada di una sorta di intima riflessione di viaggio, un viaggio sulla natura di quello che noi siamo abituati a chiamare con il termine etico ed esistenziale di “realtà”. Va detto che il fine de “La fabbrica fantasma” è in effetti anche un intento etico.

“La fabbrica fantasma”

Infatti questo documentario è inserito nel forum multimediale di informazione contro le mafie “A mano disarmata” e sostenuto dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana. Ma sarebbe un errore considerarlo solo un’opera di denuncia contro un cancro che sta distruggendo economie, società, intelligenze. La denuncia ovviamente c’è ed è chiara a partire dai dati che vengono portati alla riflessione dello spettatore. Il mercato del falso in Italia produce ricavi per le mafie pari a 6 miliardi e 535 milioni di euro ogni anno e toglie all’economia legale 105.000 lavoratori a tempo pieno. I falsi rappresentano il 12% del mercato dei giocattoli in Italia. A Napoli una sigaretta su 3 è di contrabbando. I settori più colpiti dalla contraffazione sono abbigliamento (34,3% dell’intero valore), cd, dvd e software (27,3% del totale) e prodotti alimentari (15,8% del totale). Lo stesso Calopresti dichiara: “Comprando merci contraffatte ed illegali non solo finanziamo la mafia internazionale, ma facciamo un danno a tutto il sistema economico e produttivo. Creiamo schiavitù, povertà, inquinamento e in più rischiamo di danneggiare la nostra salute. Insomma, un disastro”. Ma c’è un danno più subdolo, e forse anche peggiore di quelli elencati, che l’autore torinese paventa nel suo bel documentario: quello di distruggere la fiducia delle persone nel mondo in cui vivono, la loro capacità di sognare un mondo diverso, o anche solo di giocare con trasporto ingenuo con oggetti e simboli, come fanno i bambini, abbandonandosi alla loro verità immaginifica. Ed è proprio da una riflessione del regista stesso con la sua bambina, Clio, di fronte ad un servizio televisivo sull’esodo dei migranti attraverso i Balcani della scorsa estate che inizia il suo viaggio all’incontrario, dai giocattoli e dalle bambole della bambina alle origini di questa produzione. Il regista e sua figlia, insieme ai suoi amichetti, commossi dalle immagini dei bambini migranti, decidono di fare un’opera benefica, vendere una parte dei loro giocattoli per comprarne di nuovi per loro. Ed è in questo momento che scoprono un’altra realtà, quella del falso, che si nasconde dietro le forme ed i colori ammiccanti dei prodotti per bambini, e che a sua volta nasconde, come in una scatola cinese, la reale consistenza etica di un modo di produrre e di una struttura sociale che, mentre da una parte pretende libertà assoluta di movimento (quella delle merci), non è disposta a concedere la stessa possibilità di movimento alle persone. “Perchè gli Stati erigono muri per impedire il passaggio di migranti e invece non riescono a controllare il transito di merci contraffatte?”, si chiede Calopresti. A questa domanda nessuno risponde, ma la risposta sta nel viaggio del regista da Torino a Napoli e poi in Ungheria e nelle riflessioni amare che lo accompagnano in questo sfacelo di diritti, in questo panorama sterminato di bruttezza, miseria umana e infelicità assoluta che i colori plastificati, omologati e falsi delle merci contraffatte non riescono a nascondere. Il mercato del falso consente di accumulare enormi ricchezze e profitti esentasse, sfruttando i lavoratori fino a ridurli in condizione di semischiavitù, aggirando leggi e norme a difesa dei cittadini, e condizionando in modo diretto o indiretto le scelte di politica economica dei singoli stati. Ma soprattutto ciò che emerge con forza dal documentario di Calopresti è proprio la bruttezza di un modo di produrre e di consumare che azzera la storia, le culture, le vite, la capacità di distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, la stessa capacità di sognare, rivelato dalla citazione finale di Dostoevskij, “la bellezza salverà il mondo”, ma soprattutto dalla frase che il regista ripete alla sua bambina durante la visita immaginifica alla mostra della Barbie nelle strutture dell’ex fabbrica Ansaldo di Genova, che suona come un monito e un obiettivo da raggiungere per tutti noi se vogliamo preservare la nostra più intima natura umana: “dobbiamo ripristinare la verità contro il falso”.

“La fabbrica fantasma – Verità sulla mia bambola”
da un’idea di Paolo Butturini
Regia: Mimmo Calopresti
Soggetto: Mimmo Calopresti, Roberto Benini
Sceneggiatura: Mimmo Calopresti, Luigi Politano
Produzione: Silvia Innocenzi e Giovanni saulini per Magda Film
Fotografia: Alessandro Dominici, Leone Orfeo, Carlo Boni
Montaggio: Valerio Quintarelli
Durata : 50′
Italia, 2016

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NEOCINEMA a cura di Elio Girlanda

MAPPE DIGITALI di Elio Girlanda

In questa rubrica raccontiamo sempre le mutazioni profonde che il cinema e i media stanno vivendo grazie alle nuove tecnologie che, come ha sintetizzato recentemente lo scrittore Nick Hornby a proposito della rivoluzione nella musica e nell’industria discografica, «ci fanno diventare più informati, più istruiti, probabilmente più sperimentali». Stavolta non parleremo pero di nuovi dispositivi o di altre modalità produttive quanto di “mappe”, di geografie delle immagini digitali, quali ci forniscono alcune pubblicazioni recenti. Sono materiali di studio e di analisi di grande utilità per tutti gli operatori del settore, spettatori compresi, data la confusione che regna sovrana in una fase di rapida transizione come l’attuale.

Inforg, infosfera, realtà aumentata, ubiquità computazionale, videomapping, Internet delle cose… Oltreché dalle immagini, siamo invasi quotidianamente anche da nuove parole e da tante esperienze di ibridazione di forme e contenuti. Quindi sorgono continuamente domande o bisogni di conoscenza e, insieme, risposte di applicativi o di invenzioni che possono mutare lo scenario, basato ormai su alcuni punti fermi. Il computer e Internet infatti hanno dato luogo a una nuova rivoluzione industriale, la “quarta”, e a un ambiente globale costruito dalle informazioni (infosfera) dove interagiscono agenti biologici, artefatti e organismi informazionali interconnessi (inforg). Si tratta di un ambiente, di un nuovo habitat per l’uomo, di un’ecosistema dei media, dove il digitale si sta diffondendo nell’analogico e confondendo con esso, con caratteristiche in continua trasformazione.

È il caso della rete o del web che, dopo le sue sei epoche storiche, secondo la ricostruzione fatta da Gabriele Balbi e Paolo Malagudda in Storia dei media digitali (Laterza, 2014), è in una fase di passaggio: dal web 2.0 (dai social network al crowdfunding), dopo il web 1.0 (dai motori di ricerca ai link), al web 3.0 o Internet delle cose. Quando, cioè, a essere interconnessi tra loro saranno gli oggetti “intelligenti”(dagli elettrodomestici alle automobili, dagli smartwatch alle videocamere di sorveglianza o personali ecc.), in grado di segnalare i flussi regolari ma anche i guasti o i problemi, migliorando la vita domestica, il traffico, la salute, i commerci ecc.. Ebbene, c’è già chi prova a immaginare il web 4.0 con le possibili ricadute sul comparto dell’audiovisivo (ovvero ”il cinema post-oculare: dal real time al virtual time”) sia dal punto di vista dei produttori di immagini sia da parte dei consumatori, ormai identificabili come prosumer (professionisti e consumatori, insieme) o, meglio, pro-am (professionisti e amatori, insieme). Quando, cioè, a essere interconnessi e a co-produrre lo “spazio-immagine” della rete saranno gli automi, i robot, i sistemi di scrittura automatica o di Intelligenza Artificiale, se non addirittura le nostre protesi bioniche, gli esoscheletri, ovvero le interfacce cervello-computer.

oltre il corpo

È questo uno degli scenari analizzati e prefigurati nei saggi della rivista “Imago” (n. 12, secondo semestre 2015, Bulzoni Editore), promossa e curata dal Dipartimento di Storia dell’Arte e dello Spettacolo di Sapienza Università di Roma e dal Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell’Università Roma Tre. Già nel titolo del numero monografico, “Oltre il corpo del cinema. Reti, virtualità, apparati”, curato da Christian Uva e Vito Zagarrio, si gioca sull’ambiguità della parola “corpo”. Si parte; quindi, dal “corpo sacro” del cinema che è oggetto di continue manipolazioni in questi ultimi anni, per arrivare alla fusione del corpo del cinema con quello di altri media sempre più affini e pervasivi, come i videogame, senza tralasciare il “corpo” dei saperi e delle conoscenze intorno al cinema (nel saggio di Marco Maria Gazzano), oggi in profonda revisione o allargamento, se davvero il cinema sempre più dialoga o interferisce per esempio con la fisica teorica.

Così, dai social come ambienti pervasivi digitali (Enrico Menduni) alle esperienze di cinema più che immersivo come Realtà Aumentata, Realtà Virtuale, cinema neurale (Simone Arcagni), dai locative media o tecnologie di geolocalizzazione e mappe digitali nei dispositivi mobili (Erica Romano) all’esperienza ipermediale tra cinema e media digitali (Elio Ugenti), passando attraverso l’analisi di film o casi esemplari come il “cinema” ibridato di Costanza Quatriglio, la saga di Twilight, The Walk di Robert Zemeckis (la vertigine del nuovo 3D digitale) o Enter the Void di Gaspar Noé,

il viaggio scientifico della Rivista continua con numerosi saggi, divisi in due sezioni: “spazi virtuali” ed “End Game,”.

The Walk di Robert Zemeckis

The Walk di Robert Zemeckis

Ecco che si rivela il vero filo conduttore di questo come di altri contributi recenti in materia: la nascita, la morte e la continua rigenerazione del corpo del cinema a cui, nell’intervento che apre la Rivista subito dopo il ricordo di Gianni Rondolino da parte di Paolo Bertetto (“La storia, la ricerca, la sperimentazione”), si richiama anche il presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia, Stefano Rulli, in occasione dei primi 80 anni del Centro. «Se dunque la narrazione per immagini ci pone il problema di una crisi dell’ordine costituito precedente, va detto che si tratta di una crisi di crescita e non una minaccia di morte».

Come “addentrarsi in un territorio impervio” ovvero in un universo dell’audiovisivo sempre più fluido e spesso inclassificabile? Solo un approccio multidiscipinare, che mette insieme campi di ricerca diversi (media studies, film studies, sociologia, game studies, studi su Internet e sul sistema informatico, design e architettura), può servire a sondare i nuovi territori e a mappare la galassia di forme nuove che va sotto il nome di “postcinema”. È questo l’intento scientifico e, insieme, divulgativo, di Simone Arcagni che in Visioni digitali (Einaudi, 2016) ci fornisce finalmente una cartografia aggiornata, esauriente e, insieme, aperta, di tutti quei fenomeni ed esperienze, soprattutto nell’audiovisivo, che coesistono e s’incrociano in modi inediti e radicali sia nei contenuti sia nelle tecnologie, che nelle pratiche, sia nei modelli di fruizione. Dal “postcinema”, quindi, inteso come un organismo fatto di molti elementi eterogenei o come quel “dispositivo” che raccoglie forme, modi pratiche e tecnologie che caratterizzano l’audiovisivo dell’infosfera digitale, fino agli scenari futuri della società postmediale, dove, cioè, i media tradizionali sono sempre più colonizzati dalle tecnologie digitali, l’autore s’interessa a quanto il “cinema” incida nell’uso delle nuove tecnologie. Dalle pratiche di remix, mash-up e VJing, alla live media experience che coinvolge anche il cinema (live cinema) e maestri “analogici” come Francis Ford Coppola, fino alla ricerca del cinema “perfetto” o “totale” che, peraltro, s’intravvede con standard tecnologici, già disponibili sul mercato, come l’Ultra HD o l’Ultra Real.

visioni digitali

«Parliamo di continuità con il cinema oppure di recupero di forme, modi, modelli, immaginari, linguaggi; esperienze e ricordi del cinema all’interno di nuove testualità che rispondono alle esigenze di un assetto tecnologico cambiato e a nuovi modelli della comunicazione?», si chiede Arcagni che da anni, accanto al lavoro di docente presso l’Università di Palermo, si preoccupa di aggiornarci con i suoi articoli puntuali su “Nova – Il Sole 24 Ore” o su riviste di cinema e di nuovi media.

Ecco, infine, l’altro filo conduttore, molto intrigante, di questi strumenti utili non solo agli studenti e agli studiosi ma a tutti i soggetti attivi della società digitale. Qual è il futuro prossimo della comunicazione e dell’audiovisivo? Siamo in grado di prevedere, con relativa certezza, quello che avverrà nei prossimi anni con l’interconnessione tra uomo e computer? Se davvero le macchine possono pensare, elaborare concetti, come si domandava Alan Turing, Arcagni conclude il suo viaggio nel postcinema, alla luce del dilemma “futuristico o futurologico?”, così: «Se il parallelismo tra cervello e computer regge, parliamo del pensiero di un ipotetico lobo sinistro del cervello artificiale. Una macchina che pensa per audiovisivo sembra d’altro canto la concretizzazione di quel sistema nervoso esterno teorizzato da McLuhan: i media come protesi dei nostri sensi e la loro unione come un sistema nervoso alternativo, esteriorizzato… […] …to be continued!».

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QUALITA’ IN SERIE

Presentata su Sky Atlantic in sei puntante, “The Night Manager” , ispirata all’omonimo romanzo di John Le Carré del 1993, è la nuova serie diretta dalla regista premio Oscar Susanne Bier e vede opporsi il coraggioso direttore d’albergo Jonathan Pine al malvagio Richard Roper, interpretato da Hugh Laurie.

THE NIGHT MANAGER di Luisa Ceretto

Jonathan Pine è un ex militare che si è reinventato direttore d’albergo notturno, in un lussuoso hotel del Cairo. Una sera fa la conoscenza di una cliente, Sophie, amante di Freddie Hamid componente di una potente famiglia egiziana. La donna gli affida documenti che rivelano preziose informazioni su Richard Roper, un contrabbandiere d’armi, il quale gestisce da decenni una spietata organizzazione criminale. Il tradimento di Sophie ne causa la morte, malgrado i tentativi di Pine di proteggerla e portarla in un nascondiglio fuori dalla capitale…Trascorrono quattro anni e Pine, nel frattempo, lavora in un albergo in Svizzera, a Zermat, dove lo raggiunge Angela Burr, agente dell’intelligence britannica da tempo sulle tracce del criminale. La donna convince Jonathan a lavorare per lei, a infiltrarsi nella “famiglia” di Roper. Operando sotto una falsa identità da malavitoso fuggiasco, l’uomo riesce a farsi accettare e a introdursi, così, nel mondo del contrabbandiere, ottenendo la sua fiducia e stima, sfruttando il punto debole del temibile avversario, il figlio…

Miniserie televisiva britannico-statunitense, divisa in sei parti, “The Night Manager” è stata presentata in anteprima all’ultima edizione del Festival di Berlino, riscuotendo un grande successo.

Tratta dal romanzo omonimo firmato da John Le Carré, scritto nel 1993, rispetto al testo originario ambientato negli anni novanta, la serie propone uno slittamento temporale. La prima puntata apre infatti sullo sfondo dei violenti disordini e scontri che nel gennaio 2011 porteranno alle dimissioni del presidente Mubarak.

Elizabeth Debicki e Tom Hollander in “The Night Manager”

Sullo sfondo di una pagina di Storia tutt’ora tragicamente aperta, “The Night Manager” è una spy story firmata da Susanne Bier. La regista danese si è cimentata nella realizzazione di “The Night Manager” senza avere modelli cinematografici o televisivi precostituiti, ma con il desiderio tuttavia di lavorare intorno alla caratterizzazione dei personaggi, a partire dalla lettura del romanzo che conosceva piuttosto bene. E’ infatti soprattutto il gioco tra i due protagonisti maschili il punto di forza intorno a cui ha costruito l’intera narrazione. Una sorta di gioco seduttivo tra i due uomini, Richard Roper, uno spregiudicato uomo d’affari, come dichiara la stessa regista “è l’uomo peggiore del mondo ma è anche quello che vorresti accanto a te a una cena, un uomo cinico, corrotto, cattivo ma non privo di seduzione” e Jonathan Pine, pronto a tutto pur di vendicare la morte della sua donna, e a incastrare definitivamente quello che ritiene incarnare il male assoluto. “The Night Manager” racconta il lento e inesorabile avvicinarsi di due personaggi, agli antipodi eppure con elementi in comune, animati da un’ambiguità e contraddittorietà di fondo.

Ad interpretare Roper un bravissimo Hugh Laurie, che definisce il proprio personaggio “diavolo” e che in quella strana danza col suo nemico, sono entrambi attratti da qualcos’altro, ritrova risonanze, elementi di Cuore di tenebra di Joseph Conrad.

Personaggio complesso, Pine non incarna il Bene assoluto, ma in ogni caso è deciso a contrastare e combattere l’uomo, a uccidere il mostro. Intorno a loro, un universo di personaggi sapientemente tratteggiati. A partire dall’agente infaticabile, Angela Burr, in dolce attesa, isolata e osteggiata dalle istituzioni e pure infaticabile nel perseguire la sua caccia al colpevole. Il fidato Major Lance Corkoran, braccio destro di Roper, eccentrico ed esuberante, col vizio dell’alcool, il solo ad avere dei dubbi nei confronti di Jonathan. E non poteva mancare la donna del boss, la bella Jed Marshall, che tuttavia nasconde un passato e un figlio.

Girato in Marocco, Spagna e in Svizzera, tra alberghi di lusso e ville al limite del kitch, con “The Night Manager” Susanne Bier riesce a trovare il giusto tono per raccontare un universo animato da colpi di scena, intrighi internazionali, segreti politici, dove si muove un’umanità imperfetta di vittime e carnefici. Una scrittura potente, efficace, che cattura l’attenzione dello spettatore sin dalle sue prime battute, che nel rimandare al genere, non manca (sin dai titoli di testa) di rendere inevitabilmente omaggio alla saga dedicata a James Bond, in particolare alla sua ultima versione interpretata da Daniel Craig.

il cast della serie televisiva “The Night Manager”

il cast:

Johanthan Pine è interpretato da Tom Hiddleston attore britannico al cento per cento, ha interpretato Loki in “The Avengers” e in”Thor”

Roger Roper è interpretato da Hugh Laurie, che dopo quattro anni torna sugli schermi televisivi dopo aver dismesso i panni del Dottor House.

Angela Burr è interpretata da Olivia Colman, ha interpretato Carol Thatcher in “The Iron Lady”, oltre alla crudele direttrice dell’hotel di “The Lobster”

Major Lance Corkoran è intrepretato da Tom Hollander, ha lavorato molto a teatro, noto per il ruolo di Lord Cutler Beckett in “Il pirata dai Caraibi”

Jedd Marshall è Elizabeth Debicki che ha recitato nella parte di Jordan Baker in “Il grande Gatsby” di Luhrmann e di Lady Macduff in “Macheth” di Justin Kurzel

la regista, Susanne Bier

Regista e sceneggiatrice di commedie che hanno riscosso in Danimarca un discreto successo, Susanne Bier successivamente fa proprio il Dogma di Lars Von Trier attenendosi con “Open hearts” (2002) ai suoi dettami. Con “Non desiderare la donna d’altri” si confronta con una distribuzione che la lancia a livello internazionale. Dopo l’Oscar per “In un mondo migliore” (2011) seguono due produzioni hollywoodiane con attori del calibro di Pierce Brosnan per “Love is All You Need” (2011) e con Bradley Cooper e Jennifer Lawrence per “Una folle passione2 (2014). Con “Second Chance” (2014)fa ritorno in Danimarca per raccontare una storia tragica sulla genitorialità.

The Night Manager

Regia: Susanne Bier

Soggetto: tratto dall’omonimo romanzo di John Le Carré

Sceneggiatura: John Le Carré, David Farr

Interpreti: Tom Hiddleston (Jonathan Pine), Hugh Laurie (Richard Laurie), Angela Burr (Olivia Colman), Corkoran (Tom Hollander), Jedd (Elizabeth Debicki)

Produzione: BBC One, Gran Bretagna/Ink Factory/Demarest Film

Distribuzione in Italia: Sky Atlantic

Origine: US/GB, 2016

Durata: sei episodi da 60 minuti ciascuno

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AUTORI (new entries)

Nella sezione dedicata agli autori troverete la biografia di ognuno.

Autori

CREDITS n. 9

Carte di Cinema

Sede c/o FEDIC dott.ssa Antonella Citi, Via E.Toti, 7 – Montecatini Terme (PT)
E-mail: info@cartedicinema.org

Carte di Cinema è edito dalla FEDIC -Federazione Italiana dei Cineclub
Direttore responsabile: Paolo Micalizzi  (E-mail: paolomicalizzi@gmail.com )
Direttore editoriale: Roberto Merlino
Redazione: Maurizio Villani

Progetto grafico e impaginazione: Lorenzo Bianchi Ballano

Hanno collaborato al numero 9 della rivista online: Laura Biggi, Marcello Cella, Luisa Ceretto, Paola Dei, Marino Demata, Elio Girlanda, Marco Incerti Zambelli, Roberto Lasagna, Francesco Saverio Marzaduri, Tullio Masoni, Paolo Micalizzi, Sergio Naitza, Riccardo Poma, Paolo Vecchi, Giancarlo Zappoli, Marcello Zeppi.