2015 numero 5

ABSTRACT

CINEMA E CINEASTI INDIPENDENTI
ROMANIA: DOV’ERAVAMO RIMASTI?  di Francesco Saverio Marzaduri
Panorama del cinema romeno dopo il 2009, con la lezione del Noul Val, la “nuova ondata” che ha prodotto opere di qualità dove il coraggio finalmente possibile della denuncia fa il paio col gusto dello spettacolo.

GIAN VITTORIO BALDI : IO NON TROVO, CERCO di Guido Zauli
Sintesi di una vita spesso definita dai biografi “anomala”, fuori dalle regole, dai canoni, dai dogmi: non solo nel cinema, come regista e produttore, ma anche nell’arte figurativa, nella narrativa, nella didattica, nell’enologia; le uniche regole quelle che definivano le modalità di ricerca sull’arte dell’immagine in movimento, non condizionata dal mercato, dai fruitori, da altri linguaggi. Ad esse si attenne sempre.

SAGGI
VIETATO AI MINORI?  di Giulio D’Amicone
Non esiste cinefilo che frequentando le sale non sia rimasto perplesso relativamente a qualche proibizione censoria. Vietato perché?, si domanda. O anche: ammesso per tutti… ma siamo sicuri?
Domande alle quali risponde l’autore del saggio.

BANCO DI PROVA PER LA FILOSOFIA AL CINEMA:HANNAH ARENDT DI MARGARETHE VON TROTTA di Roberto Lasagna
Hannah Arendt, pensatrice lucida e coraggiosa, rivive in un film inaspettato e poco apprezzato dalla critica. Ma quello della Von Trotta è un film “necessario”, che riporta i grandi temi del dibattito filosofico in primo piano, radicandoli nell’umanità di una donna che conobbe da vicino i massimi pensatori ma che ebbe modo di scorgere con altrettanta prossimità la “banalità del male” incarnata negli aguzzini nazisti.

FEDIC, LE PERSONE E I FATTI
FILMMAKER ALLA RIBALTA: ROSSANA MOLINATTI:L’ARTE DI VIVERE L’ARTE di Paolo Mameli
Le cento facce di Rossana Molinatti: una vita dedicata all’arte, vissuta tra avventura e poesia che si riflette nell’opera poliedrica della cineasta veneziana.

ASSEMBLEA DEI PRESIDENTI:QUALE RUOLO?  di Vivian Tullio
Resoconto dell’Assemblea FEDIC svoltasi a Montecatini nel febbraio 2015. Una cronaca dei vari momenti che hanno caratterizzato una riunione annuale che fa il punto sulla vita istituzionale della FEDIC , guardando al futuro.

UNA RIUNIONE PER AZIONI SINERGICHE NELLA FEDIC di Maurizio Villani
L’articolo dà conto della riunione che si è tenuta a Montecatini, il 27 febbraio 2015 tra i Consiglieri Nazionali FEDIC, i Membri della Commissione Scientifica della Cineteca FEDIC e i Membri della Redazione della Rivista on line della FEDIC “Carte di Cinema”, nel corso della quale si sono definite le strategie, gli obiettivi da perseguire e le collaborazioni da attivare tra le diverse competenze.

Nuovo FEDIC NOTIZIE:UNA PESANTE E STIMOLANTE EREDITA’ di Giorgio Sabbatini
L’esperienza del Notiziario nuovo Fedic Notizie ed il suo ruolo nella politica di comunicazione della Federazione Italiana dei Cineclub, raccontata dal suo curatore.

DIVULGAZIONE COMPILATION CORTOMETRAGGI PER I CINECLUB di Roberto Merlino
Il Presidente Fedic, Roberto Merlino, riferisce sull’iniziativa che consente ai Cineclub di poter usufruire di “compilation” di cortometraggi provenienti dal REFF (Rete Festival FEDIC).

SEGNALAZIONI
“ MARCHIO DI QUALITA’ “ DELLA CRITICA CINEMATOGRAFICA
Un’iniziativa del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici  Italiani (SNCCI) che segnala, per opportuna informazione, opere di qualità uscite nelle sale cinematografiche italiane.

FESTIVAL ED EVENTI
MAESTRI DEL CINEMA  E  FOLTISSIMO PUBBLICO: CARTE VINCENTI DEL BIF&ST 2015.
Resoconto dell’edizione 2015 di un festival sempre più radicato nel territorio che attrae per il suo ricco programma dedicato a maestri e nuovi registi  del cinema italiano  ed internazionale
Associazionismo internazionale.

ASSOCIAZIONISMO INTERNAZIONALE
IL FUTURO DEL CINEMA E IL NUOVO PUBBLICO di Marco Asunis
Ruolo, situazione attuale e prospettive delle nove Associazioni Nazionali di Cultura Cinematografica Italiane esposte dal Presidente FICC Marco Asunis.
Apre una rubrica che intende proseguire con altri interventi relativi all’associazionismo internazionale.

OCCHIO CRITICO
THE IMITATION GAME: IMPLICAZIONI FILOSOFICHE  di Maurizio Villani
Tra i vari temi affrontati dal regista Morten Tyldum nel film che racconta la biografia di Alan Turing, l’articolo ne prende in esame due, analizzando due sequenze centrali che presentano anche una valenza teoretica. Si tratta  del problema, squisitamente filosofico, di cosa voglia dire pensare e se si possa attribuire il pensiero alle macchine.

NEO-CINEMA
A  CURA DI ELIO GIRLANDA
IMMAGINI OLTRE IL TEMPO
Nella nuova Rubrica, dove si commenta tutto ciò che sta trasformando il cinema (forme e pratiche, ibridazioni mediali e modelli di esperienza), si riflette sui formati senza limiti di tempo con i nuovi dispositivi di registrazione che pervadono sia l’ambito professionale che quello dell’utente comune.

VISTI DA LONTANO
A CURA DI ANDREINA SIRENA
NENA  DI SASKIA DIESING
Recensione del film della regista olandese Diesing Nena, realizzato nel 2014.

QUALITÀ IN SERIE
A CURA DI GIANCARLO ZAPPOLI E LUISA CERETTO
FARGO SERIE TV NOAH HAWLEY di Luisa Ceretto
Una serie TV, premiata ai Golden Globe 2015, che ricalca lo stile cinematografico dei fratelli Cohen.

PANORAMA LIBRI
A CURA DI PAOLO MICALIZZI

CINEMA E CINEASTI INDIPENDENTI

ROMANIA: DOV’ERAVAMO RIMASTI?
di Francesco Saverio Marzaduri

Il nuovo cinema romeno è materia su cui sia rimasto qualcosa da aggiungere? Naturalmente, o forse solo fortunatamente, ancora sì. Sfumato l’iniziale interesse, inteso come rivelazione sociale e culturale, verso la cinematografia dell’Est Europa più importante di fine millennio, verrebbe invece di primo acchito da dire no. E la responsabilità non sarebbe da attribuire ai circuiti di distribuzione o ai suoi esercizi, né da attribuirsi a un battage pubblicitario dai limiti evidenti che ha smesso da tempo di mostrare interesse verso le cinematografie minori del panorama internazionale in maggiori difficoltà, e d’incoraggiarle. Di questa categoria fa parte, praticamente da quando è nato, il Noul Val, che come certi fogli di Resistenza clandestini esce quando e come può, e dipende da finanziamenti sempre più rari e dunque più miseri.

Il caso Kerenes, 2013

Il caso Kerenes, 2013

A imporre all’attenzione la nuova cinematografia romena hanno provveduto (e provvedono a tutt’oggi) le rassegne d’essai e i tanti festival presso cui ha trovato ospitalità. Un vero e proprio biglietto da visita per l’estero, anzi, quando finanziamenti e proventi, da parte di paesi economicamente più floridi come la Francia, rendevano possibile, ancor prima che venissero selezionate per i festival, la loro realizzazione e distribuzione, favorendo la nascita di case di produzione romene indipendenti. Da tempo, si ha tuttavia l’impressione che la cinematografia romena, come altre, versi in una situazione di stallo in cui l’indubbia qualità del prodotto sia inversamente proporzionale alla tematica trattata, non ripagata da risultati di cassetta. È solo quando il suo cinema incontra il favore della critica, e ottiene premi e riconoscimenti presso festival, mostre e rassegne, che la Romania trova un circuito di diffusione, e forse un’accoglienza favorevole, anche presso altri paesi (i recenti consensi di Oltre le colline di Mungiu, incensato a Cannes, e de Il caso Kerenes di Netzer, Orso d’oro a Berlino, sono lì a testimoniarlo). Il solo circuito disponibile resta fatalmente quello delle sale “d’autore”: l’unica occasione di notorietà, per quanto di nicchia, adibita a garantirle un posto, la possibilità di andare avanti in un esercizio distributivo dove imperano le multisale e i blockbuster che vi si proiettano. Ci si ritrova immersi in una situazione di schiacciante predominanza da parte della commercializzazione, che obbliga gli esercenti a un sempre più limitato numero di copie, delle quali solo l’incognita del passaparola, anch’esso agli sgoccioli, può garantire l’eventuale accoglienza positiva o l’insuccesso. E il concetto è desueto se si pensa all’innovazione apportata dal digitale, che ha sostituito la pellicola in breve tempo, con la conseguente eliminazione dei distributori, acquistando i film a tempo determinato direttamente dalle case di produzione.
Il pubblico romeno non ha fatto mistero di preferire i prodotti commerciali statunitensi (film d’azione, fantasy ad effetti speciali, commedie e poco altro), anche se le sale cinematografiche, in tempi odierni, hanno finito per ridursi a una striminzita manciata di “pidocchietti” periferici, opposti alle superpotenze delle catene multisala. Per titoli di autori nazionali, quando possibile, non resta che la diffusione tramite emittenti televisive, satellitari o via cavo. Consolazione invero assai magra, che abbraccia tutti senza distinzione, dai cineasti della “nuova ondata” (Puiu, Porumboiu, Muntean, Mitulescu, e i già citati Mungiu e Netzer) a giovani firme dal talento in ascesa, accomunati dalla necessità di raccontare un Paese e una Storia – quella pre e post-dicembrista, nella fattispecie – che nel cinema trova la necessità e la capacità di farsi udire dopo il grande silenzio e il mare magno di occasioni perdute dell’era Ceaușescu.
La speranza, per i menzionati autori, è che le loro opere riscuotano consensi all’estero affinché la realtà, così efficacemente messa a nudo, non si dissolva nel nulla e li renda firme di prestigio di una cinematografia non ancora conclusa, benché ormai priva di quel quid che una decina d’anni fa ne fece una rivelazione. E se più d’uno afferma che gran parte dei prodotti del Noul Val, in modo un po’ troppo furbesco, strizzi l’occhio al cinema d’autore internazionale, a quello studiato per un pubblico di palati fini o a quello da festival, è bene ricordare che una cospicua fetta dei loro registi si è fatta le ossa all’estero, principalmente in Europa, collezionando esperienze di vita o studiando il grande cinema potendo attingere a un’offerta finalmente illimitata. Bagaglio culturale che ha permesso ad alcuni di loro, tornati in patria, d’iscriversi a corsi di eccellenza (fra tutti, l’Università delle Arti Teatrali e Cinematografiche “Ion Luca Caragiale” di Bucarest), di conseguire diplomi ed esperienza e, dopo il ventun dicembre, cavalcare la nuova onda e mettersi in produzione.
Giacché l’idea stessa di sala cinematografica sembra non avere avvenire, e la realtà odierna è così tecnologizzata che la diffusione mediatica di un film si può veicolare grazie ad applicazioni ormai del tutto disponibili, il cinema romeno è costretto a cercare – e fortunatamente a trovare – visibilità attraverso il web e i social network. A circa un lustro dal 2009, data con cui la Romania chiude un ventennio di cinema tra difficoltà e risalite, si può affermare che la realtà del Paese, nei film realizzati in quest’ultimo arco di tempo, non sembra essere cambiata troppo rispetto a quella rappresentata ne La morte del signor Lăzărescu, in A est di Bucarest o in 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni, benché sempre ispirata da nobile impegno civile. E di cinema si continua a farne tanto, più di quanto i segnali possano far pensare, segno che la creatività romena (assai latina, sì) si mantiene inesausta; ma come collocare e divulgare tali lavori, e secondo quali modalità? Se si escludono i tantissimi cortometraggi, quale scelta indicare come la più rappresentativa tra le opere prodotte nell’ultimo lustro?

Loverboy 2011

Loverboy 2011

Un possibile punto di partenza lo offre Cătălin Mitulescu, per il quale la Romania è la terra dell’espropriazione, dove i sogni e l’amore rendono per sempre schiavi. Il loverboy dell’omonimo film del 2011, è un giovane che seduce ragazze in fuga allo scopo di venderle come merce sessuale a certi amici, al porto di Costanza, i quali gestiscono traffici sui marciapiedi d’Europa. È estate sulle rive del Danubio, ma non c’è paesaggio attraversato da Loverboy che abbia un poco di calore. Tutto ne è privo: la geografia, raggelata e arida, di un’occasione perduta.

Nel bel mezzo del nulla, che domina la povertà della campagna romena quale unico orizzonte possibile, l’amore si misura solo in merce, dunque in denaro. Niente accade sulle rive del Danubio, niente si può muovere davvero lungo le strade polverose che il protagonista, insieme ai suoi amici e alle ragazze da sedurre, percorre avanti e indietro, solo per scoprire che si diramano tutte uguali senza condurre in alcun posto. Nulla accade perché la vita ha dimenticato di portare con sé i propri sogni, e ha smesso di parlare, proprio come il nonno malato del loverboy. Sino a quando l’amore non mostra le proprie imprevedibili spire, e la grazia conturbante di una possibile preda apre un varco di speranza nell’orizzonte senza futuro del Nostro, che inizia a credere a quegli attimi di gioia vissuti furtivamente sotto le coperte. Ma quella del protagonista è una generazione già sconfitta, che nemmeno la tenerezza dell’amore può più salvare.
Come già in Cum mi-am petrecut sfârșitul lumii (in italiano, “Come ho passato la fine del mondo”), Mitulescu sceglie la via dell’essenzialità, bruciante e crudele, per raccontare una storia d’amore ed espropriazione. Lo sguardo minimalista di Loverboy graffia via ogni orpello dallo schermo per mostrare un certo ambiente in tutta la propria brutalità. Ma non riuscendo a dosare del tutto la mise-en-scène dell’abbrutimento delle campagne romene, il regista cede al fascino dell’insistenza (le scene al cui centro è il padre della ragazza per la quale il loverboy perde la testa), rischiando più volte di disperdere la potenza e l’autenticità delle immagini. Più interessante ed efficace, è invece il continuo, sofferto contrasto dei movimenti di avvicinamento-rifiuto che i corpi delle due figure principali disegnano nello spazio: anime che si attraggono, nondimeno destinate a separarsi nella violenza della propria lotta per sopravvivere.
Dopo Loverboy, e il corto Fata munţilor (t.i. “La ragazza della montagna”), Mitulescu si appresta a ultimare le riprese del terzo lungometraggio, El rumano, la storia di un giovane che torna alla famiglia dopo un anno di lavoro in Italia. La moglie lo accoglie con calore in compagna del figlioletto, ma sia lei che lui sembrano molto diversi. La coppia, ormai lontana, cerca di trascorrere una notte insieme per ritrovarsi: ma l’impresa non è affatto facile… “I personaggi del film,” afferma la troupe di El rumano in un comunicato stampa, “cercano di rispondere alla domanda: ‘Come si può restare vicino a chi si ama?’.”
Marți, după Crăciun (traduzione: “Martedì, dopo Natale”) è il terzo lungometraggio di Radu Muntean, che con il film d’esordio, Hârtia va fi albastră (“La carta sarà blu”), realizzò un avvicente pamphlet sul potere avuto dai media nel determinare l’esito finale nelle convulse e confuse ore della rivoluzione. In Marți si racconta, in toni semplici, della delicata presa di posizione di un marito, diviso tra la donna con cui vive da dieci anni, dalla quale ha avuto una figlia, e l’amante, una dentista più giovane di lui. Il tutto, sullo sfondo di un tran-tran natalizio che obbliga il protagonista, per una volta, a dedicare quel tempo alla famiglia cui sembra non concedersi mai abbastanza, sacrificando passione e desiderio a un senso del dovere che forse è già, nel rapporto con essa, l’inizio della fine.
Più dura è la vicenda del lungometraggio successivo di Muntean, il quarto: il semi-documentario Vorbitor (letteralmente “A proposito…”). Come il suo più noto Hârtia, un vivido j’accuse nei confronti del Sistema e insieme un film di sentimenti. A partire dal 2006, il sistema penitenziario consente il matrimonio di persone condannate a trascorrere diverso tempo in prigione. Benché la maggior parte dei detenuti coltivi rapporti con partner che vivono al di là delle mura carcerarie, c’è chi, in gattabuia, riesce a trovare un compagno di vita. Vorbitor (letteralmente “parlatorio”) segue le vicende di alcuni detenuti in diversi penitenziari di tutto il Paese, i quali, nonostante la pena, incontrano la propria anima gemella, si tratti di un compagno di cella o di qualcuno che aspetta fuori.

Vorbitor 2011

Vorbitor 2011

“L’idea,” informa Muntean, “era di parlare con personaggi al centro di particolari situazioni di privazione della libertà, della quale l’amore diventa un surrogato e rappresenta, forse, la sola speranza per un futuro migliore.” Il film è costruito come una catena di interviste in cui diverse coppie confessano le proprie storie d’amore, riconfermano il loro sentimento e fanno progetti per il futuro. Ma Vorbitor non pretende di trovare una risposta, semmai porre una domanda, come sottolinea un aneddoto del medesimo Muntean inerente alcuni soggetti da cui il film trae spunto:

“Adi e Ana hanno iniziato il loro rapporto dopo che Adi l’aveva vista in una foto ricevuta dal proprio compagno di cella: era abbastanza per cominciare una corrispondenza (…). Mihai ha visto Eva in tivù e ha insistito per incontrarla. Entrambi hanno raccontato le loro storie e hanno finito per confessare il proprio amore e il progetto di sposarsi, senza mai vedersi faccia a faccia. Cristina e Constantin Baron hanno trascorso gli ultimi due anni in un rapporto tumultuoso. Si sono conosciuti in carcere durante un vis-à-vis, si sono sposati, hanno tirato avanti attraverso una serie di lettere e sono stati prossimi a un divorzio. Ma sono detenuti in due penitenziari diversi, e la loro relazione è soddisfatta solo da visite coniugali.”

Com’è facile immaginare, la volontà – dolente – d’immortalare gli oscuri lati di una realtà indicibile agli occhi di uno spettatore impreparato, di fronte a qualcosa che ancora gli sfugge o non è stato mostrato con altrettanta nuda esemplarità, fa i conti con una realtà di cui il ricordo sembrava aver già compreso integrità e asciuttezza. Di tale doloroso scampolo, tra le leve più collaudate e rappresentative del Noul Val, qualcosa sa lo sceneggiatore e regista Cristi Puiu, che, non indifferente alla storia della Romania, riadatta schemi letterari à la Joyce caricandoli di simbolismi riferiti al disagio e al malcontento nazionali. Aurora, del 2010, racconta di un ingegnere metallurgico sulla quarantina, con due figlie a carico, che, licenziato dal lavoro, spende le giornate pervaso da un senso d’inspiegabile inquietudine. Senza cercare risposte, si lascia trasportare dagli eventi e, in balia del destino, attraversa Bucarest da un capo all’altro, deciso a porre fine all’instabilità che già da un po’ governa la sua esistenza ingombrandola di dolorosi accenti, a partire dal divorzio e dal processo per la condivisione dei beni.
Quanta non indifferente sensibilità l’autore manifesti per il Paese e la sua memoria, lo testimonia il prezioso contributo a un’opera collettiva, del 2014, firmata da tredici registi del cinema europeo in occasione del centenario del primo conflitto mondiale: il corale e documentaristico I ponti di Sarajevo, lungometraggio a episodi che narra la storia dell’infelice città bosniaca nel corso di epoche differenti.
Tra i titoli di più recente distribuzione, Aferim! (“Bravo!”) è diretto da quel Radu Jude regista di molti shorts e di un’amara commedia, datata 2012, dal titolo Toată lumea din familia noastră (“Tutti in famiglia,” secondo la traduzione). Quest’ultimo ruota attorno all’amore e alla frustrazione di un uomo divorziato per la figlioletta di cinque anni, con la quale vorrebbe trascorrere una vacanza come in un paradiso, e tuttavia resta intrappolato nell’inferno delle dinamiche familiari. Ma anche Aferim! narra del rapporto tra un padre, soldato, e un figlio: ambedue sono in viaggio per le campagne romene alla ricerca di un prigioniero, fuggito dall’uomo che l’aveva in affido, che se ne serviva come bestia da soma, e sospettato di aver intrattenuto intimamente la moglie di questi. Durante la caccia all’uomo, i protagonisti s’imbattono in un campionario di umanità assortita e, in una maniera o in un’altra, tutta prigioniera, lei sì, dei propri pregiudizi.
E in questa scelta, incontrare e nominare Corneliu Porumboiu, che dopo l’altrettanto “invisibile,” asperrimo Polițist, Adjectiv (“Poliziotto, aggettivo,” in italiano) firma tre lavori da regista e uno da sceneggiatore, non deve stupire. Il primo di essi, Când se lasă seara peste Bucureşti sau Metabolism (che da noi suona “Quando scende la sera su Bucarest, o Metabolismo”), del 2013, è incentrato sul dicotomico parallelo verità-finzione. Nel bel mezzo di una ripresa cinematografica, il personaggio principale, un regista, tresca con un’attricetta relegata a un ruolo di comprimaria. Il problema sorge quando la giovane, durante la scena conclusiva, deve apparire nuda. A complicare le cose, oltre ai dubbi e ai ripensamenti del regista, si mette il produttore che, non volendo saperne di girare scene di nudo, ostacola la lavorazione e inventa scuse affinché l’attrice non vi prenda parte. Salvo poi prendersi un giorno di fermo per incontrare la ragazza… Poco a poco, il film prende una piega inaspettata intrecciandosi sempre più con il binario del reale e del personale, come tante volte in tanto cinema abbiamo imparato ad aspettarci quando, sulla scena, si mette in scena la messinscena.

Când se lasă seara peste Bucureşti sau Metabolism 2013Un tocco sexy e morboso sembra fare la differenza nella filmografia di Porumboiu e, più in generale, nella stessa produzione cinematografica romena, che sotto il Conducător non poteva certo perdersi in beghe metalinguistiche, figurarsi se pruriginose. Lo spettatore educato sa molto bene come simili modalità si rincorrano frequenti in pellicole che raccontano “film nei film,” sì da risultare a volte banali nella loro ridondanza. Ed è interessante seguire come certi spunti vengano gestiti in una cinematografia che tenta di liberarsi una volta per tutte di proibizioni e tabù mai veramente discussi. La Romania, del resto, non arriva affatto ultima al tema della macchina-cinema smontata in ogni suo piano linguistico, codifica o registro: l’antesignano per antonomasia trova nel decano Lucian Pintilie il proprio Godard locale, come testimoniano il controverso La ricostruzione o il più complesso Niki e Flo. Titolo, quest’ultimo, addirittura capace di osare l’inosabile mostrando quanto l’immagine filmica conti nel quotidiano collettivo, lo influenzi determinandone lo sviluppo in tutti i propri lati più oscuri, parossistici, deleteri. E dopo Pintilie, e prima di Porumboiu, si pensi a prodotti quali Topi rossi di Florin Codre, Vânătoarea de lilieci (traduzione letterale, “La caccia dei pipistrelli”) di Daniel Bărbulescu o il provocatorio Patul conjugal (“Letto matrimoniale”) di Mircea Daneliuc: titoli la cui artigianale fattura non è esente da suggestioni verso l’imminente Noul Val, nondimeno girati da cineasti appartenenti a un periodo e a un cinema sospesi tra l’ancien régime e il nuovo che avanza.
In Când se lasă seara peste Bucureşti sau Metabolism c’è un elemento che rinvia all’opera più nota del regista, A est di Bucarest: in quest’ultimo la citazione filosofica di Eraclito e del platonico mito della grotta, rimasticati da un anchorman di dubbia moralità per il proprio talk show, erano pattern serviti in una dimensione grottesca, dove l’ostentazione di cenni culturali prontamente veniva sbugiardata dal binario di una realtà incapace di camuffare ignoranza e cialtronaggine dietro goffi paraventi. Nel suo terzo lungometraggio, afferma Porumboiu, il metabolismo suggerito dal titolo – strofa di un motivo interpretato da Maria Răducanu, che sigla il film e ne è l’ermetica chiosa – è allegorico e concreto al contempo, risiedendo in una sfera che fa della Settima Arte un surrogato dell’esistenza, puntellato di mezzi intermedi. Il processo di vita, come il cinema, è qualcosa da compiere da qualche parte e in qualche modo, e pur non essendo una missione definitiva – parafrasando Eraclito – deve arrivare in fondo. In identico modo, in Polițist, Adjectiv gli archetipi di moralità e legge, etica e giustizia, erano influenzati dalle idee di Platone: ne erano, anzi, un riadattamento.

Al doilea joc 2014

Al doilea joc 2014

Si cambia registro in Al doilea joc (t.i. “Seconda partita”), dello scorso anno. “Questo film è una partita di calcio,” continua Porumboiu, “un derby tra due squadre di Bucarest: la Steaua, la squadra dell’esercito presieduta dal Valentin Ceaușescu figlio adottivo del dittatore in carica, e la Dinamo, la squadra della polizia segreta. Mio padre era l’arbitro. Abbiamo riguardato la partita insieme dopo circa 25 anni.” Anche in questa circostanza, come altre volte, il cineasta più intellettualmente orientato dell’onda romena mostra una chiara predilezione per imprevedibili tangenti artistiche, ché la sua visione di ciò che d’ilare può esserci in un apologo si sposa con la modalità di racconto. Non c’è traccia di cinecamera o di editor, qui, solo la ripresa documentaristica integrale di un match trasmesso in chiaro, sulla rete televisiva nazionale, il 3 dicembre 1988. Il dialogo tra Porumboiu e il babbo Adrian – la sola colonna sonora dell’opera – è escamotage che funziona sorprendentemente sino a metà tempo, come rivela ogni bizzarro dettaglio di cui la partita è punteggiata, prima di affievolirsi in una più faticosa seconda parte.

Nonostante che il derby, girato con tre telecamere, si disputi nel pieno di una fitta nevicata, e il campo sia al limite della praticabilità, l’arbitro decide che ugualmente la partita abbia luogo: la palla rimbalza senza attaccarsi al suolo, i giocatori possono vedere il gol dalla linea di metà campo. La neve inizia a scendere nelle tribune, le squadre si affrontano alla pari. La temperatura è sotto lo zero, lo stadio gremito e costellato di ombrelli aperti: ma gli atleti offrono quanto possono in un gioco di rapido movimento. Pure, l’arbitro fa del suo meglio per non rallentare l’azione. Quando falli e scontri si verificano, la camera converge con discrezione sulla folla, scomparendo veloce dietro la neve. L’atmosfera surreale è fomentata dalla presenza di giocatori con fasce di lana attorno alla fronte, che scendono come bende sugli occhi, e che si battono con tenacia e furore come in un’arena con mise à mort.
Nessuno, per usare le parole di Adrian, è intenzionato a vedere un gioco vecchio. Al contrario, oltre che occasione di epifanica nostalgia, l’assistere a un evento che per la Romania ha una sua importanza storica è ghiotta risorsa per lo spettatore estero, che può imbattersi in segnali culturali, se non inediti, almeno insoliti, magari esplorando diverse concezioni dello sport e dell’agonismo. E, per chi organizza le se(le)zioni di un festival, un’ulteriore scoperta di perle inestimabili, tasselli che arricchiscono un già convincente mosaico. Ancora, benché il loro numero possa apparire trascurabile, arbitri di tutto il mondo (come appassionati di calcio in generale, dal numero illimitato) possono trovare, nell’analisi di Porumboiu senior, una strategia professionale e, nelle sue chiamate di fallo e presentazione di cartellini, un’enciclopedia di vantaggiosi consigli.
“È come uno dei miei film,” confessa il regista, “è lungo e non succede nulla.” Certo è che lo spettatore – memore dei precedenti Polițist e Metabolism, e alla ricerca di qualcosa che soddisfi il suo occhio – può sempre trovare qualche apprezzamento politico in campo pallonaro, confrontandolo con l’esclusione del sesso femminile negli stadi iraniani, in Offside di Jafar Panahi, o, come in Polițist, vederci qualche simbolismo o sottile gioco di parole. A quale seconda partita si riferisce il titolo? Un altro ipotetico match sarebbe stato diverso? Il fatto che si svolga un anno prima della caduta del “Genio dei Carpazi” è sin troppo emblematico; ma la maggior parte degli spettatori giudica da quanto vede sullo schermo: un gioco sulla neve che, nella seconda metà, si fa via via ripetitivo e privo d’immaginazione.
Il lavoro più recente di Porumboiu, Comoara, si concentra su due uomini che, nel tentativo di scoprire il “tesoro” del titolo, vanno incontro a una serie di episodi sorprendenti. Il progetto, in fase di compimento, raduna un cast di attori professionisti e dilettanti: il ruolo principale è affidato a Toma Cuzin, mentre gli esordienti Adrian Purcărescu e Corneliu Cozma sono stati selezionati dopo un ampio reclutamento di casting, condotto in tre mesi. Quanto alla pellicola di cui il cineasta di Vaslui è sceneggiatore, La limita de jos a cerului (“Il limite inferiore del cielo”), diretto da Igor Cobileanski nel 2013, ruota intorno alle improbabili ambizioni di un piccolo trafficante di droga, che vive in una città dimenticata da Dio, in Moldova. Il suo migliore amico lo trascina nell’assurdo progetto di volare via con un deltaplano rotto (come già tentavano di fare i protagonisti di Cum mi-am petrecut di Mitulescu), la madre lo spinge a trovare un posto di lavoro, mentre la donna per cui spasima preferisce andare con l’amante. Alla stregua del Liviu di un altro film di Porumbou, il giovane pusher decide di cambiare la propria vita per il meglio: ma presto si rende conto che il bene è una questione troppo delicata…

uod Erat Demonstrandum 2013

uod Erat Demonstrandum 2013

Tra le recenti uscite della produzione romena, un titolo mai distribuito da noi nell’ultimo lustro è lo spionistico Quod Erat Demonstrandum (2013) di Andrei Gruzsniczki, autore dell’altrettanto inedito Cealalta Irina. Per essere il frutto di un paese comunista, la Nouvelle Vague nazionale è ben lungi dall’aver esorcizzato completamente l’oscuro passato del Paese: un eccellente matematico diventa oggetto di un’investigazione segretissima nel 1984, dopo aver pubblicato la propria tesi di dottorato in una rivista americana senza il permesso del Sistema. Il fattore più inusuale del film, che aggiunge all’assunto una nota di cinefilia in più, è che si tratta del primo lungometraggio romeno in bianco e nero da oltre 25 anni. Ciò non toglie che Quod Erat Demonstrandum sia una descrizione efficace di un sistema sociale in cui ambizione ed eccellenza sono totalmente ignorati. Nel periodo comunista il talento non basta: occorre godere di solide conoscenze, quando non diventare una spia della Securitate, la polizia di Stato, tramite la quale un migliaio di investigatori e una rete nazionale di informatori obbligano un intero Paese a sussurrare nel terrore. Tutto cambia per il matematico quando scopre che un’ex collega, della medesima facoltà, progetta di emigrare in Francia dove il marito si è rifugiato: la donna, per conto del Nostro, potrebbe portare una valigia contenente il suo teorema innovativo…
Quod Erat riesce nell’impresa di trasferire incessante il dramma sociale entro un contesto familiare, offrendo alla love story i risvolti di un thriller, giacché il regista-sceneggiatore Gruzsniczki tesse abilmente una ragnatela di interessanti spunti intorno ai suoi personaggi. Il villain è un agente segreto pronto al più nefasto gesto pur di scoprire l’importanza di quella tesi e, nei confronti dell’autore, agire secondo le maniere che merita. Pur sempre, però, l’agente è una figura che agisce secondo prassi e assiomi che il Sistema gli impone: nessuno, sembra dire il regista, può sottrarsi alla realtà dei fatti e alla tortura della macchina statale, una macchina perfettamente oliata in cui ogni singolo ingranaggio deve muoversi sotto pressione.
Con un budget di soli 700.000 €, il film soffre del fatto che per motivi economici non siano state possibili riprese in esterni, ma l’anno 1984 – evidente l’eco a Orwell – è comunque rappresentato in modo efficace grazie al bel bianco e nero del navigato direttore della fotografia Vivi Drăgan Vasile e al convincente sforzo dello scenografo Cristian Niculescu. Nello sguardo attento di Gruzsniczki, tre decenni di storia sono rimossi mentre lo schermo si colma di oggetti, usi e costumi in un viaggio a ritroso nel trascorso romeno, che riporta a galla, per lo spettatore meno giovane di ogni paese ex comunista, memorie rimaste troppo a lungo nell’oblio. Non ultimo, Quod Erat spende più di un cenno verso il problema, attuale e urgente, della fuga di capitale umano: a distanza di trent’anni dagli episodi narrati, ancora oggi le eccellenze in campo accademico emigrano da un Sistema che non tiene in equa considerazione il loro reale valore.
L’altra Irina, protagonista di Cealalta, è la moglie di un guardiano notturno in un grande magazzino di Bucarest. La donna accetta un incarico di lavoro al Cairo e, contro il parere del coniuge, vola in Egitto, salvo tornare per qualche giorno per ripartire nuovamente. Finché una telefonata non avverte il marito che Irina si è suicidata: l’uomo si trova così a fronteggiare l’immagine di una donna che sembra non aver mai conosciuto, e, contemporaneamente, tener dietro ai cavilli burocratici di due paesi, e non dei più facili. Come Quod Erat, anche Cealalta Irina ha il sapore dell’inchiesta gialla, qua e là di piglio etnografico nell’apparentamento di culture dissimili per tradizioni e abitudini. Ma a contare è il drammatico aspetto psicologico di una figura inesperta di fronte a tali costumi, e inesperta nei confronti di un privato che, reputandolo al di sopra di tutto, lo mette dinanzi ai propri egoismi.
Altra opera invisibile, realizzata nel 2010, è la commedia Eu când vreau să fluier, fluier (alla lettera “Se voglio fischiare, fischio”), per la regia di Florin Șerban: qui, lo sfacelo dell’odierno sociale nazionale si misura con il peso di una generazione senza sbocchi, priva persino di tare ereditarie, ma non di affetti sui quali si ripiega il senso di un’esistenza misera, essendo le uniche cose che contano, da difendere con unghie e denti per non farsene espropriare. A due settimane dalla fine della pena, un diciottenne ribelle, in galera da quattro anni, riceve una visita da suo fratello minore: questi lo informa che la madre è appena tornata dall’Italia, dove lavora come receptionist in un albergo. Nell’apprendere dal fratellino che sua madre ha intenzione di portarlo con sé all’estero, il giovane detenuto perde la ragione: è stato lui infatti a crescerlo, e non ha intenzione di lasciarlo alla madre, persona incostante e inaffidabile che già una volta ha abbandonato i figli per seguire un uomo. Dopo aver tentato invano di convincerla, il ragazzo arriva a compiere gesti estremi: rapisce la propria assistente sociale, e la sequestra per attirare l’attenzione dell’intero carcere e piegare la volontà della madre. Nonostante manchino pochi giorni al rilascio, il giovane aggrava la sua posizione, ma, in un epilogo a sorpresa, il rapporto con l’ostaggio conosce risvolti inattesi.
Essendo la commedia il genere che più si presta all’esprit corrosivo e surreale dell’animus romeno, non sono mancati e forse mai mancheranno titoli da indicare. Sunt o babă comunistă, ad esempio, di due anni fa. Adattamento dell’omonimo romanzo di Dan Lungu, il film si onora della firma di un collaudato artigiano, Stere Gulea, per anni professore emerito presso la “Caragiale.” In occasione delle imminenti elezioni in Romania, una giovane telefona alla madre dal Canada, dove vive e lavora: vuol essere sicura che voti “bene”, senza dover optare per gli ex comunisti. Ma a sorpresa la pensionata, che ha trascorso quasi tutta la vita sotto Ceaușescu, non è molto convinta che il presente sia meglio del passato, e – come lo stesso titolo mette in risalto – si scopre più comunista di quanto creda: com’è possibile rimpiangere quegli anni di totalitarismo? Memori anche di un’analoga pellicola del 2003, Good Bye, Lenin! di Wolfgang Becker, Gulea e Lungu ci regalano una divertente rilettura di un regime, un’Epoca de Aur che colpisce per ironia e sincerità.
Per essere in effetti una cinematografia semi-invisibile, la scelta dei titoli da citare si muove in spazi anche troppo affollati, e il rischio è sempre quello della soggettività di giudizio. Vanno comunque segnalati progetti in dirittura d’arrivo (non ultimo Miracolul din Tekir, a firma di Ruxandra Zenide, che una decina d’anni fa girò il femminile Ryna), orientati a raccontare non tanto un passato o un presente, quanto un Poi, poco importa se incerto e problematico, in linea con i ripensamenti sociali del mondo odierno. E questo dopo anni di purga oltranzista, di doloroso bilancio con un fardello storico ingombrante, e tuttavia un Prima il cui peso ancora si avverte tra le pieghe di un minimalismo persistente, di dolenti intimismi, di spettri mai completamente sopiti. La loro presenza, nella quasi totalità dei casi, si rivela la sola base plausibile da cui discendere e dalla quale partire. Il rischio, in questo caso, è che uno stile trovato s’avviluppi su sé stesso e si faccia maniera.
La Romania mostra la voglia di (continuare a) dire di sé, con spruzzate di originalità e a volte di ambizione, senza realmente fare il passo più lungo della gamba e confezionando prodotti di qualità dove il coraggio finalmente possibile della denuncia fa il paio col gusto dello spettacolo. Oltre all’inesausta volontà di denunciare, il Paese sembra rassegnato a un nuovo e nelle intenzioni definitivo redde rationem, aggiornando il suo cinema di episodi nascosti, inconfessati e impensabili, della propria Storia, messi in scena con uno spirito cinematografico ricreativo, vero elemento di novità. Così tutto è accettabile, dall’emigrazione romena all’estero in cerca di fortuna alla varietà di tipi umani lungo sinistre lande di campagna, sino alla complicità amorosa e al rapporto coniugale dentro o fuori istituti di pena.
Persino la radiografia di una classe sociale che, per salvare l’immagine, è capace della più bassa azione in nome dei sempiterni egoismi: la medesima upper class che si prostrava riverente ai piedi di Ceaușescu, e probabilmente era contraria alla rivoluzione, mostra in apparenza di piangere e supplica in ginocchio le vittime dei propri errori (cioè gli errori dei loro viziati figli) di non danneggiarne lo status. Tematiche simili hanno fruttato a Il caso Kerenes un buon successo di critica e pubblico, come discreta è stata l’accoglienza per Oltre le colline, che, dietro la facciata di una storia d’amore possessivo e (auto)distruttivo ispirato a un fatto di cronaca, ha permesso allo spettatore occidentale di farsi un’idea del radicamento religioso e delle contraddizioni, ambiguità, connivenze, commistioni e altro ancora, capaci di esercitare anche in tempi recenti una presa molto forte su buona parte della società romena.

Autobiografia lui Nicolae Ceaușescu 2010C’è chi, infine, come lo scrittore e film maker Andrei Ujică mostra coraggio a sufficienza per affrontare la figura del Conducător in persona nel controverso Autobiografia lui Nicolae Ceaușescu (2010), restituendone un ritratto – nelle intenzioni – il più filologicamente obiettivo ed imparziale. Da dichiarato dissidente comunista, che nel 1981 lasciò la Romania per stabilirsi in Germania Ovest, Ujică, ben lontano dalla facile influenza delle propagande anticomuniste tipiche dei documentari, concepisce l’operazione come una serie di immagini d’archivio in ordine cronologico – quasi sempre estrapolate da riprese televisive romene – illustrate a mo’ di lungo flashback del dittatore durante il sommario processo subito a Târgoviște, insieme alla moglie Elena. Eppure, si ha la sensazione di assistere a un film d’azione: tra verità accertate e inevitabili retroscena, punti di vista condiscendenti o apprezzamenti negativi, successi e fallimenti, per tutta l’opera Ceaușescu non ha niente del mostro costruito dalla propaganda mediatica nazionale e occidentale, nonostante all’inizio del suo mandato si affermasse l’esatto opposto. In Autobiografia lui Nicolae Ceaușescu trapela ciò che in altri documentari o reportage è stato accuratamente celato: lo sviluppo industriale ed economico della Romania, l’importanza del Paese nella politica estera internazionale e il suo ruolo come stato sovrano per difendere i propri interessi. Tre realtà, due decenni dopo il colpo di Stato conclusosi con l’esecuzione del Geniul Carpaţilor, notevoli per la loro totale assenza nella Romania odierna.
Che il Paese goda di un terreno più fertile negli ultimi anni, lo testimonia l’interesse di autori – alcuni molto noti come Coppola, ma non solo – verso lidi che consentono la lavorazione di film con budget meno dispendiosi e più attenti al rientro-spese, prevenendo la paura di rimetterci se le attese del pubblico non fossero ripagate. Come pure la propria solida collaborazione nel finanziare, e concedere maestranze, tecnici e personale per progetti stranieri: in alcuni casi, a loro volta, adattamenti tesi a documentare episodi di estrema attualità (Diaz di Daniele Vicari) o apologhi sociali in cui a far capolino è il rapporto empatico delle comunità europee verso una cultura avvertita come distante dalla nostra, lasciando campo libero a ostilità e pregiudizio senza realmente sapere quanto invece ci appartenga.
Si ha l’impressione che quello che dovrebbe essere un Paese rappresentato in ogni possibile fuoriscena, messo a nudo nella sua intimità da uno occhio sensibile al reale e alle difficoltà che incontra, preferisca puntare tutto su un cinema più ammiccante. Uno spettacolo costellato di epiloghi edificanti, di sentimentalismi prêt-à-porter, di film-cassetta girati a ricalco di blockbuster esteri, i cui incassi in patria sono l’unica risorsa affinché le sale cinematografiche esistano ancora. Affatto strano: esiste da sempre un cinema commerciale in grado di permettere a un cinema più importante di esistere, e dunque ben venga. Affinché il tutto non si disfaccia come la manciata di neve sporca del lapidario fotogramma conclusivo di Oltre le colline, offuscando l’invadente presenza di un gelido ieri. Affinché tutti in quel Paese, chi fa il cinema e chi lo guarda, non serbino livida memoria.

Oltre le colline 2012

Oltre le colline 2012

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Fonti:
Francesco Saverio Marzaduri è autore di Noul Val – Il nuovo cinema romeno 1989-2009, ed. ArchetipoLibri, Bologna, 2012.

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GIAN VITTORIO BALDI: IO NON TROVO, CERCO
di Guido Zauli

Non era difficile incontrare Gian Vittorio Baldi  purché ci assistesse la nostra e la sua salute, si fosse muniti di un buon fuoristrada, favoriti dalla buona stagione.  Era  sufficiente una telefonata per essere accolti, con un largo sorriso, nella sua casa satura di storie, quelle di  un secolare mulino in pietra da cui è ricavata, e quelle  che lui ha continuato  a raccontarci.
Ora non è più possibile: il 23 marzo 2015, alle 18,30, ci ha lasciati per sempre.
Quella casa, immersa nel verde dei boschi, dei pascoli e dei vigneti, su un crinale che separa le vallate di due antichi borghi romagnoli, Modigliana e Brisighella,  fu da lui ristrutturata rispettando la memoria  di un equilibrio osmotico  fra spazio abitativo e ambiente esterno, di una continuità materica ed emozionale fra l’opera dell’uomo e una natura che è lasciata penetrare negli stati d’animo  e  nell’intimo dei pensieri.  Con questi criteri architettonici, quarant’anni fa, aveva lasciato Roma per  trasferirsi in Romagna:  un amico, uno studente in architettura, ora il noto Paolo Portoghesi, glieli  aveva insinuati costruendo “Casa Baldi”, così citata in tutti i manuali d’architettura come  opera prima del futuro architetto, già con chiari riferimenti storici, latini (tufo) e borrominiani  (le linee),  primo esempio di postmoderno, anche nell’arredamento. Era sulla Flaminia (oggi località Saxa Rubra), allora fra ruderi romani, pecore al pascolo, con vista sulla piana del Tevere, quella che vide la vittoria di Costantino.  Di quella “Casa”, inaugurata nel 1962,  Baldi ne fu in qualche modo “coautore” in quanto applicò uno dei  principi che sempre lo hanno guidato, in particolare come produttore, nel rapporto con i registi:  dare  fiducia, coraggio ai giovani esordienti, lasciandoli  liberi di pensare, di cercare, e di esprimersi con un loro personale  linguaggio. Ne venne fuori un “ritratto”, come ricorda Portoghesi,“una casa creativa di una persona non legata a condizionamenti convenzionali”.  Ma essa soddisfaceva anche ad una sua necessità di “fuga”dal caos, non solo ambientale, di Roma e dai condizionamenti della casa paterna, e  di ampi spazi in cui poi poter ospitare  amici e  collaboratori (Moravia, Antonioni, Rossellini, Pasolini, Henri Stork, Joris Ivens e tanti altri). Fu una gratificazione, un punto di arrivo dopo aver realizzato progetti e ottenuto riconoscimenti importanti,  nella televisione e nel cinema, in un periodo, di  circa dieci anni, molto intenso e fruttuoso.
Nel 1953, si laurea in Scienze dell’opinione pubblica all’Università Internazionale degli Studi Sociali (oggi LUISS) con la tesi Il linguaggio espressivo del suono e il commento musicale nell’opera cinematografica: un testo ancora fondamentale per entrare nelle teorie del cinema baldiano che poi, sempre nel 1953, saranno fissate e pubblicate in un Manifesto. Se il cinema è un arte,  sostiene la tesi,  deve saper comunicare l’esperienza di un frammento di vita unicamente attraverso il mezzo che le è proprio e autosufficiente: l’immagine in movimento.  Per questo, benché debba e possa “esistere una musica interna di suoni ( e rumori) unita alla qualità audio-visiva”, in grado di conferire anche “valore di qualità spaziale” per un discorso armonico, le composizioni musicali, originali o no, usate come commento rompono tale unità, sottintendono una “sottovalutazione delle possibilità artistiche del cinema” e un condizionamento quasi didascalico ed emotivo dello spettatore .  In realtà il primo incontro di Baldi con il cinema avvenne nel 1949 a Milano dove abitava con la famiglia. Il quotidiano  Il sole (poi  Sole-24 Ore) gli affidò una rubrica di critica cinematografica e una tessera per entrare nelle sale. “Ero pazzo di gioia” – racconta Baldi  – “all’idea di vedere tutti i film che volevo. Le sale erano invase da film statunitensi.
Feci un’abbuffata di cinema, ma non vidi nessun film che mi colpisse. L’unica cosa che mi colpì fu il potere che aveva il cinema, il carisma sulla gente di tutte le età”. Si rese conto di quella “offensiva” ( come disse Rossellini due anni più tardi) commerciale, politica e estetica che il cinema americano  stava sviluppando, ma che quelle potenzialità potevano essere indirizzate, attraverso un nuovo linguaggio, verso una migliore coscienza, una maggiore consapevolezza  critica nello spettatore. Finito il liceo al “severo” Parini si trasferì a Roma per seguire la famiglia, o meglio il padre Guido Maria, avvocato,  dove ricevette  l’incarico di libero docente in diritto del lavoro alla Facoltà di Economia e Commercio.  Si voleva che Gian Vittorio seguisse le orme del padre ma dopo qualche esame di Diritto ebbe il coraggio di disubbidire:  segretamente si iscrisse alla Uiss per quel corso di laurea che gli avrebbe permesso di percorrere una strada già segnata. Sempre nel 1949 si cimentò anche in un primo lavoro di  “regia, soggetto e sceneggiatura” con un “filmino” (come si diceva): il corto amatoriale Rimorchiatore Vesuvio. E’ introvabile ma sarebbe interessante vedere questo suo primo tentativo di documentare la vita, una suggestione, un’esperienza, l’inizio di una ricerca che partendo dal breve documentario  lo porterà al racconto filmico con cui filtrare la realtà attraverso una poesia visionaria.

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Televisione
Per l’Anno Santo 1950 fece una breve esperienza come operatore televisivo della ORTF (televisione francese) per le riprese in Vaticano; una sorta di apprendistato che gli aprì l’opportunità di entrare  nella nascente tv italiana. Nel periodo 1954-55 è assunto dalla Rai come regista. Dirige programmi di cui è anche autore: Fuori programma, Appuntamento con la novella con Giorgio Albertazzi, Una settimana a Parigi con Billi e Riva, Musica in vacanza col debutto di Lelio Luttazzi, Diapason con Nilla Pizzi, Juliette Greco, Luciano Berio, Bruno Maderna, Vittorio Caprioli.  Nel 1955 inizia la realizzazione di un programma televisivo di montaggio: Cinquant’anni (1898-1948) , Episodi di vita italiana tra cronaca e storia, dove si racconta (in  10 puntate andate in onda alla domenica in prima serata dal 14 dicembre 1958), esclusivamente attraverso materiale di repertorio raccolto in tre anni di ricerche per mezza Europa, un periodo tragico dell’Italia: due guerre e il fascismo.  La trasmissione ebbe un ampio ascolto (88%) ed aprì  un genere, l’inchiesta storica di repertorio (Nascita di una dittatura di Zavoli ne fu forse l’apice), per una televisione che in-formasse  gli utenti attraverso la realtà storica, le immagini di un recente passato  da elaborare.  Nel 1986 Gian Vittorio Baldi  ritorna a quel genere per Luce e Rai con Anni Luce: quattro puntate centrate sulla manipolazione mediatica del fascismo dal ’22 al ’45 attraverso l’Istituto LUCE. Dopo la presentazione a Venezia-Documenti, Henri  Bousquet su Le cahiers lo definì “uno sguardo  appassionato sul modo di eludere la storia”, di manipolarne la realtà.  Significativo l’episodio della liberazione di Mussolini sul Gran Sasso: l’operatore tedesco filma la scena più volte (Baldi ha ritrovato i vari “ciak”), come in un set cinematografico. Tale prospettiva di analisi del fascismo era ancora  attuale  nel pervasivo mezzo televisivo della Rai; forse anche per questo non andò in onda, a meno che Ghezzi non lo abbia ripescato in Cose mai viste. Solo nel 2010 Cinecittà-Luce  produrrà Anni Luce su supporto DVD. In questi anni “televisivi” Baldi proseguì il percorso di ricerca applicata al cinema.

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I corti
Dopo il primo corto amatoriale seguirono: Mare d’inverno (1952), Eremiti a Camaldoli (1955), Automi e macchine (1957) a cui collaborò Portoghesi con il commento fuori campo. Non conosciamo  questi lavori ma certamente propedeutici a quelli che poi rivelarono la capacità di Baldi nel documentare la realtà attraverso la bellezza della poesia: Il pianto delle zitelle (Premio della Giuria a Venezia e miglior film a Londra) e Vigilia di mezza estate, entrambi del 1958.  A questi due corti  “etnografici”  si aggiunse nel 1959 Via dei cessati spiriti. Con questa trilogia, nel 1959, si presentò al  V Festival Internazionale  del cortometraggio a Tours, dove Luc Mullet, in  Arts (dicembre 1959), lo definì “ il Rouch italiano” e “il vero trionfatore del festival di Tours che non figura nei palmares”.
Il pianto delle zitelle (un passaggio verso un documentario antropologico- narrativo)  ci porta, con una mdp a spalla e il suono in diretta – una tecnica allora sperimentale che Baldi introduce in Italia – dentro un pellegrinaggio dell’Alto Lazio, in una società arcaica, pagana, dove le “zite”, le zitelle,  non sono più emarginate, almeno per quel giorno, ma protagoniste con il loro dolore.  Baldi usa il colore: come scrive Mullet, “ha dovuto fare un lavoro straordinario  sul colore … e dona degli effetti stupefacenti”.  Lo stesso si può immaginare per l’introvabile (per ora) Vigilia di mezza estate  su un altro rito pagano-cristiano, quello dei fuochi di San Giovanni; ancora Mullet: ”i colori della notte che tirano lentamente verso uno stupendo verde pallido all’accendersi di una candela”.   Via dei Cessati Spiriti,  ritrovato nel 2012 dalla Cineteca di Bologna presso la Cinemathèque Royale du Belgique,  purtroppo in condizioni da reperto archeologico con molte sequenze tagliate, quasi  privo della forza espressiva data dalla luce, dal colore, dai dialoghi, dal sonoro;  la storia è comunque intuibile: il mercato del sesso attorno a squallide “case” di una strada di periferia romana.  Un corto dalle vicende  tormentate a partire  dalla censura italiana  (ai tempi del ministro Magrì) che ne limitò la visione ai maggiori di anni 16 con la seguente motivazione: “Revisionato il film la Commissione ha rilevato che, pur costituendo tale cortometraggio una cruda denuncia dello stato di abiezione morale in cui vivono talune disgraziate ai margini d’una grande città, si riscontrano in esso situazioni e particolari di sì evidente chiarezza, da non poterne consentire la visione a chi non abbia già raggiunto una sufficiente formazione morale” .

Il Manifesto
Sono questi i primi lavori nei quali trovano attuazione gli elementi del Manifesto di Baldi (1953), dopo  un neorealismo esaurito proprio l’anno prima,  e precursori della nouvelle vague  (due movimenti privi di unità programmatica, a parte il noto articolo di Truffaut sui Cahiers, ma del ‘54). In esso si cercano di definire i termini di base del linguaggio filmico (secondo Rossellini ancora privo di alfabeto) come linee di orientamento verso ciò che ancora il cinema non era, a suo avviso, ma “lo diventerà”: un’arte.  Attraverso “una storia di ricerca” sulle possibilità linguistiche e sui mezzi tecnici, si pose il problema di come comprendere la realtà  andando oltre l’immagine per coglierne il “senso”, e di come liberarsi dal “tecnicismo”  (invasivi apparati per ripresa, supporto immagini, proiezione) , che dagli albori del cinema fino ad allora   impediva o limitava  la libertà d’espressione dell’autore ed anche la sua indipendenza.  Dopo questi aspetti sintetizzati nella prima parte come TEMA, segue nella seconda definita DETTATO  una sintesi dei principali  elementi grammaticali. Il suono: in presa diretta di cui la musica può essere una traccia se proveniente o evocata dall’interno della storia. La macchina da presa: piccola, agile, leggera, a spalla, come occhio di chi vede per far vedere, di chi crea e condivide esperienze di realtà, riprendendo il concetto di “camera stylo” di Astruc. L’ attore: pura maschera dionisiaca, “marionetta”, “riflesso del reale”, non professionista in quanto privo di quel carisma che  è “oppressione psicologica” sullo spettatore. La luce: quella naturale, dell’ambiente, senza l’ausilio dei riflettori anche se poi l’autore ha libertà di intervenire lavando, filtrando, sottraendo a ciò che la mdp ha “veduto”.
L’ Inquadratura: il concetto rinascimentale di inquadratura, cornice, è superato   in quanto lo schermo che pur delimita la scena  è sempre più “un limite provvisorio” che deve essere valicato  nel tentativo di dare allo spettatore la sensazione di un  campo visivo più ampio. Il montaggio: elemento di sintassi,  non deve essere manipolazione (“dissezione di un cadavere”) post produzione, ma  avvenire nel momento stesso della ripresa delle scene seguendo l’ordine temporale della sceneggiatura. L’azione stessa della ripresa diventa gesto estetico, movimento ritmico secondo una partitura coreografica.

Altri corti
Questi concetti, cha altri poi hanno fatto propri ignorandone la paternità (pensiamo al Dogme 95 di Triers e Vinterberg), li ritroviamo nei successivi corti di Baldi realizzati  come “sinopie” preparatorie dei film.  Il già citato Via dei cessati spiriti entrò a far parte di una prima trilogia dedicata a Roma insieme a La casa delle vedove (1959) – presentato a Tours, Leone d’oro a Venezia nel ’60 e Nastro d’argento nel ‘61 – e Luciano (Via dei Cappellari)  Gran Prix della Giuria a Tours nel ‘60.
La seconda avrà Torino come ambientazione con Corredo da sposa, Il bar di Gigi, e Ritratto di Pina (Miqueldi  d’oro a Bilbao) del 1961.  Sono sei storie di emarginati: le prostitute di una altrettanto squallida borgata, le vedove in attesa solitaria della morte dopo aver speso una vita a servizio dei “signori padroni”, il ladruncolo Luciano Morelli chiuso in un sottoproletariato di miseria ed egoismo, gli emigranti che arrivando a Torino trovano nel bar di un certo Gigi un punto d’approdo ai loro viaggi della speranza, che ben presto svanisce, come nel caso di Pina. La trilogia torinese sarà fonte di ispirazione per Gianni Amelio  che tornerà in quel bar con Così ridevano, e per il progetto  Il bar di Gigi, 37 anni dopo, per un  doc-film di Luca Arese, rimasto sulla carta.

I film
La prima esperienza con il lungometraggio l’avrà nel ’61 con l’episodio La prova d’amore del collettivo Le italiane e l’amore (N. Risi, Maselli, Ferreri, Vancini, Mingozzi, Giulio Macchi e altri), ma Baldi rinnegò quel lavoro in quanto il montaggio finale gli fu imposto da Zavattini (duplice deriva dal Manifesto).  Dunque il suo primo  film riconosciuto fu Luciano del ’62, che sviluppa la “sinopia” del corto omonimo.

Una drammatica immagine di Luciano

Una drammatica immagine di Luciano

Pietro Maria Toesca lo definisce un “on the road”  all’italiana, ma è privo di quel senso di avventura liberatoria che muoveva Keruac. E’ stato pure accostato al coevo Accattone, magari simile come ambientazione umana e sociologica ma assolutamente lontano, soprattutto nella distruzione del mito della madre, dalla prospettiva sacrale di Pasolini, .  E’ un viaggio circolare alla ricerca di una madre fedifraga, in una notte romana di capodanno, fra ubriachi, pazzi, sognatori, borgatari, prostitute e prostituti; un viaggio nelle memorie che hanno marcato una vita e tolto prospettive: il tradimento della madre che ne causò l’internamento in riformatorio, le attenzioni pedofile di un prete, il furto e  l’omosessualità, come necessità e pure piacevoli modus vivendi. Per queste tematiche  il film fu attaccato dalla Chiesa, e da sinistra gli fu rimproverata l’assenza  di un “riscatto ideologico”, come scrive Roberto Chiesi. Il film  uscì nel 1967, con tagli di 15 minuti, con distribuzione sporadica,con un sottotitolo imposto che insinuava un giudizio morale: Luciano. Una vita bruciata. “Rimasi tagliato fuori per anni come regista”, racconta Baldi,”ho vissuto da emarginato”. Dopo  Fiammetta (1964), il delicato episodio adolescenziale inserito del film collettivo “La fleur de l’age”, una produzione internazionale  con Michel Brault, Jean Rouch e Hiroshi Teshigahara, Baldi torna alla mdp con uno dei suoi capolavori Fuoco! Venne realizzato nel 1968 in soli 14 giorni, ma dopo una lunga gestazione di sette anni  generata da un episodio riportato dalle cronache nazionali : il 16 luglio 1961, a Rocca di Papa, un operaio disoccupato si chiude in casa, uccide la moglie e la suocera, e dopo 17 ore di assedio da parte dei carabinieri (e dei giornalisti) si consegna assieme alla piccola figlia e tutto l’armamentario.  Ancora una storia di emarginazione, di rifiuto di un’esistenza precaria, che Baldi ha raccontato applicando le regole del Dettato: una mdp di 16 mm a spalla che, attraverso il vuoto di  un appartamento squallido, claustrofobico, di povere cose quotidiane,  si insinua in presa diretta nei gesti, negli sguardi di chi ha perduto la propria identità lavorativa e sociale, in una rabbia distruttiva contro tutto ciò che rappresenta la società da cui è stato alienato: la religione, lo stato, i media, la famiglia e spara sui suoi simboli o minaccia chi li rappresenta. Vediamo l’uso della luce naturale con i suoi volgimenti nel corso di una giornata e una notte, visi di attori non professionisti (presi dalla stessa troupe), un unico piano sequenza in ordine narrativo che esclude il montaggio, totale assenza di commento musicale, assoluta presa diretta, unità autoriale di sceneggiatura e regia. Tutto questo  riesce a generare nello spettatore una tensione fino all’ultima sequenza, un’esperienza non di identificazione ma di una distaccata “impotenza”, come commentò Toesca, simile a quella che si vive di fronte a certe realtà della vita. Fuoco! Viene presentato a Venezia nel 1968 e premiato con un’Osella d’argento a Hyéres nel 1969, ai Recontres du Jeune Cinéma riceve il Gran Premio della Giuria. Nel 2002 andrà a Berlino per una sezione dedicata a70 film degli anni ’60 “emblematici per il loro valore oggettivo, storico ed artistico, sia per il significato che ebbero nell’indicare una possibile nuova via al cinema di allora”.Nel 2008 verrà restaurato dalla Cineteca di Bologna per la retrospettiva Cinema Ritrovato.
Il 27 agosto del 1970 Baldi inizia le riprese de La notte dei fiori, il primo lungometraggio a colori.
C’è in quest’opera  una  deroga dal Dettato, che ritroveremo in altre, forse indotta da una situazione economica: sceglie due attrici professioniste, di quel star system inaugurato ad Hollywood, importato in Italia dalla cinematografia  fascista,  e in quell’anno sempre in auge come abile strumento commerciale. I volti noti di Dominique Sanda e Macha Meril sono comunque usati da Baldi come semplici maschere in una sorta di parabola tragica. Due giovani figli dei fiori, come si diceva, Chris e Amanda, vivono isolati dalla società. Chris ne descrive la vuota apparenza raccontando alla compagna una storia, una favola, in cui poi la mdp entra: in una villa dagli interni floreali e barocchi, immersa nel verde,  vivono quattro personaggi dell’alta borghesia internazionale, intenti ad annegare la noia nel vizio, in rapporti sessuali privi di patos, in giochi che sfociano nella violenza e nella morte. Questi due piani narrativi  rappresentano  per Baldi non una contrapposizione classista ma il conflitto “fra ciò che noi desideriamo di essere e quello che non siamo”. Tutto questo è raccontato con il consueto  stile e  linguaggio ma questa volta l’originalità è data dal colore, come elemento espressivo definito dalla critica “straordinario  risultato espressivo sul piano cromatico” (Morandini).  Il film subisce i tagli della censura per cui il regista lo ritira da Venezia e lo presenta alle Giornate del Cinema italiano del ’72, e lo stesso anno è a Chicago e Londra. Nel 1973 viene presentato al “controfestival” di Savona ed esce finalmente nelle sale ma molto sporadicamente.

Produttore
Con un piccolo flash back  torniamo al 15 marzo 1962, quando Baldi fonda la sua casa di produzione, la Idi Cinematografica (riferimento alle idi del parricidio). Infatti si voleva compiere una rivoluzione nel cinema: portare un autore a liberarsi dal condizionamento dei produttori che spesso riguardava il soggetto, il copione, la scelta degli attori (attrici in particolare), per questioni soprattutto di mercato, ma anche di censura, di opportunità politica e di nepotismo.  Soprattutto dopo l’esperienza fallimentare con la Federiz di Fellini, a cui propose Luciano, Baldi cercò di auto prodursi. Ma c’era anche il progetto coraggioso di produrre altri autori, magari giovani sconosciuti ma promettenti, ai quali lasciare ampia libertà d’espressione, o quelli che nessuno voleva finanziare a motivo dei contenuti innovativi, provocatori, non politicamente corretti, promuovere  una cinematografia di ricerca senza compromessi con la spettacolarità o il mercato.  L’amico Vinicio Marinucci (critico, saggista, sceneggiatore, regista) ebbe l’idea di raccontare 13 anni di storia  della Idi Cinematografica, dal ’62 al ’74. Il voluminoso dattiloscritto rimase per anni nello studio di Baldi: ora è pubblicato, con il titolo Nuove vie per il cinema, nell’ultima monografia a lui dedicata . La storia è stata lunga e travagliata: “Non sono un uomo destinato agli affari; sono un ricercatore culturale. Quindi quando ho prodotto film di altri, sempre con enormi sofferenze e lasciandomi scie di amore e odio, l’ho fatto con grande sforzo”.

Una significativa immagine del film di Straub-Huillet Cronache di Anna Magdalena Bach

Una significativa immagine del film di Straub-Huillet Cronache di Anna Magdalena Bach

Nel 1964 produsse il già citato film collettivo Le adolescenti, nel 1967 l’opera prima di Gianfranco Mingozzi Trio (presentato a Cannes, Pesaro e Melbourne) insieme a Cronache di Anna Magdalena Bach di Straub-Huillet  che con  Fuoco! e Diario di una schizofrenica di Nelo Risi andranno tutti e tre a Venezia nel ’68: un record produttivo!); nel 1969 L’amore coniugale, l’unica opera di Dacia Maraini, e sempre quell’anno due eventi assolutamente fuori dagli schemi morali e artistici del tempo come Porcile e Appunti per un’orestiade africana di Pier Paolo Pasolini;

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Pier Paolo Pasolini sul set di Porcile

Pier Paolo Pasolini sul set di Porcile

poi Baltagul di Mircea Muresan,  Vent d’est di Godard (per i produttori doveva essere un western politico con Gian Maria Volontè, in realtà fu una provocazione nei loro confronti), nel 1970 Quattro notti di un sognatore di Robert Bresson, il suo La notte dei fiori, e A proposito dell’Angola nel 1972, sulla lotta di resistenza angolana (MPLA) contro l’esercito portoghese, con filmati di repertorio, un collettivo curato da Stefano De Stefani. In questi anni la Idi produrrà, secondo Marinucci, 47 cortometraggi, quelli di “maggior impegno contenutistico”. Oltre ai  suoi già citati ricordiamo quelli di Gianfranco Mingozzi, Antonio Calenda, Gianni Amico, Jean Clode Biette, Stefano De Stefani, André Labarthe, e altri.  C’era poi la questione di distribuire quei film in un mercato che li escludeva a priori come non commerciali: alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, nel 1965, Baldi pose le basi per costituire circuiti alternativi. In questo decennio le idee e i progetti si sovrappongono. Il 21 maggio 1960 fonda l’IDI, Istituto del Documentario Italiano che si propone di promuovere “attività idonee a perfezionare  la preparazione professionale di coloro che intendono dedicarsi all’attività documentaristica, del cortometraggio e del film d’arte” con “corsi, conferenze, premi rassegne”.  Il 14 luglio 1963 nasce  a Venezia l’idea di costituire, partendo dall’IDI,  una nuova associazione per il documentario di respiro internazionale. Il 15 ottobre 1964 si concretizza infatti a Mannhein l’AID, Association International des Documentaristes, per promuovere nel mondo la produzione di documentari e tutelarne gli autori. Ad essa si associano, oltre a Baldi (segretario generale),  importanti autori  fra i quali Joris Ivens,  Richard Leacock, Henri Storck, Jean Rouch, Margot Benacerraf, Nelo Risi, Frances Flaherty, Bernardo Bertolucci, Vittorio De Seta, Gianfranco Mingozzi, Ermanno Olmi, Glauber Rocha, Jean-Marie Straub, Antonioni.

Bernardo Bertolucci e Gianvittorio Baldi

Bernardo Bertolucci e Gianvittorio Baldi

Una sorta di congiura interna, che secondo precise dichiarazioni di Baldi fu fomentata dagli yankees, concluse nel 1968 l’esperienza della IDI. Ovviamente, nella mente fervida di Baldi, e grazie ai suoi contatti, nacquero molti progetti, ma che non andarono in porto. Ne ricordiamo almeno due: la Idi Cinematografica pose grandi speranze sul Gesù di Carl Theodor  Dreyer: il progetto giunse  quasi al primo ciak ma tutto finì con la morte del regista (26 marzo 1968); l’altro fu quello con l’amico P.P. Pasolini, un San Paolo da ambientare a New York,  sul quale il poeta stava lavorando da anni. Nel ’74 Pasolini riprende la sceneggiatura, ma il 2 novembre del ’75 tutto finisce, tragicamente. Baldi  apprende la morte dell’amico e collaboratore la mattina del 3. Gli mostrano le foto della polizia: un grumo di sangue.

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Rossellini.
All’AID aderì anche Roberto Rossellini che era amico di Baldi: le loro famiglie si frequentavano, i figli giocavano assieme; era il periodo “indiano”di Sonali. Per dieci anni ne fu soprattutto il maestro: di vita, generosità, trasgressione, di linguaggio cinematografico in assonanza con il suo Manifesto del ‘53, del non trattenere le cose ma trasmetterle didatticamente, di essere aperto senza intellettualismi cinefili ai nuovi media come allora era la televisione. Baldi imparò la lezione, fino al punto di trovare un  personale, non epigonale, percorso.  Baldi fu tra i firmatari di un  Manifesto  che Rossellini presentò alla stampa il 13 luglio 1965, dove è scritto fra l’altro: “Noi operiamo nel campo del cinema e della televisione: vogliamo elaborare degli spettacoli, dei programmi che possano aiutare l’uomo a distinguere gli orizzonti reali dell’uomo”.  I tre fogli manoscritti e autografati da Rossellini rimasero fra le carte di Baldi fino al 2007, quando li donò alla rivista Cineforum  che nello stesso anno li pubblicò con un articolo e una intervista a Gian Vittorio Baldi  curati da Roberto Chiesi.  Rossellini e Baldi viaggiarono molto all’estero per  diffondere fra i giovani registi le idee del “neorealismo” rosselliniano   dal quale nacque il “cinema novo” in Brasile (Rocha e Andrade), e condividerle con quelli della “nova vilna” a Praga.  Andarono a Montreal  per stabilire una coproduzione italo-canadese in collaborazione con il primo Ministro Pierre Trudeau.

CastelluccioCastelluccio.
Il trasferimento in Romagna, località Castelluccio ( l’ultimo domicilio conosciuto) rappresentò per Baldi  un ritorno a casa ma, come Odisseo,  aveva un destino: “prendi il remo e rimettiti in viaggio”
Fu “un voltare pagina”, “un andare altrove”, per una sorta di crisi  che comunque non  interruppe il suo percorso di ricerca, ma lo diramò in altri linguaggi artistici, come in un delta dove  il cinema era sempre il braccio principale.  Un dissesto finanziario  causato dalla produzione del film di Quattro notti di un sognatore dove  Bresson  andò troppo oltre il badget, la morte del padre  nel ’72, l’ambiente del cinema romano degradato e corrotto, lo convinsero a vendere “casa Baldi”, e lasciare Roma. Nel 1974, in una sorta di seconda fuga, fa ritorno alla terra degli antenati, per ricominciare  da una giovinezza perduta, portando con sé, come Enea con Anchise, il corpo del padre Guido Maria, che ancora non aveva trovato una collocazione nei “sovraffollati”cimiteri romani.  Portò con sé le reliquie di una tradizione, di un padre che aveva trasmesso valori come etica, solidarietà, giustizia, per un cattolicesimo vissuto che lo condusse ad un coerente antifascismo, pagato con la perdita della docenza universitaria e il confino. E’ di quell’anno  il primo film “romagnolo” L’ultimo giorno di scuola prima della vacanze di Natale: 26 giorni di lavorazione, sulle colline attorno casa. E’ la storia, in un inverno di nebbie e neve, di una banda della repubblica di Salò che scorazzava in quelle terre  con una violenza malata, inutile, da ultimo atto, dove tutto è filtrato attraverso gli occhi di un ragazzino , in realtà quelli di Baldi che visse in quelle terre da sfollato con la madre, lontano dal padre perseguitato.

Dal film L’ultimo giorno di scuola prima della vacanze di Natale di Gianvittorio BaldiE’ L’unica opera del regista che affronta un  lavoro di realismo storico,  con una tecnica da documento di repertorio, ma come sempre  sa anche ricostruire “un mondo poetico assai personale” (Miccichè) contrapposto alla violenza del potere. In esso applica quasi totalmente il suo dettato, a parte l’uso di alcuni attori professionisti: Cucciolla, Capolicchio, Macha Meril (allora sua moglie) affiancati da improvvisati “attori” locali. L’amico Pasolini vide quel film, assieme a Baldi e Laura Betti: gli suggerì l’ambientazione  storica del progetto su  Le 120 giornate di Sodoma, così che l’opera di De Sade divenne il film Salò o le 120 giornate di Sodoma. “L’ultimo giorno” fu distribuito dai circuiti Arci e prodotto da una associata alla Idi Cinematografica che continuò fino al 1982.  In questi ultimi otto anni la Idi produsse altri 5 film: i suoi Anni duri (1977), un doc-film su Giuseppe Dozzo licenziato dalla Fiat di Valletta perché iscritto alla Fiom, Mi richordo anchora (1978), doc-intervista sul pittore naif Pietro Ghizzardi, contadino a Boretto  di Reggio Emilia (il titolo con la “ch” riprende quello dell’autobiografia pubblicata da Einaudi), e il medio-metraggio La terza età (1980) che l’allora assistente alla regia, Roberto Cimatti, lo ricorda come “bellissimo … di una poesia elevatissima”; poi il film d’esordio di Francesco Longo, Un’emozione in più, del 1979, e La guerrigliera, un’opera minore di Pierre Kast con cui si chiusero vent’anni di produzioni coraggiose, rischiose, indipendenti, e importanti per la storia del cinema. Già nel 1974 per questa “attività ai fini di un alto contenuto artistico” gli fu assegnato il premio Coppa d’oro di S. Vincent.

Arte figurativa.
Come si diceva, a Castelluccio la ricerca di Baldi percorse anche altre strade, secondo lui esperienze a lato, parallele rispetto al cinema. Osiamo ancora contraddirlo in quanto il lavoro di un filmmaker può implicare altre arti. Come quella figurativa che, come sostenne Peter Greenaway, è tanto legata al cinema che “nessun giovane cineasta dovrebbe usare una mdp senza avere prima frequentato tra anni di scuola d’arte”; ci vengono in mente Antonioni, Richter, Schnabel, lo stesso Greenaway,  e altri. D’altra parte molte scene dei suoi film erano preparate graficamente, da Baldi stesso o dai suoi collaboratori. Nello studio di Castelluccio sono conservati i primi lavori, pittorici e plastici, dell’adolescente sfollato a Lugo di Romagna.

“Apis brisighellensis”, dipinto di Gianvittorio BaldiPoi già nel periodo romano  Baldi ogni tanto esegue schizzi (ritratti, fiori, animali), ma tale espressività figurativa “esplode” in Romagna, certamente come una “evocazione”, ha scritto il prof. Gianluigi Zucchini docente di educazione estetica, “ intima dei luoghi, indicati come realtà affettiva e legame di identità”. I suoi lavori furono esposti come personali a New York, Parigi, Roma, Verona, Bologna, Faenza (Ra) e Modigliana (FC).  Una ventina di sue opere sono state acquisite da La Cinemateque di Parigi per un  valore di 3500 euro ciascuna. Con una lettera autografa del 24/10/2012, il Presidente  Costa Gravas  ringrazia: “…Ce geste temoigne du grand intéret que vous portez a La Cinemateque francaise et à son action en faveur de la sauvegarde du patrimoine cinematographique … votre don vous permet d’en divenir membre et de parteciper activement a notre vie associative notamente à assemblée annuelle …” .

Narrativa.
La solitudine, la natura, i paesi, le presenze eccentriche attorno a Castelluccio generano in Baldi delle storie di emarginazione e di pazzia visionaria, che possono ricordare le atmosfere romagnole di un Tonino Guerra o di un Raffaello Baldini.  Per chi come Baldi era sempre stato sceneggiatore dei suoi film, tale capacità narrativa non meraviglia, tanto che quei personaggi diventano progetti di produzione, ma solo uno andrà in porto come corto, l’ultimo della sua carriera:  Magomax (un eccentrico di paese che per sfuggire dall’anonimato si inventa mago) realizzato  nel 2003 con la collaborazione dei suoi studenti. Uno dei suoi racconti, Ticchteticchete (una storia di formazione di una ragazza che visse gli ideali della Resistenza fino al vuoto della caduta del muro di Berlino), uscirà sull’Unità del 3 gennaio 1993. La casa editrice faentina pubblica nel 1995 una raccolta dei suoi racconti con il titolo Varianze.

Il vino.
Quando arrivò su quelle colline notò dei “ronchi”, piccoli appezzamenti di terreno incolto. Lui e l’amico Veronelli, il grande enogastronomo, intuirono la possibilità di produrre su di essi, per la chimica del terreno e la posizione orografica e climatica, vini d’eccellenza, con metodi di viticultura e vinificazione  “biologici” ante litteram. Vi impiantarono vitigni francesi portati  dalla moglie Macha. Il risultato di una ricerca condotta con gli stessi principi che applicava al suo cinema (ostinazione, oltre le regole e il noto, l’eccellenza dalla mediocrità, no al mercato) furono le famose bottiglie etichettate con gli antichi toponimi dei ronchi su cui erano nate:  Ronco del Re, Ronco dei ciliegi, Ronco della scimmia, Ronco delle ginestre, che apparvero su tavole importanti, come quelle del Quirinale e del Vaticano. Fu un omaggio alla sua amata Romagna che mancava di vini d’eccellenza (oggi hanno seguito  in parte la sua lezione), ma soprattutto ricerca amorosa per un’arte, quella enologica, che è anche spettacolo di colori, di luci, di sonorità, di esperienze sensoriali, come il cinema. Come in tutti i suoi percorsi lasciò che quell’idea geniale  fosse proseguita da altri, che mandassero avanti la produzione e l’etichetta. Così è stato ma forse non con la stessa eccellenza, elemento difficile in un certo mercato.

Didattica.
In questo periodo continua l’attività didattica di Baldi.  Era iniziata a Roma nel 1958 con una docenza sul linguaggio delle immagini alla Uiss, fino al 1961, in cui stabilì un rapporto paritario con gli studenti,  dove tutti portavano le proprie idee in campo teorico e pratico formando un gruppo di lavoro la cui fama raggiunse la Francia come “equipe Baldi”. C’erano Ennio Lorenzini, Vittorio Nevano, Giancarlo Santi, Antonio Calenda, Emanuela Mochi Onory, che poi si inserirono nel mondo dello spettacolo anche come autori. Stimolato dalla  collaborazione con un Rossellini in “fase didattica”, dal 1977 insegna filmologia al Dams di Bologna, che sarà costretto a lasciare nel 1988 per i soliti intrallazzi dell’ambiente universitario. Il regista Pasquale Scimeca e il cinematographer dell’Aic Roberto Cimatti  furono tra i suoi allievi. Nel 1997 Baldi riprende l’insegnamento all’Università di Reggio Emilia dove insegna percezione visiva, ma solo per due anni.  Il 13 marzo 2000 istituisce a Faenza la sua Università Hypermedia:  l’obiettivo è di “preparare  individui capaci di affrontare il prossimo futuro secondo le tecniche più avanzate… L’interazione tra la tecnologia più avanzata, la scienza, le materie umanistiche, la fantasia, l’immaginazione è il nodo attorno al quale ruota la sua particolarità”. Baldi voleva condurre i giovani verso un cinema che,  per non morire, sapesse adeguarsi ai nuovi linguaggi dati  da nuovi supporti, schermi e contesti di visione: televisione, digitale, dvd, PC, web, 3D, iPad  ecc.; è ciò che accade oggi in una cinematografia che pare abbandonare l’ormai obsoleta identità proiezione-schermo-sala  per “espandersi”  (come scrive Francesco Casetti nel suo ultimo saggio) sui nuovi  media. Hypermedia fu costretta a trasferisi, prima a Cesena, poi a Bologna nel 2005, presso la Cineteca. In questi anni Baldi tiene conferenze, lezioni, master in varie parti del mondo: Parigi, Dunkerque, Lussas (Francia), Lapponia, Pechino, New York, San Paolo del Brasile.  Nello Stato di New York  concretizza  un suo progetto  con la Syracuse University in cui viene coinvolta l’Università  e la Cineteca di Bologna per dare continuità alle idee della Hypermedia: nel  2013 nasce l’IFA, International Filmmaking Academy, come centro di ricerca, produzione, didattica internazionale per il quale ogni anno vengono selezionati studenti dalle migliori università mondiali di cinema, con la presenza di importanti autori. Nel 2013 vennero, come insegnanti, oltre a Baldi, Bernardo Bertolucci e Abbas Kiarostami, nel 2014 Diao Yinan (quell’anno Orso d’oro a Berlino) e il regista e produttore israeliano Dani Menkin. La dipartita di Baldi non impedirà il proseguimento  dell’IFA:  la Cineteca, l’Università e il Comune di Bologna ne hanno dato garanzia. Dal 19 giugno al 17 luglio prossimi si svolgerà la terza edizione, con importanti celebrazioni del suo fondatore.

Ultime regie
Nel 1988, dopo il già citato Anni Luce, prosegue il periodo televisivo con il film ZEN – Zona Espansione Nord, coprodotto dalla Rai. Difficile attribuirgli un genere, come a tutti i lavori di Baldi: inchiesta televisiva?  cinema verità? docu-fiction? Ai tempi quello più azzeccato fu “documentario ricostruito”, quello che Baldi preferiva. Anche qui lo spettatore può fare, accumulare, e avere, una esperienza, i tre approcci che secondo Casetti la definiscono: una esperienza, nel caso di ZEN, ancora di impotenza di fronte al degrado morale, sociale, ambientale del noto quartiere  palermitano. C’è l’assenza dello Stato,  la presenza di una Chiesa militante, di frontiera, che prima di parlare alle anime vorrebbe alleviare quelle esistenze, c’è il potere della mafia. La mdp (un 16 mm poi gonfiato in 35 mm) si insinua, in presa diretta,nelle storie, nelle case, nella camere da letto, nei bagni, con  piani-sequenza che danno tutto il tempo di riflettere (anche 11 min). Presentato a Venezia nel 1988, il 28 ottobre dello stesso anno la Rai lo manda in onda, alle 22,15. Ci fu una interpellanza, una legge speciale, ma nel quartiere non cambiò nulla, e  per Baldi si chiusero le porte della Rai.
Nel 1995 il Comune di Marano, in provincia di Modena, gli commissionò un documentario in cui raccogliere le testimonianze di chi, in quei luoghi, aveva vissuto e fatto la Resistenza:  Memorie della Resistenza, un prezioso documento di memoria storica, di coscienza civile, che poteva andare perduta. C’è una lettera di Baldi che chiede all’amico Arrigo Boldrini (“Bulow”) un aiuto per distribuire il film, almeno negli ambienti interessati alla lotta partigiana. Non si ha notizia di una risposta.
Chi volesse avere una sintesi coerente ma non dogmatica del linguaggio  cinematografico di Baldi,  quello espresso nel Manifesto del ’53,  deve vedere Nevrijeme – Il temporale del  1999, che insieme a Luciano e Fuoco! si può dire che definisca la trilogia dei capolavori baldiani. Fu realizzato in 30 giorni, fra la Romagna e Sarajevo.  Come sempre la gestazione fu lunga se partiamo da ciò che ne ispirò l’idea: un trafiletto del ’92 sul “Corsera” che raccontava (en passant ma che avrebbe meritato la prima pagina),  di un certo Lewis Mckenzie, generale canadese dell’Unprofor nella guerra in Bosnia, che a Sarajevo stuprava ragazzine  offertigli dai Serbi, e poi  le faceva gettare nelle acque del  Bosna.  In quei sette anni ci fu anche una lunga preparazione grafica, scena per scena, attraverso tremila tavole dell’assistente alla regia Dino Maucci. Il baricentro  narrativo di Nevrijeme è  appunto la morte di Blanka, una ragazzina ebrea trovata nel fiume, figlia illegittima dell’usuraio ortodosso Sveto. Sulle cause si intersecano tre versioni diverse: quella di Sveto (Miki Trifunov) che ne immagina il suicidio e ne trae il senso di impotenza e di nostalgia del divino,  della  giovane amica rom Dulja che pensa sia scivolata, e dell’orfanello Suljo (poi vittima di un cecchino): “e’ morta in guerra … giocavo e non stavo attento a lei … (e a quelli) che uccidono i bambini”.  Nel film c’è un ritmo dato da queste quattro versioni e da una scansione di nove “finestre”, fotogrammi o “cartoline” di una Sarajevo multiculturale dove coabitavano la chiesa, la sinagoga, la moschea, il teatro, una biblioteca. Il tutto è attraversato dall’elemento liquido (fiume, pioggia, sangue), dai brontolii del temporale che rimandano alle bombe, dal gracidio di una gazza; sonorità in presa diretta che costituisco un respiro, un basso continuo in cui si inseriscono senza soluzione di continuità le musiche originali di Gian Luca, figlio di Baldi,  affermato compositore: lontano dal concetto di “commento” esse costituiscono, racconta Gian Luca, una “struttura musicale” dove ogni elemento, diegetico o extradiegetico, diventa una coerente “partitura”.  Nevrijeme  fu presentato a Roma il 5 ottobre 1999, proiettato al Mic di Faenza nel 2000, al XIV “Pesaro Evento Speciale”, alla XVII edizione del Festival del Cinema italiano ad Annecy, all’XXIV Festival del cinema di Douarnenez in Bretagna. Risulta che la Rai, coproduttrice e proprietaria dei diritti,  non lo abbia ancora mandato in onda.
C’è un’età della nostra vita in cui, avvertendo che qualcosa ormai si è compiuto, pur  spinti verso ciò che ci rimane del futuro, ad esso voltiamo le spalle e, come l’angelo della storia di Benjamin, volgiamo lo sguardo a ciò che è stato, in una sorta di viaggio a ritroso.  E’ da questa prospettiva che, nel 2006, nacque in Baldi l’idea di realizzare il film che egli stesso definì “testamento morale”: Il cielo sopra di me.  E’ verosimile che  questa sua ultima opera sia stata concepita una notte d’estate sotto il cielo immanente di Castelluccio, evocante le note parole di Kant  divenute poi  traccia, titolo di questo suo ultimo lavoro.  Gli elementi autobiografici sono mimetizzati nella storia di Gregorio, un astronomo che scopre  un asteroide che si sta avvicinando alla Terra in rotta di collisione ( un riferimento al Gregorio Ricci Curbastro di Lugo di Romagna, lontano parente di famiglia, noto per aver fornito il “linguaggio” matematico ad Einstein per elaborare la teoria della relatività – il suo nome percorre lo spazio con l’asteroide 13642 Ricci).  Da questa finis terrae , che vede inevitabile e vicina,  i flash back della vita si sovrappongono, le domande di senso si accumulano senza risposta. E’ solo nel suo osservatorio davanti all’universo, come è stato solo nella vita, nonostante i tre figli, nonostante le sue compagne Tarquinia, Olga, Natalia, Luisa, apparse e scomparse come in una scena teatrale, nonostante le cene con gli amici importanti. Rimane, in quella casa fra il silenzio di una natura indifferente, il gioco da solitario con gli scacchi, o  l’immaginaria recita del  dialogo fra re Lear e il Matto, in uno scambio di ruoli dove dice a se stesso: ”Tu non avresti dovuto farti vecchio, prima d’esser diventato savio”: un testamento morale che racchiude il senso di una vita.  Il film era ancora in attesa di aggiunte grafiche, in quella continua ricerca di perfezione tipica degli artisti come Baldi, quando di recente fu  visto  in una proiezione privata assieme al regista. Ora è in attesa di trovare un distributore, almeno per l’Italia. Ne abbiamo letto la sceneggiatura, ascoltato più volte gli intenti dell’autore, ma ora siamo ansiosi di entrare in quelle  immagini, ultima tappa ancora in divenire nel  percorso di Baldi verso l’ utopia  del cinema come arte. Ora altri  vi dovranno apporre  quella  parola  che egli ha cercato ma non ha voluto trovare: FINE
“Tante altre cose ma appartengono ai segreti dell’Autore e che l’Autore non racconterà mai”
(da l’ultima lettera di Gian Vittorio Baldi, ricevuta il 3 marzo 2015)

Fonti:
Toesca, Pietro M., Il cinema di Gian Vittorio Baldi. La forza rivoluzionaria del vedere ovvero La macchina da presa di coscienza, Cooperativa Nuovi Quaderni, S.Giminiano 1980
Maraldi, Antonio, Il cinema di Gian Vittorio Baldi, regista e produttore, Centro Cinema Città di Cesena, Il Ponte Vecchio, Cesena 2004
Chiesi, Roberto, Fuoco! Il cinema di Gian Vittorio Baldi, Edizioni Cineteca di Bologna 2009
Zauli, Guido, Gian Vittorio Baldi. Ricerca e trasgressione, Archetipolibri, Bologna 2012
Casetti, Francesco, La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene, Bompiani 2015

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SAGGI

VIETATO AI MINORI?
di Giulio D’Amicone

Vista l’odierna diffusione dell’home video, di Youtube e via discorrendo (e lasciando da parte il tema della pirateria), ci si potrebbe domandare se la censura cinematografica al giorno d’oggi abbia ancora un senso. Ad ogni modo, i criteri in base ai quali le commissioni sbarrano l’ingresso ai minori di 14 o di 18 anni (un tempo 16) sono talvolta difficilmente identificabili; per converso, ogni cinefilo si è trovato ad assistere a pellicole contenenti scene o sequenze che a suo giudizio avrebbero meritato più attenzione. Vediamo di esaminare separatamente le due cose, premettendo che per forza di cose gli esempi riguarderanno in gran parte opere del passato.

1. Spremiamoci il cervello

Nei decenni scorsi le commissioni drizzavano le antenne soprattutto in presenza di tematiche sessuali. Woody Allen per esempio esordisce come sceneggiatore con What’s new, Pussycat? (Ciao Pussycat, 1965),

Ciao Pussycat di Clive Donner

Ciao Pussycat di Clive Donner

diretto in maniera non entusiasmante da Clive Donner. Sebbene non presenti scene particolarmente imbarazzanti, la pellicola viene interdetta ai minori di diciotto anni: è una pochade imperniata sul sesso, ruotante attorno alla figura di uno psicoanalista (Peter Sellers in una delle sue interpretazioni meno riuscite). Il palese desiderio di emulare i ritmi di Labiche si traduce in un impianto teatrale che, unito alla trama pasticciata e alla pesantezza di taluni doppi sensi, non può che far apparire l’opera molto datata. Bisogna però riconoscere che il copione si mantiene quasi sempre su di un versante allusivo, mentre i nostri cinepanettoni, che di allusivo hanno poco o niente, sono sempre passati senza alcuna interdizione. Nello stesso periodo soffrono del medesimo divieto Jules e Jim di Truffaut (1962), che ha il torto di esibire un disinvolto ménage a trois; Irma la dolce di Billy Wilder (1963), ambientato nel mondo della prostituzione; e Lilith di Robert Rossen (1964), tormentata storia d’amore tra un assistente sociale e una degente.
Andiamo avanti. Nei Due mondi di Charlie (Charly, 1968) Stirling Silliphant sceneggiatore e Ralph Nelson regista formulano una precisa accusa contro taluni esperimenti scientifici. Charly Gordon è infatti un ritardato cui viene concesso di potenziare le facoltà cerebrali fino ad un quoziente superiore alla media; purtroppo l’esperimento si rivela circoscritto nel tempo. Ho dovuto vedere questo film due volte per capire (o meglio presupporre) che il divieto ai minori fosse originato da un latente tema erotico (il risveglio dei sensi che si traduce in un goffo  tentativo di possesso). Anche la produzione comica di Mel Brooks subisce il veto: la prima volta per Frankenstein junior (che però viene derubricato in seguito) e la seconda per il successivo Alta tensione. Se per il primo si poteva presupporre che talune situazioni premessero troppo il pedale sul gusto horror, nel secondo caso l’unica spiegazione risiede in un paio di scene in cui vediamo agire una coppia dedita a pratiche sadomasochiste: situazione presentata senza insistenze e in ogni caso volutamente tenuta sul grottesco.
Il secondo argomento che cadeva inesorabilmente sotto le maglie censorie (e non senza ragione) era quello della droga. Un modestissimo spionistico di Marcello Giannini, FBI operazione Baalbek (1966) subisce il divieto per una breve scena in cui una ragazza in piena crisi di astinenza viene confortata da un’amica, che in seguito le procura una dose. Stessa sorte subisce, pochi anni dopo, il poliziesco di Howard Koch Agente 3S3 police connection, in cui il solito poliziotto duro e incorruttibile interroga una tossicodipendente che ha appena assunto una dose di eroina. Ho però l’impressione che negli ultimi tempi le maglie censorie su questo argomento si siano un poco allentate.
Neppure il western classico è andato esente, seppur di rado, da limitazioni (mentre nei western italiani la percentuale di virulenza era tale da provocare divieti a iosa). Se è però comprensibile l’interdizione ricadente su film come L’uomo che uccise Liberty Valance di John Ford (1962)

Un’inquadratura del film di John Fordo Due stelle nella polvere di Arnold Laven (1967), effettivamente comprendenti qualche situazione eccessiva, riesce difficile capire in base a quali considerazioni il divieto ai minori di sedici anni abbia potuto investire anche un prodotto di qualità media come Un piede nell’inferno (1960) di James B. Clark: probabilmente per la scena in cui il personaggio femminile, affidato a Dolores Michaels, narra alcune poco edificanti esperienze della sua carriera di prostituta minorenne.

2. Passiamoci sopra

Se i controlli, come detto, sono sempre stati severi nei riguardi del ses-so (si ricordino anche le vicende relative al Decameron e a Ultimo tango a Parigi), in rapporto alla violenza fisica gli ispettori hanno invece spesso mostrato una singolare indulgenza. Nel finale de Il trono di sangue (1957), versione nipponica del Macbeth, il regista, stravolgendo l’originale, mostra Toshiro Mifune traforato come un San Sebastiano nelle pitture rinascimentali (non è il caso qui di affrontare il discorso sul sadismo nella pittura, che porterebbe molto lontano). Sorte non dissimile viene riservata a Emiliano Zapata (Marlon Brando) nel film diretto da Kazan nel 1952: il rivoluzionario messicano viene letteralmente ridotto a un colabrodo, tanto da giustificare la frase finale di uno dei contadini: “Conciato così potrebbe essere chiunque”.

Dal film Viva Zapata! di Elia Kazan

Dal film Viva Zapata! di Elia Kazan

Ancora. I cannoni di Navarone (1961) è il tipico film d’avventura (cioè per tutti) di una volta: trama spaziante tra mari e monti, lunghezza superiore alla media, squadra divistica di prima grandezza. Ebbene proprio questo film contiene una delle più morbose sequenze di sadoerotismo mai girate. Il problema dell’inserimento di un personaggio femminile fu risolto con l’entrata in scena di una partigiana greca (Irene Papas) accompagnata da “un’amica” (la sfortunata Gia Scala – e complimenti alla fantasia dello sceneggiatore). Purtroppo quest’ultima si rivela essere una spia: e poiché aveva dichiarato di aver subito delle frustate, Anthony Quinn la denuda brutalmente (e il regista Thompson stacca sulla schiena nuda). Si svolge una lunga discussione su chi debba eliminarla: il compito è svolto da Irene Papas (la soluzione meno brutale), dopo di che il gruppo si allontana mentre il regista non manca di porre il cadavere della ragazza in primo piano. Nel successivo lustro, Robert Wise trova un modo diverso di sfogare il suo sotterraneo sadismo dirigendo Quelli della San Pablo (1966). Il film, che si svolge in Cina nel 1926, narra le disavventure di una vecchia cannoniera statunitense osteggiata dai cinesi (sempre dipinti come affetti da sciocco animismo). Circa a metà della narrazione un povero macchinista è costretto a subire la cosiddetta “morte dei mille tagli” perché considerato dai suoi conterranei un traditore: la scena è lunga e lascia ben poco all’immaginazione (tanto che nella versione trasmessa dalla RAI fu ridotta all’osso).

Volendo ora passare dai singoli esempi a un discorso più generale, dovremo ammettere che i film mitologici (oggi denominati peplum) appartengono ad una categoria sulla quale le commissioni censorie hanno sempre sorvolato, sebbene fossero saturi di violenza e –  molto spesso – di una buona dose di erotismo. Al centro della narrazione troviamo un nerboruto eroe dal nome intercambiabile (Ercole, Maciste, Ursus…) il cui ruolo, in fondo servile, consiste generalmente nell’aiutare a scalzare dal trono un sanguinario usurpatore onde far sì che il legittimo sovrano torni ad occupare il posto che gli compete. Si tratta ora di dimostrare l’indegnità del tiranno: e per ottenere ciò la fantasia malata degli sceneggiatori si scatena (quasi che i regnanti legittimi non abbiano mai indulto a torture o atrocità). Per limitarci a pochi esempi: uno dei prodotti migliori, Ercole contro Moloch del regista Giorgio Ferroni, è imperniato sulla figura di un mostro, coperto da una maschera derivante da Cabiria, che in un sotterraneo si diverte a seviziare e uccidere belle ragazze a frecciate. Il regista indugia volentieri anche su lunghe panoramiche esibenti eccidi perpetrati da orde di soldati scatenati. In Goliath contro i giganti (Guido Malatesta, 1961) assistiamo ad una tortura concepita con una enorme ruota dentata mossa da schiavi frustati a sangue dalle solite guardie spietate; in seguito una bella ragazza viene legata nell’arena per essere schiacciata (ma naturalmente l’eroe interviene a salvarla all’ultimo momento); e nel finale il cattivo Fernando Rey finisce infilzato come nel succitato Trono di sangue.

Toshiro Mifune in Il trono di sangue di Akira Kurosawa

Toshiro Mifune in Il trono di sangue di Akira Kurosawa

Tutto ciò per quanto riguarda il sadismo d’autore e quello di casa nostra; mentre bastò che un normalissimo Godzilla (Godzilla contro i giganti, 1973) mostrasse, in un paio di inquadrature, del sangue durante uno degli interminabili scontri tra bestioni di gomma, per subire il divieto ai quattordicenni!

Ringrazio sentitamente Oreste De Fornari per alcune preziose segnalazioni.

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BANCO DI PROVA PER LA FILOSOFIA AL CINEMA:
HANNAH ARENDT DI MARGARETHE VON TROTTA.
di Roberto Lasagna

Hannah Arendt (2012) di Margarethe von Trotta, è un film inatteso e necessario, che tenta di approcciarsi al discorso sulla Shoah nella prospettiva di una riconsiderazione generale dei fatti e delle valutazioni storiche, a partire dal processo di Eichmann, nel desiderio di comunicare quanto sia importante vedere per capire e non per credere o accettare un duplicato “tramandato” della luce sui fatti.

In un desiderio costantemente sottolineato di “riportare a galla” una memoria impallidita, il film della von Trotta dà voce all’intuizione di Adorno, cioè rompe, per così dire, lo specchio magico della duplicazione, permettendo d’intravvedere squarci della realtà che prima era celata agli occhi. Dinanzi ad un film come quello della von Trotta è fin troppo prevedibile vedere sciorinare i luoghi comuni, ovverosia i compartimenti stagni dell’intelligentia, per i quali il film è di volta in volta freddo, documentaristico, superficiale, “parziale”. L’impressione comune è che il ritratto di Hannah Arendt offerto dal film sia quello di una giornalista e non di una donna che ha recato un contributo fondamentale alla riflessione filosofica del Novecento. In realtà, che cos’è la filosofia se non l’amore per il conoscere? E quale migliore pensatrice di Hannah Arendt ai tempi in cui in Israele si celebrò il processo contro Eichmann e la Arendt chiese al “New Yorker” di inviarla ad assistere per produrre una cronaca minuziosa? La filosofia, come pensiero indipendente, trovò lì un banco di prova ineguagliabile. Von Trotta, come la Arendt, evita le convenzioni espressive del tuo tempo, e la sua “freddezza” è il lascito di un’adesione all’indipendenza della pensatrice che da quell’esperienza trasse materiali per un saggio politico e filosofico che sarà noto con il titolo “La banalità del male”; un testo che uscirà dapprima in cinque parti sul “New Yorker” e in seguito sarà pubblicato anche come libro. Arendt aveva già suscitato un complesso dibattito con il saggio “Le origini del totalitarismo” dove la valutazione dei regimi totalitari veniva effettuata con un rigore e un metodo sorprendenti, disposto a portarli tutti sullo stesso piano pur nella riconsiderazione delle differenti ideologie ispiratrici.
Nel pensiero di Hannah Arendt, l’autrice, pur fortemente presente, si pone, per così dire, tra parentesi. La sua scrittura non parte mai da un’adesione identitaria, né cerca scuse o giustificazioni. Come nelle sue opere più radicalmente innovative, con “Le origini del totalitarismo” cercò di individuare le origini e le modalità del male nella speranza evidente che lo stesso non potesse mai ripetersi. Libera pensatrice, orgogliosamente fiera della sua indipendenza, laica anche rispetto alla sua provenienza, lei, ebrea, reclusa e costretta alla fuga, fu apolide per anni prima di ottenere la cittadinanza negli Stati Uniti e fu sempre un’assertrice del pluralismo. Diversamente da Heidegger a cui fu legata e dal quale prese le distanze in termini politici pur continuando ad ascoltarlo, era convinta che non si deve “pensare da soli” e riteneva che lo spettro del totalitarismo si sarebbe potuto allontanare anche attraverso l’inclusione dell’altro, del diverso da noi.
La sua posizione controversa nei confronti della democrazia rappresentativa derivava da una sfiducia nei confronti di una gestione della vita pubblica organizzata “per branchi” e “fazioni”, salvaguardando le inevitabili nuove lotte per la conquista del potere ovverosia della maggioranza. La sua speranza era in un coinvolgimento delle persone “dal basso”, diretto, di un’idea di politica come partecipazione quotidiana alla cosa pubblica, per liberare le persone da quella nuova dittatura della “vita attiva” centrata sul paradigma produzione/consumo.
Quando si trovò a guardare con i suoi occhi Eichmann, vide un anonimo individuo estraneo a qualsiasi capacità di pensiero critico, l’ingranaggio di una macchina militarmente organizzata, addestrata ad obbedire ciecamente agli ordini, alla sospensione del giudizio morale finanche quando stipava i treni per mandare a morte migliaia di esseri umani. Nella “banalità” di Eichmann, nell’assenza di empatia, nell’incapacità di pensare un pensiero proprio o finanche un qualsiasi pensiero, il nazista processato per Arendt non è il mostro, ma il complice tra i tanti di una cultura partecipata, che rendeva legale umiliare, perseguitare, uccidere esseri umani perché ritenuti superflui.

Un’immagine del filmNel film della von Trotta emergono l’isolamento della protagonista, la sua ostinazione e la sua libertà di pensiero che la fanno sembrare a tratti arrogante. Talvolta il tono didattico prende il sopravvento e la messa in scena non sembra brillare per audacia o sperimentalismo. Dialoghi prolungati e talvolta faticosi non si traducono in una rappresentazione sempre efficace, anche se la resa drammatica nel complesso non porta a esiti piattamente televisivi. L’evento di cui la Arendt si occupa nel film ha un grande valore storico: il processo dell’aprile 1961 contro Eichmann, a Gerusalemme, ha il compito di realizzare quella “resa dei conti” che lo stato Ebraico attendeva.
Lo Stato di Israele, nato nel 1948, si pone a livello internazionale come paese alleato delle potenze occidentali; nel 1956, sostenuto da Inghilterra, Francia e Usa, lo Stato di Israele ha intrapreso la seconda guerra arabo-israeliana attivata nei confronti del governo egiziano di Nasser che ha nazionalizzato il canale di Suez impedendo il passaggio alle navi dello stato ebraico. I conti con la Germania paiono definitivamente chiusi, almeno a livello politico. La Germania divisa in due, trova nella parte occidentale il più concreto degli alleati negli Usa con una posizione nettamente antisovietica. Giocoforza, Israele e la Germania si trovano, sullo scacchiere politico internazionale, dalla stessa parte. Tuttavia resta ancora un conto aperto. Un conto più simbolico, forse, che materiale. I gerarchi e i criminali nazisti, responsabili dell’Olocausto, sono stati processati a Norimberga dagli Stati alleati vincitori, e solo in un secondo tempo dai tribunali dei singoli stati con modalità e tempi di volta in volta diversi.
Israele, stato nato nel 1948, non ha ancora potuto tenere i suoi processi. Il caso Eichmann serve dunque per ristabilire un principio: Israele è, al pari delle altre potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale, uno stato sovrano che può condurre un processo di portata sensazionale. Ma il processo Eichmann è anche l’evento che serve per ristabilire un’identità: nei primi anni Sessanta, quando i conti con il passato sono ancora in buona parte da fare, i giovani di ogni paese non ne vogliono più sapere di sentirsi raccontare una storia nei cui confronti sentono completa estraneità. Il processo dovrà allora servire a sensibilizzare, dovrà essere trasmesso in televisione e seguito dal maggior numero di persone.
Nel film della von Trotta, Hannah Arendt vive serenamente a New York con il marito, il poeta e filosofo tedesco Heinrich Blucher. Quando, nel 1961, il Servizio Segreto Israeliano rapisce Adolf Eichman, che si nasconde sotto falsa identità a Buenos Aires, la Arendt sente che la sua presenza durante il processo potrà servire per dare avvio a quel generale esame di coscienza che la cultura e le persone non sentono in alcun modo di favorire. Eichmann, come la maggior parte delle persone che assisteranno al processo e come il film della von Trotta documenta, non ha nulla di sconvolgente e di eroico.

Adolf Eichmann

Adolf Eichmann

“Eichmann non è un demonio”, invoca Barbara Sukova/Hannah Arendt davanti agli occhi attoniti dei suoi amici, americani come la scrittrice amica Mary McCarty oppure immigrati tedeschi come lei. La comunità ebraica internazionale non riesce ad accettare la tesi (che per Arendt non è un’interpretazione, bensì un fatto) che l’Olocausto è nato dall’obbedienza inconsapevole a un sistema gerarchico a cui era arduo resistere. Obbedienza a una legge che imponeva di uccidere, piuttosto che un’intenzione malvagia, demoniaca, diffusa da Hitler e dal singolo nazista della gerarchia.

Per Hannah Arendt, che fu fortemente accusata di antisemitismo e di totale mancanza di empatia dinanzi alla tragedia dell’Olocausto, il male è strutturale, cioè è eterno, un prodotto del sociale, come in parte lo è anche il bene.
Contro la mistica del male, che assegna ad esso un luogo “interiore”, per giustificare una sconcertante tragedia collettiva Arendt giunge a constatare che non esistono, a priori, buoni e cattivi, ma una zona grigia della coscienza che si struttura gradualmente in una dimensione pubblica, con pesi, spazi e poteri propri. Questo potere produce violenza, a cui occorre contrapporre la libertà e la politica.
L’occasione che Arendt individua con il caso Eichmann è di scongiurare tanto il “processo alla Storia”, che intese fare l’allora premier Ben-Gurion, quanto la visione semplificante di un “popolo malvagio” da contrapporre al “popolo del bene”.
Così come Eichmann può essere accusato solo per le sue colpe, non per quelle di tutti, ugualmente sarà opportuno chiamare in causa la responsabilità di alcuni capi ebraici, il cui contributo al “numero delle vittime” non è stato posto nell’adeguata luce.
Il film della von Trotta, se non restituisce la genealogia del pensiero filosofico di una delle più importanti pensatrici del Novecento, ha il merito di riportare alla luce come quest’ultima tesi della Arendt, che evitava di alimentare un pensiero parziale e perciò falso in merito alla natura della Shoah, scatenò una reazione violenta contro un’ebrea che, non dimentichiamolo, fu anch’essa perseguitata e rimase per anni apolide negli Usa.
“Io non amo un popolo ma solo i miei amici”; in queste parole della filosofa di “Vita activa” si conserva l’anelito di orgoglio di un pensiero radicato nella tradizione liberale, incapace di chiudersi e di scendere a compromessi con le derive del suo tempo.
Un film i cui tempi espressivi possono sembrare inadeguati alla frenesia cinestetica, alla fretta che il cinema contemporaneo sembra voler incutere ad uno spettatore che non si vuole far riflettere. Ma i suoi tempi sono quelli della riflessione. Pensiamoci.

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FEDIC, LE PERSONE E I FATTI

FILMMAKER ALLA RIBALTA.
ROSSANA MOLINATTI: L’ARTE DI VIVERE L’ARTE
di Paolo Mameli

ROSSANA MOLINATTIParlare di Rossana può essere facile e al contempo difficile: facile perché su di lei non mancano di certo argomenti di conversazione, difficile, o meglio difficilissimo, perché tali argomenti sono così vari e vasti che si corre sempre il rischio di perdersi. Una pittrice? Certo. Una fotografa? Perché no? Una cineasta? Decisamente sì. Ma anche un’attrice, una pubblicista, una creatrice di maschere… in poche parole un’Artista, di quelle con la A maiuscola.
A vederla così, camminare silenziosa come immersa nei suoi pensieri, non si direbbe, eppure dentro di lei si cela un mondo fantastico, nel quale i ricordi degli infiniti viaggi si mischiano con le pitture e le opere dei grandi maestri, gli echi dei paesaggi e delle architetture si fondono con l’amata musica per creare infine un amalgama unico e prezioso chiamato creatività.
Nata a Venezia ormai tanto tempo fa, di questa città così unica e originale ne ha carpito lo spirito per farlo proprio: i colori, l’atmosfera, le avventure quotidiane si trasformavano nelle sue mani in spettacoli di marionette, che fin da piccolissima allestiva in casa per intrattenere e stupire gli amici. E poi il Liceo, classico ovviamente, e l’Accademia di Belle Arti nonché un lavoro stabile presso l’azienda dei telefoni. Infine, attorno agli anni Cinquanta del secolo scorso, l’approccio con la fotografia, per documentare e bloccare per sempre impressioni di viaggio o opere d’arte, un approccio sempre più approfondito coadiuvato da scelte tecnologiche di volta in volta più sofisticate come Exacta, Rollei e Hasselblad. Risultato? Un archivio di migliaia, o meglio decine di migliaia, di diapositive, molte riportanti immagini di luoghi sperduti che solo pochi hanno avuto il fegato di raggiungere, gran parte dei quali oggi non ci sono più o sono assolutamente irriconoscibili. Tutto catalogato con meticolosità certosina. Sì, perché in Rossana è insita un’ambivalenza apparentemente contraddittoria che potrebbe sconcertare chi non la conosce bene: un apparente disordine, che talvolta sembra sfiorare il caos, che cela in realtà un rigore assoluto degno dei migliori archivisti, un nitore di catalogazione, anche mentale, che non lascia nulla al caso. A questo proposito, mi ricorda un po’ lo Sherlock Holmes del grande Billy Wilder, interpretato magistralmente da Robert Stephen, quando redarguisce Mrs. Hudson, la sua padrona di casa per avergli spolverato le pile di carte giacenti nel suo studio: gli spessori della polvere gli servivano per identificare l’epoca in cui erano stati appoggiati.
Dalla fotografia al cinema il passo è stato breve, quasi ovvio, con i documentari proiettati al Cineclub Venezia che altro non erano che i resoconti “in movimento” dei suoi viaggi intorno al mondo, viaggi che riusciva a concedersi grazie ad una vita austera e senza fronzoli, da abbinarsi al reportage fotografico, per poi entrare in un’altra dimensione, più interiore e personale, sempre legata a corda doppia con l’arte. Il cinema è divenuto così una delle sue più intime e vissute passioni, un modo concreto di confrontare l’arte con i propri sentimenti, la propria sensibilità.
«Non capisco quei cineasti che parlano solo di cinema, che vivono solo per il cinema.» ha più volte detto, perché, secondo il suo pensare, non si può ragionare a “compartimenti stagni” ma ci dev’essere un’interazione continua tra le varie arti: la sensazione che si prova davanti ad un dipinto di Bellini non è meno potente di quella che si prova nell’ascoltare una sonata di Beethoven o nel vedere un film di Orson Welles.
Ed ecco quindi nascere nel 1973 La Regata Storica, un cortometraggio in 8mm che mostra i retroscena della celebre manifestazione veneziana: il montaggio non è perfetto e le immagini, con ottime inquadrature ma ancora troppo “fotografiche”, scorrono per descrivere, ma senza raccontare una vera storia.
Con La grande sfera del 1977, però, avviene la svolta: il cortometraggio non si limita più ad una semplice descrizione di un luogo o di un ambiente, bensì comincia a narrare una vero e proprio racconto. In questo caso si tratta della descrizione di come nasce un’opera in ferro battuto del celebre scultore Toni Benetton, una gigantesca “sfera”, appunto, ora posta in bella vista ad ornare una delle piazze centrali di Treviso. Qui Rossana inizia a seguire con la cinepresa tutte le fasi, dall’ideazione ai bozzetti fino al lavoro vero e proprio e alle finiture finali. Il tutto con un montaggio studiato ed una scelta accurata delle musiche di accompagnamento, in questo caso il “Concerto per orchestra” di Bela Bartok. Questo fu anche il suo primo cortometraggio inviato ad un concorso, per la cronaca quello del compianto Asolo Art Film Festival. Piccolo vaso di coccio tra robusti vasi di ferro – gli altri partecipanti erano presenti coi 35mm “nativi” contro i suoi “adattati” dall’8mm, con un conseguente, inevitabile e tremendo calo qualitativo – non venne segnalato, ma la semplice partecipazione instillò in Rossana la voglia di continuare, di progredire, di affinarsi lungo la nuova strada intrapresa.
Ed eccola quindi impegnata, qualche anno più tardi, in un corso di sceneggiatura tenuto a Venezia da Dacia Maraini. Il risultato? Una nuova consapevolezza della narrazione, uno sguardo più ampio e critico sul soggetto e sul filmato, Lettera a mia sorella, ripreso in elettronica nell’allora nuovissimo formato Betamax, che vinse il terzo premio al Festival a soggetto di Mirano.
Non potendosi permettere altro che la costosa telecamera, Rossana dovette fare letteralmente i salti mortali, realizzando il montaggio in macchina, cosa questa che non solo non la scoraggiò, ma la rese più volitiva che mai nell’approfondire la sua ricerca; una ricerca questa che l’anno successivo diede i primi frutti con la Targa e Premio speciale Basilicata al festival di Montemurro per il cortometraggio Muri di mattoni dedicato a Venezia. In questo caso, però, la nostra era riuscita a procurarsi da un amico un videoregistratore compatibile e quindi il sistema di montaggio, anche se complesso e un po’ precario, era decisamente più “professionale”, nonostante non permettesse modifiche o inserimenti di scene. In poche parole, come si narra avesse detto Kubrick dopo il centesimo ciak: “Buona la prima!”.
Da quel momento la strada divenne sempre più luminosa: due premi per Senza parole (1985) – un corto dedicato al fenomeno dell’acqua alta, ripreso anni dopo con Senza parole 2 dedicato alla bassa marea – e addirittura quattro per Riflessioni (1989), commento visivo ad un testo poetico della stessa Rossana; cinque l’anno successivo con Imaginanza – le riflessioni sulla vita di una donna solitaria davanti alle opere di Paul Klee – e addirittura sei nel 1992 con Evento, la descrizione della realizzazione di una delle sue maschere/tableaux vivents. Già, perché nel frattempo era rinato a Venezia l’ormai assopito Carnevale, con un tam-tam quasi sotterraneo che aveva in breve tempo portato la quasi totalità degli abitanti, per non parlare poi dei turisti, a scendere in piazza mascherati, come avveniva nell’epoca d’oro della Serenissima.

Il Klimt nei costumi di Rossana Molinatti

Il Klimt nei costumi di Rossana Molinatti

E poteva esserci una situazione più ghiotta per la nostra Rossana di esprimere la sua passione per l’arte? Cosa c’era di meglio che travestirsi proprio da opera d’arte? Ecco quindi scendere tra le calli rumorose la Paloma di Picasso, il San Giorgio e il Drago di Paolo Uccello, la Dama e l’Unicorno del Musée Cluny, il Bacio di Klimt passando per Paolo Veronese e Max Ernst. Il tutto condito con una forte dose di caparbietà, un’immensa pazienza e tanto, tanto estro creativo; ed anche lì, ecco giungerle altre soddisfazioni: una copertina dedicata de Il Venerdì di Repubblica, un articolo su Travel-Life, una mostra ad Acireale e altre due in Germania, più precisamente a Lubecca e ad Amburgo.
Ovviamente per ogni successo c’è sempre l’amaro rovescio della medaglia: vista l’originalità e la qualità di queste opere d’arte “da strada” l’allora giunta comunale veneziana le propose si acquisirle per poter esporle in una mostra permanente, cosa alla quale la nostra Rossana aderì subito. Risultato? Come purtroppo capita spesso, per non dire quasi sempre, in Italia, a distanza di ormai quindici anni i Klimt, i Veronese e i Max Ernst carnevaleschi sono ancora riposti in un dimenticato magazzino in attesa di tempi migliori, nella speranza che per negligenza o ignoranza, non vengano eliminati.
Ma torniamo alla cinematografia: siamo nel 1997 e Rossana decide di girare un corto dedicato alla laguna, alla piccola isola di Burano, celebre in tutto il mondo per i suoi merletti e le case dipinte a colori brillanti. La moderna società ha iniziato ad attaccare anche questo piccolo gioiello del passato e le antiche tinte a tempera sono state sostituite dalla volgarità dei colori acrilici, alterandone profondamente l’intrinseca poesia. Ma è proprio questa dicotomia che Rossana fa sua, che attacca in un continuo equilibrio tra denuncia e poesia, affrontando con un ormai quasi sbiadito Hi8 queste problematiche, mescolandole alle struggenti note di Chopin suonato dal suo amatissimo Arturo Benedetti Michelangeli, con un commento in soggettiva tra rimembranze e accuse, un amarcord veneziano intimo e sublime. Il risultato è una vera e propria messe di premi: dalla Medaglia d’Oro a Valdarno Cinema FEDIC al 2° premio al VI Festival di Canzo, dalla Medaglia del Presidente della Repubblica alla Targa di miglior opera sul Veneto al 1° Festival Nazionale Video Cinematografico sulla rappresentazione dello spazio urbano “Videopolis” della Regione Veneto nonché altri numerosi premi e riconoscimenti più o meno importanti. Dopo ciò, Rossana può considerarsi di fatto annoverata tra coloro che sono riusciti a “dare” qualcosa attraverso le immagini, che con la loro opera hanno trasmesso i propri sentimenti fino al più profondo dell’animo di coloro che le guardavano.
Seguono due reportage sul Tibet, On Mani Peme Um (1998) e Cum Deo (1999), rispettivamente sul rito delle “ruote di preghiera” e sui templi, entrambi premiati. Sempre nel 1999 ecco Mio zio Oscar Marziali, il ritratto di un artista a dir poco bislacco che, come ci racconta Rossana quando è in vena di confidenze, pur volendole un gran bene concludeva le rare visite con “…e vieni a trovarmi meno che puoi!”. A questo bisogna aggiungere la sua grande massima “Diffida di coloro che non sono artisti”, frase questa alla quale Rossana, tra lo scettico e il divertito, aggiunge sempre “…e quindi devi diffidare di quasi tutti, poiché i veri artisti si contano sulle dita”.
Altri riconoscimenti con Nove personaggi in cerca d’autore (2001), un azzardato quanto acuto parallelo tra un gruppo di autistici, portati tre anni prima prepotentemente alla ribalta dal film Rain Man di Barry Levinson, e le teste meccaniche di Renée Magritte, seguito da Caleidoscopio (2003) che ci presenta in un susseguirsi quasi astratto di immagini, la Biennale di Venezia.

Dal cortometraggio Calicanto

Dal cortometraggio Calicanto

È il 2004, però, l’anno che potremmo definire topico, l’anno di Calicanto, dedicato all’anziana sorella. Definirlo un momento di grazia, forse è riduttivo: l’azione è tutto sommato semplice, quasi banale: una vecchia signora, dalle dita sottili e nodose deformate dall’artrosi che, con fatica e grande dignità compie le azioni di ogni giorno, come preparare un caffé, passarsi un po’ di belletto sul viso, infilarsi un anello. Poi, una volta seduta in poltrona, inizia lievemente a tamburellare sul bracciolo e questo gesto si trasforma nel sogno di una tastiera mentre una ballata di Chopin, sempre lui!, invade quasi con timidezza la scena: ecco allora ritornare immagini di altri tempi, di una giovane seduta accanto al pianoforte. Alda, così si chiamava, era una pianista. Medaglia d’Oro UNICA 2004 a Veithshoechheim, in Germania; 1° Premio XXXV Concorso Nazionale di Cinematografia Villa di Chiesa Iglesias; Premio per i Valori Sociali a XXXV Concorso Nazionale di Cinematografia Villa di Chiesa Iglesias; Menzione Speciale al XIII Video Festival di Canzo (CO); 4° classificato a Familiade 2005, Vienna.

Rossana Molinatti premiata all’UNICA 2004Un vero gioiello intimo e commovente, del quale Vito Contento su Carte di Cinema n.13/2004, parlando del 55° Valdarno Cinema Fedic, scrive: “Conosciamo abbastanza l’opera di Rossana Molinatti, per dire che quest’anno ha presentato al festival un film che consideriamo al di sopra dei precedenti. Un vero capolavoro Calicanto (Cineclub Venezia DV 15’) non ammesso, incomprensibilmente, fra le opere in concorso. La camera segue con discrezione una donna anziana, con problemi motori, che si organizza per prepararsi un caffé. È ammaliante l’attenzione della regista rispetto alla rappresentazione dei gesti affaticati della donna, che si alternano a dei dolcissimi ritratti, accordati con un montaggio incisivo in grado di fornire all’opera un calmo respiro, intimo, interiore. E la vecchiaia, sembra in Calicanto, una veste difficile da portare, qualcosa di contraddittorio, un declino che, saputo affrontare, saputo, appunto, tenere addosso, è qualcosa di invece al di sopra di ogni dignità, che tocca l’immaginario della saggezza e della perfezione interiore”.

A questo, seguono altri corti, altre esperienze di montaggio, tra l’arte, la poesia e la denuncia sociale come Quiet please (2005) che ci presenta una partita di palla sonora tra ipovedenti; lo strano e sottostimato Convivenze (2006), da lei uno dei suoi preferiti, che accosta nella sua amata Venezia il tranquillo e silenzioso muoversi delle gondole e delle barche a remi coi chiassosi motoscafi a motore; Colombi sì? Colombi no? (2009) in cui è affrontato con tono ironico uno dei problemi che all’epoca affliggeva la città. quello appunto dei piccioni tanto graditi ai turisti quanto distruttori di monumenti e portatori di malattie. Tutti quanti vinsero dei premi.
Oggi Rossana continua imperterrita le sue passioni, con la caparbietà e la forza che l’hanno sempre contraddistinta, cercando di trasmettere la sua sapienza ed il suo modo di affrontare la settima arte nei corsi di video e montaggio all’Università della Terza età di Mestre; ed anche qui, col suo Cenerentola sul Brenta, un’ironica rivisitazione della celebre favola ambientata in una villa brentana ed interpretata dai “giovani” (soprattutto di spirito) allievi del suo corso, che, tanto per cambiare, le valse un premio al Festival di Montecatini l’anno passato.
Il futuro? Ovviamente nessuno lo conosce: posso solo confidarvi – sottovoce, tra amici – che per Natale si è fatta regalare l’ultimo prodotto della GoPro che ogni appassionato di video e di action sportive sa bene di cosa si tratta. Conoscendo il personaggio, ci si può aspettare di tutto, dalla sperimentazione estrema alle interviste impossibili, frutto della sua insaziabile curiosità, della sua fame di vita, del suo amore infinito per l’arte ed il bello. Ed è proprio questo che ci fa e ci farà sempre amare questa piccola-grande donna col cuore di bambina che, ne sono certo, continuerà sempre a stupirci.
Filmografia principale:
1977 –     La grande sfera (8mm)

1977 –     Srinagar (8mm)

1983 –     Lettera a mia sorella (Beta).
– 3° classificato al Festival di Mirano

1984 –     Muri di mattoni (Beta)
– Targa e premio speciale Basilicata ,Olivo d’Argento Montemurro

1985 –     Senza parole 1 (8 mm Sony)
– Premio del pubblico Concorso Nazionale Olivo d’Argento Montemurro
– 3° premio Città di Fano – Targa Kpdak

1989 –     Riflessioni (8mm Sony)
– 1° Premio 1a Rassegna video Comune di Rozzano
– Coppa per gli effetti speciali – Opere Nuove Cineclub Bolzano
– Medaglia d’Argento all’Europaischeramateurfilmkreis – Bludenz
– Medaglia di Bronzo Lana d’Adige – Film Festival delle Nazioni

1990 –     Imaginanza (8mm Sony)
– Medaglia d’Argento, Euro-Filmforum 1990, Bludens (D)
– XXVIII Film Festival delle Nazioni, Ebensee (ÖS)
– Medaglia di bronzo – 14 Jahre Eurofilmer, Zurzach
– 1° Classificato – I° Concorso Nazionale Video Amatoriale “Città di Orzinuovi” (BS)

1991 – Premio Migliore Attrice al Certamen Internacional de Cine Amateur d’Igualada (E), nel cortometraggio “La vestizione della Sposa” di Günther Haller

1992 –     Evento (8mm Sony)
– Coppa della Regione Toscana, Premio speciale – XX Concorso Nazionale del Cinema
non professionale Lastra a Signa
– Opera Premiata 2° Concorso Nazionale Video Amatoriale “Città di Orzinuovi” (BS)
– Medaglia del 16 Jahre Eurofilmer Euro-Filmfestival 1992, Ahrensburg (D)

1993 –     Senza parole 2 (8mm Sony)
– Targa d’Argento speciale della Giuria – XVII Rassenga Nazionale del Cinema e Video Amatoriale, Casteggio (PV)
– Medaglia di Bronzo UNICA – Villa Carlos Paz, Argentina
– Medaglia di bronzo – Danubiale, Krems (A)

1996 –     Requiem per una Nazione (Hi8 Sony)
– 1° Premio 1° Sebino Video Film Festival, Iseo (BS)
– 1° Premio al VI Concorso Video Amatoriale Città di Orzinuovi (BS)
– Medaglia della Città di Bergamo, VIII Trofeo Nino Galizzi
– Trofeo ANA per i Documentari, XX Rassegna del Cinema non Professionale, Casteggio (PV)
– Targa commemorativa XIII Concorso Internazionale Video
– La Cappelletta d’Oro, Alassio (SV)

1997 –     La memoria del tempo (Hi8 Sony)
– Medaglia d’Oro a Valdarno Cinema FEDIC
– 2° premio VI Festival di Canzo (CO)
– 3° Premio al VII Concorso Video Amatoriale Città di Orzinuovi (BS)
– 3° Premio Trofeo XXIX Concorso Nazionale Villa di Chiesa, Iglesias
– 1° Premio Concorso Internazionale per Film e Video delle Regioni di Alpe Adria, Trieste
– Medaglia del Presidente delle Repubblica al XXV Concorso Nazionale del Cinema non professionale, Lastra a Signa
– Targa del Comitato Organizzatore Concorso Nazionale del Cinema non Professionale, Casteggio
– Targa AVIS al 1° Concorso Nazionale Montecatini Teme Video “Giovanni Icardi”
– Premio per la Miglior Opera sul Veneto al 1° Festival Nazionale Video Cinematografico sulla rappresentazione dello spazio urbano “Videopolis” della
Regione Veneto
– 1° Premio Bobina d’Oro al XII Concorso Nazionale della Videocassetta “Bobina d’Oro”,
Alatri (FR)
– 1° Premio al XIV Trofeo Trieste

1998 –     On Mani Peme Um (Hi8 Sony)
– Opera premiata al XXX Concorso Nazionale di Cinematografia Villa di Chiesa, Iglesias

1998 – Cum Deo (Hi8 Sony)
– Targa AVIS al XXX Concorso Nazionale di Cinematografia Villa di Chiesa, Iglesias

1999 –     Mio zio Oscar Marziali (Hi8 Sony)
– Premio Speciale della Giuria al XXII Concorso non Professionale Casteggio (PV)
– Segnalazione speciale della Giuria al 2° Concorso Nazionale Montecatini Teme Video “Giovanni Icardi”

2000 –     C’era una volta
– 1° classificato al V Sebino Film Festival

2001 –     Nove personaggi in cerca d’autore (Hi8 Sony)
– Medaglia d’Oro San Giovanni Valdarno Cinema FEDIC
– Targa Cinefoto Club FEDIC Treviglio (MI)

2003 –     Caleidoscopio (DV)
Targa Ducato di Piazza Pontida,, Trofeo Nino Galizzi (BG)

2004 –     Calicanto (DV)
– Medaglia d’Oro UNICA 2004, Veithshoechheim (D)
– 1° Premio XXXV Concorso Nazionale di Cinematografia Villa di Chiesa Iglesias
– Premio per i Valori Sociali al XXXV Concorso Nazionale di Cinematografia Villa di Chiesa Iglesias
– Menzione Speciale al XIII Video Festival di Canzo (CO)
– 4° classificato – Familiade 2005, Vienna

2005 –     Quiet please! (DV)
– Menzione speciale per il soggetto, XVIII Trofeo Trieste 2005, Concorso Internazionale Film Video, Trieste

2006 –     Convivenze (DV)
– Miglior opera Sezione Turismo, Decima Musa, Associazione Culturale Europea, Caravaggio

2009 –     Colombi sì? Colombi no? (DV)t
– Medaglia di bronzo UNICA 2009, Hammamet (Tunisia)
– Premio Speciale del VII Festival “Estonian Film Amateurs Union”, Tallinn

2010 –     Dove va l’arte oggi? (DV)
– Premio Speciale del VIII Festival “Estonian Film Amateurs Union”, Tallinn

2010 – Giglio Fiorentino d’Argento per la migliore interpretazione assoluta nel cortometraggio “Nino e Nina” di Enrico Mengotti.

Rossana Molinatti interprete di Nino e Nina

Rossana Molinatti interprete di Nino e Nina

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2011 –     Il tocco di Re Mida

– Diploma d’Onore UNICA 2011, Lussemburgo

2014 –     Premio alla carriera al 66° Montecatini International Short Film Festival

Rossana Molinatti con il regista Tonino Valerii all’inaugurazione a “Valdarno Cinema Fedic” di una sua mostra pittorica

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ASSEMBLEA DEI PRESIDENTI: QUALE RUOLO?
di Vivian Tullio

Ogni anno nel mese di febbraio la Fedic indice l’Assemblea dei Soci, alla quale partecipano i Presidenti, o i loro delegati, dei vari Cineclub aderenti alla Federazione. Per permettere ai partecipanti dislocati in tutta Italia di raggiungere facilmente il luogo dell’incontro, da sempre l’assemblea è convocata a Montecatini Terme, accogliente e piacevole cittadina nel cuore della Toscana in provincia di Pistoia. Montecatini è la sede di rinomate Terme come le Tettuccio, in stile liberty, che hanno fatto da sfondo a numerosi film di successo (Oci ciornie di Nikita Michalkov, 1987; Milano Palermo il ritorno, di Claudio Fragrasso, 2007; Rajapattai di Suseenthiran, 2011; La mandragata di Carlo ed Enrico Vanzina, 2002; Cinque giorni di tempesta di Francesco Calogero, 1997; Amici miei atto II di Mario Monicelli, 1982; Otto e mezzo di Federico Fellini, 1963; Camping di Franco Zeffirelli, 1957; ecc.) e a numerose fiction TV (Parole incrociate di Claude Chabrol, 1958; Verdi di Renato Castellani, 1982, ecc.). Una scelta, quindi, non del tutto casuale se vogliamo parlare di cinema e di cineclub!
Anche se la città può essere interessante e piacevole, parlando di Assemblea dei Presidenti, il pensiero corre subito all’aspetto prettamente istituzionale, fatto di fredde e noiose riunioni, scartoffie, lunghi interventi, relazioni, verbali, resoconti dell’attività della Federazione, presentazione di  conti e bilanci, in un appuntamento quindi apparentemente poco accattivante e soporifero. Per chi non ha mai partecipato, l’Assemblea annuale dei Presidenti potrebbe davvero sembrare così: una fredda riunione da rifuggire e che, con la passione del Filmmaker, potrebbe non avere nessun collegamento né attinenza.
Invece, non è così…! Da qualche anno, cioè da quando il nuovo Consiglio e il Presidente Merlino sono alla guida della Federazione, l’Assemblea dei Presidenti riserva delle piccole sorprese ai partecipanti, amalgamando i doveri istituzionali con momenti godibili e rilassanti per accogliere i Presidenti in modo piacevole. E’ ben noto il detto che afferma che “Si lavora meglio divertendosi!” Infatti, l’anno scorso, ad esempio,  è stato dedicato un pomeriggio alla proiezione di video dei Soci, permettendo quindi anche ai non Presidenti di poter partecipare all’evento. La proiezione è stata resa più interessante istituendo un Concorso di critica dei film proiettati, concorso al quale hanno potuto partecipare sia tutti i presenti ma anche coloro che, in tempi successivi, hanno potuto vedere i video su DiLuccaTV.
Anche quest’anno, nel pensare al week-end Fedic (da venerdì 27 febbraio a domenica 1 marzo), si è cercato di coinvolgere i Presidenti all’insegna dell’ “intrattenimento utile”: il Consiglio Direttivo Fedic e, soprattutto, il Presidente Merlino, hanno voluto organizzare momenti di incontro che servissero ai Presidenti per meglio portare avanti l’attività nei loro Cineclub.

Un momento dell’Assemblea dei PresidentiIn quest’ottica, venerdì sera, dopo cena si è parlato di REFF. Da sempre esiste il problema per i Soci di partecipare ai vari Festival Fedic: con moduli di iscrizione, condizioni e richieste diverse per ogni Festival. REFF è dunque la rete dei Festival Fedic, il network che vorrebbe superare queste differenze e, innanzitutto, rendere omogeneo per tutti il modo di iscrizione. REFF è coordinata da Gianluca Castellini, Consigliere e Presidente del Festival Sedicicorto di Forlì. Secondo Castellini l’obiettivo di REFF è quello di costituire un network per poter conferire maggiore forza non solo ai Festival ma anche agli Autori. Inoltre, aggiunge Merlino, REFF deve servire per i soci Fedic per partecipare a tutti i Festival Fedic, in quanto REFF può offrire vantaggi in tema di visibilità dei film, di migliore organizzazione e di maggiore partecipazione, e dovrebbe prevedere anche una sezione scuola, come richiede Laura Biggi, per diffondere il cinema delle e nelle scuole. Un’iniziativa che dovrebbe risultare senz’altro molto utile per i Cineclub e i loro Soci.
Anche quest’anno, così come l’anno scorso, un momento di aggregazione tra Presidenti e Soci è stata la Proiezione del Videogiornale, realizzato, con i contributi inviati dai singoli Club, da Giorgio Sabbatini che, in un’ora di video, è riuscito a raccogliere e sintetizzare tutta l’attività dei diversi Cineclub svolta durante l’anno. Un’opportunità questa di far conoscere e condividere con gli altri quanto fatto dalle diverse sedi. Un modo anche per aumentare lo spirito di appartenenza ad una Federazione come la nostra in cui ciò che ci anima è la passione per le immagini e il cinema.
Forti novità di quest’anno sono state anche la presentazione di una tesi di laurea sulla Federazione dal titolo La Fedic e le sue origini, ad opera di Andrea Mugnai e, soprattutto, evento importante, la presentazione dell’INNO FEDIC.

Andrea Mugnai

Andrea Mugnai

Il Presidente Roberto Merlino presenta gli autori dell’Inno FEDICRoberto Merlino, promotore dell’idea, spiega che avere e usare un inno dovrebbe servirci per identificarci come Fedic conferendoci un maggiore senso di appartenenza e di gruppo. Lo spunto, racconta Merlino, è partito dall’UNICA 2013 a Fieberbrunn in Austria ma, soprattutto, da uno spettacolo teatrale della FITA in cui gli associati hanno cantato il loro inno. Merlino è rimasto molto colpito dall’emozione che ne è scaturita cantando insieme ed ha proposto al Consiglio di realizzare qualcosa di analogo. Ne è derivato un breve testo di Miriano Vannozzi, medico, attore e socio CTC, poeta dialettale di altissimo livello, testo accompagnato dalla musica di Giovanni Scapecchi, giovane compositore e orchestratore aretino, diplomato al conservatorio di Perugia. Per le voci sono stati scelti due cantanti diversi: Nicola Gerbi, baritono per la versione classica e Fabrizio Florio per la versione pop, entrambi accompagnati dal Maestro Antonino Ielo alla chitarra. Il brano suonato e cantato dal vivo per i partecipanti all’Assemblea ha ricevuto dai presenti un ottimo consenso nelle due interpretazioni, e immagino sarà difficile scegliere quale versione adottare!

Un’altra novità di quest’anno e momento anch’esso piacevole e aggregante è stata la Consegna degli assegni-contributo ai Cineclub classificati ai primi tre posti nella Classifica-Cineclub 2014. L’attribuzione dei punteggi per la graduatoria è stata fatta secondo i criteri oggettivi espressi nel Regolamento Interno. Il 1° classificato è stato il CC Corte Tripoli Cinematografica con un premio da 1500 euro, il 2° il CC Cagliari con un premio da 1000 euro e il 3° il CC Delta del Po che ha ottenuto un premio da 500 euro. I premiati, decisamente soddisfatti, potranno utilizzare la cifra  assegnata per l’acquisto di materiale relativo al cinema, video, ecc.

I tre premiati- da sin. Carlo Menegatti (Delta del Po), Pio Bruno (Cagliari), Sergio Brunetti (CTC)

La parte istituzionale importante dell’Assemblea è stata rappresentata dal rinnovo del consiglio direttivo che ha occupato la serata del sabato. Sono stati rieletti i precedenti consiglieri (Roberto Merlino, Presidente, Giorgio Ricci Vice presidente, Vivian Tullio segretaria, Antonella Citi, tesoriere, Giorgio Sabbatini, Gianluca Castellini, Laura Biggi, Pierantonio Leidi), ad eccezione di Marco Esposito che si è dimesso per motivi personali e che è stato sostituito da  Maurizio Palmieri, già impegnato nell’organizzazione dello Stage Fedic.
Un momento utile per i partecipanti all’Assemblea è stata la relazione sulle modalità di compilazione dei moduli Ministeriali da parte della sottoscritta Vivian Tullio. I moduli Ministeriali rappresentano per i Cineclub uno scoglio duro da superare perché non è mai chiaro cosa si debba inserire, cosa no, ecc. Mi auguro, quindi, che la presentazione abbia potuto dissipare ogni dubbio in merito!

Poiché la Fedic deve rinnovarsi Giorgio Sabbatini ha affrontato il problema del sito Fedic che ha un’impostazione ormai obsoleta e dovrebbe essere reso più moderno e accattivante. Ettore di Gennaro, a questo proposito, ha illustrato la sua proposta per il sito Fedic e ha presentato il suo progetto per Facebook,  suggerendo inoltre,  l’utilizzo di Youtube.
Aria di rinnovamento anche nella Commissione Scientifica della Cineteca che amplia i suoi orizzonti passando a Commissione Scientifica Fedic. La Commissione,  presieduta da Paolo Micalizzi, si occuperà tra le altre cose, sia della rivista “Carte di Cinema”, ma anche del coordinamento delle  recensioni dei film dei Soci partecipanti ai Festival Fedic e della successiva pubblicazione delle critiche su “Carte di Cinema” on-line. Paolo Micalizzi, come  direttore della Rivista, ha tra i suoi obiettivi anche quello di puntare sul cinema indipendente e su quello dei Soci.
La Fedic è composta di varie commissioni e gruppi di lavoro: l’Assemblea è il momento adatto affinché questi gruppi si trovino, dialoghino ed esprimano quanto fatto o vogliano fare nel prossimo futuro.
La riunione annuale, che si snoda in tre giorni, oltre ad assolvere quanto necessario fare dal punto di vista istituzionale permette ai singoli club di conoscersi, di poter scambiare opinioni, permette la nascita di nuove collaborazioni, unisce le persone, fa nascere nuove amicizie, rinsalda quelle “vecchie”. E’ un appuntamento a cui si partecipa volentieri sia per fare il proprio dovere ma soprattutto per rallegrare lo spirito e per “comunicare”, parola questa che sta alla base del nostro essere Filmmaker e appassionati di cinema, sia “corto” che “lungo”. Un incontro che arricchisce sempre la nostra cultura cinematografica.

schermo.

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COMMISSIONI FEDIC IN RIUNIONE
di Maurizio Villani

In occasione dell’Assemblea FEDIC di Montecatini del febbraio 2015 si è svolta una riunione tra Consiglieri Nazionali FEDIC, Membri della Commissione Scientifica della Cineteca FEDIC e Membri della Redazione della Rivista on line della FEDIC “Carte di Cinema”. L’incontro, convocato dal Presidente FEDIC Roberto Merlino e condotto dal Responsabile FEDIC CINEMA Paolo Micalizzi, pur molto “libero” ed “informale”, si è posto gli obiettivi di far conoscere tra loro persone che stanno operando in modo costruttivo per la FEDIC, di valutare i pro ed i contro di quel che si è fatto, suggerendo le strategie e gli obiettivi da perseguire, di riflettere su possibili “interazioni” tra le diverse competenze. Erano presenti: Lorenzo Bianchi Ballano, Elio Girlanda, Pierantonio Leidi, Paolo Micalizzi, Maurizio Villani, Giancarlo Zappoli e il Consiglio direttivo FEDIC.
Ha aperto i lavori il Presidente Roberto Merlino, ponendo all’attenzione dei presenti il problema di come far interagire in maniera proficua e produttiva la redazione di “Carte di Cinema” con la Commissione scientifica della Cineteca.

Un momento della Riunione

Un momento della Riunione

Interviene Paolo Micalizzi, nuovo direttore della Rivista a partire dal numero 4, che illustra come procede il lavoro redazionale che si avvale della collaborazione di Maurizio Villani in redazione e di Lorenzo Bianchi Ballano per la grafica e l’impaginazione. Il progetto di uscita dei numeri prevede che la Rivista abbia una cadenza trimestrale con pubblicazione a Marzo, Giugno, Ottobre e Gennaio. Il direttore precisa che la linea editoriale si colloca in continuità con i precedenti numeri; il che non esclude la presenza di alcune novità, in particolare una sistematica attenzione al cinema indipendente (vedi nel N. 4 gli articoli di Elio Girlanda sul cinema d’avanguardia, di Ugo Brusaporco su Augusto Tretti e di Paolo Micalizzi sul regista iraniano Kamran Shirdel). A partire dai riferimenti a questi saggi, il Direttore illustra analiticamente il Sommario del N. 4 della Rivista e annuncia che nei prossimi numeri verranno analizzati alcuni Cortometraggi di autori Fedic (visibili nel sito www.dilucca.it), attraverso interventi critici del periodo in cui essi furono presentati e recensioni di oggi, scritte da soci Fedic.
Il Presidente Merlino propone poi in particolare che si dia vita ad un Concorso di nuove recensioni riferite a film FEDIC, per stimolare i soci a una attività di critica cinematografica. La valutazione dei lavori del concorso va affidata alla Commissione scientifica FEDIC, che costituisce un allargamento di competenze rispetto a quella relativa alla Cineteca. Su questo punto concordano i componenti presenti della Commissione Paolo Micalizzi, Elio Girlanda e Pierantonio Leidi. Altri, assenti alla riunione, saranno avvertiti da Micalizzi. Giancarlo Zappoli esprime poi il suo accordo sulla proposta e sottolinea come il confronto fra passato e presente rimandi al tema della contestualizzazione della critica di oggi con il periodo in cui il film è stato presentato.
Elio Girlanda, dal canto suo, sostiene che la Rivista debba occuparsi soprattutto del cinema indipendente.
Il presidente Merlino auspica un ampliamento di attenzione verso questo tipo di cinema e dichiara la sua piena soddisfazione per come la Rivista è impostata. Micalizzi concorda con questa linea ed esprime la disponibilità a dare maggior spazio ai festival del cinema indipendente, purché la Rivista venga invitata ufficialmente e suoi qualificati inviati possano occuparsene.
Tornando alle questioni di editing, Roberto Merlino chiede che la Rivista sia disponibile in formato PDF, che tutti gli iscritti alla FEDIC siano informati delle sue periodiche uscite e che si allarghi il numero dei collaboratori, invitando a scrivere nuovi giovani critici.
Gianluca Castellini, direttore del Festival Sedicicorto di Forlì, concorda con l’intento di allargare l’attenzione ai festival di cinema indipendente e auspica che le recensioni dei film proiettati possano già essere fruibili dal pubblico presente in sala. Micalizzi, dopo aver ricordato esperienze simili fatte in passato, dice che la cosa è fattibile, a condizione che il Festival sia in grado di stampare un bollettino giornaliero con le critiche delle opere proiettate (la redazione di Carte di Cinema è pienamente disponibile a sostenere questo servizio di informazione, in occasione del Festival) pubblicandole successivamente sulla Rivista.
Il Direttore ribadisce che, oltre all’attenzione per il cinema indipendente, la Rivista, nella sezione “Occhio critico”, rivolgerà la propria attenzione a film importati presentati nei grandi festival e nelle sale cinematografiche. Si occuperà anche dei serial televisivi, la cui importanza non è certo inferiore a molta produzione filmica.
Un impegno assunto dal Direttore è quello di offrire su “Carte di Cinema” ampie sezioni informative sul mondo del cinema attuale. Lorenzo Bianchi Ballano, responsabile del progetto grafico della Rivista, si impegna a migliorarne la forma grafica, compatibilmente con i costi. Auspica poi che ci sia l’impegno di tutti per aumentare la visibilità della Rivista, incominciando dall’indirizzario e-mail di tutti i soci FEDIC, in modo da informarli dell’uscita dei nuovo numeri.
Esauriti gli argomenti dell’incontro, il Presidente Merlino si è compiaciuto per l’utilità della riunione, che ha consentito la conoscenza diretta di molte persone e ed è stata occasione di un proficuo dibattito, assai stimolante per chi è impegnato a lavorare nella FEDIC.

Alcuni partecipanti alla Riunione- da sin. Roberto Merlino, Lorenzo Bianchi Ballano, Maurizio Villani, Paolo Micalizzi, Elio Girlanda e Giancarlo Zappoli

Alcuni partecipanti alla Riunione- da sin. Roberto Merlino, Lorenzo Bianchi Ballano, Maurizio Villani, Paolo Micalizzi, Elio Girlanda e Giancarlo Zappoli

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nuovo FEDIC NOTIZIE: UNA PESANTE E STIMOLANTE EREDITÀ
di Giorgio Sabbatini

Durante la riunione del Consiglio Nazionale della Federazione (Fedic), tenutasi il 16 aprile del 2000 nella sala della biblioteca del Circolo Ferriera del Valdarno, in San Giovanni Valdarno, il compianto Amedeo Fabbri, allora Direttore della nostra Cineteca, propose un’idea davvero innovativa e “geniale” al fine di promuovere i rapporti tra Cineclub. L’idea consisteva nella realizzazione di un “Notiziario Fedic” capace di coinvolgere Presidenti e Collaboratori dei diversi Cineclub per tenere informati tutti i Soci delle varie attività svolte, nell’arco dell’anno sociale, dalla Federazione,

Amedeo Fabbri

Amedeo Fabbri

La Giunta ringraziò Amedeo Fabbri per l’ottima proposta e deliberò di dare vita ad un semplice “foglio”, di formato provvisorio A4, dal nome “Fedic Notizie”. A Marino Borgogni, che, purtroppo, anche lui dal 2012 ci ha lasciati, venne affidato il coordinamento dei Cineclub per l’invio degli articoli relativi alle loro attività. Il n. 1 del “Fedic Notizie” uscì nel mese di maggio del 2000 con la seguente dicitura: PERIODICO A CURA DELLA FEDIC (FEDERAZIONE ITALIANA DEI CINECLUB). Dal n. 22 la dicitura subì questa lieve modifica: BOLLETINO D’INFORMAZIONE A CURA DELLA FEDIC (FEDERAZIONE ITALIANA DEI CINECLUB).

logo Fedic notizie.

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Marino Borgogni

Marino Borgogni

In realtà, Marino Borgogni, divenne l’”anima” e il “motore propulsore” del “Fedic Notizie” che seppe forgiare con grande impegno dando spazio ad una interessante “cronaca” di quanto accadeva nella Federazione. Con la pubblicazione di 308 edizioni di questo “Bollettino d’informazione” riuscì, certamente, a creare un efficace strumento informativo e di comunicazione, oltre ad essere un particolare “diario”, testimone dell’evoluzione storica della nostra Associazione culturale.
Quando Roberto Merlino mi prospettò di realizzare un “nuovo Fedic Notizie”, l’idea mi apparve subito molto interessante, anche se ero cosciente che l’impegno mi avrebbe coinvolto profondamente togliendomi una parte di quel “tempo libero” che,
normalmente, è, per me, sempre un “tempo molto occupato” da svariate attività che svolgo nel campo del video. Roberto mi diede “carta bianca” per la realizzazione del “nuovo” strumento d’informazione e questo, indubbiamente, mi fece intravedere una possibilità in più di dare spazio alla fantasia, nel tentativo di creare qualcosa di veramente innovativo e più completo del precedente “Fedic Notizie” e aperto ad un vero e proprio “dialogo” tra Cineclub, Autori e Soci di una Federazione in grande trasformazione.
Quando l’entusiasmo non manca è anche facile “fantasticare” ed inseguire alcuni “sogni” che presto la realtà cancella o ridimensiona. Con questo voglio dire che non è semplice coinvolgere Cineclub e persone che vivano, giustamente, in modo differente l’associazionismo e che possano dare la loro preziosa collaborazione in base a tempi non prestabiliti. Subito dall’inizio mi sono impegnato ad organizzare una “piccola squadra” di validi Collaboratori rivolgendomi a coloro che ho sempre stimato molto per l’impegno preso con la Federazione e per i rapporti di sincera amicizia che il tempo mi ha permesso di instaurare.
Dare un “nuovo volto” a quello splendido strumento d’informazione che Marino Borgogni aveva saputo amministrare e far crescere, in tanti anni di grande impegno, mi appariva come una grande montagna da scalare affrontando alte pareti lisce sulle quali aprire una nuova strada percorribile utilizzando “chiodi e corde” di non facile gestione. Il timore di fare alcune scelte sbagliate e, quindi, rovinare l’immagine che il “Fedic Notizie” aveva acquisito all’interno della Federazione, era un rischio che doveva essere valutato e preso in grande considerazione.
La prima scelta che si presentava ai miei occhi era la “grafica” da adottare. La domanda che mi ponevo era: “Modificare totalmente la grafica esistente dandole un aspetto più serioso o reinterpretarla e trovare un nuovo risvolto grafico…?”. Il “problema” può sembrare banale ma poiché anche “l’occhio vuole la sua parte” non potevo sottovalutare l’aspetto “estetico” di ciò che si sarebbe chiamato il “nuovo Fedic Notizie”. Il mio desiderio era quello di creare una serie di “fogli” più o meno colorati e con titoli non più “neri o di colore” ma sempre “bianchi” che potessero stagliarsi su fondi adeguatamente scelti. L’idea era quella di presentare le “notizie” sotto una forma leggera, giovanile e innovativa con l’inserimento di alcuni oggetti-simbolo che potevano fare parte dei “banner” d’intestazione degli articoli pervenuti. Mi è sempre piaciuto “sperimentare” e anche questa mia idea era rivolta ad una “grafica” un po’ differente da quella tradizionale, con il preciso intento di cercare d’interessare maggiormente i Lettori.
Altra scelta da attuare era quella se continuare a pubblicare due sole pagine ogni quindici giorni, oppure, ampliare la possibilità di inserire un maggiore numero di articoli, dando alla pubblicazione una periodicità mensile e, di conseguenza, essere aperti alla realizzazione di più “fogli” dando una certa corposità ad ogni edizione del “nuovo Fedic Notizie”.

La scelta, naturalmente, d’accordo con il nostro Presidente Roberto Merlino, cadde su un aumento delle pagine proprio per dare la possibilità a “tutti” i Cineclub, ai loro Presidenti ed ai singoli Soci di “partecipare” attivamente alla vita sociale proponendo programmi svolti con articoli redatti su argomentazioni relative alle immagini statiche o in movimento che meglio potessero rappresentare alcune problematiche di comune interesse. Per questo motivo al “nuovo Fedic Notizie” è stata inserita la dicitura: FOGLI D’INFORMAZIONE A CURA DELLA FEDIC (FEDERAZIONE ITALIANA DEI CINECLUB).

logo Nuovo Fedic notizie.

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Da quelle prime scelte sono passati poco più di due anni e il “nuovo Fedic Notizie” è passato dalle nove pagine del numero zero alle cinquanta del numero venti. In questo breve ma intenso percorso molte cose si sono modificate, con il preciso obiettivo di dare maggiore spazio a chi intenda scrivere sul “Cinema Corto” e sulle relative problematiche. Sono state ideate delle “rubriche” dedicate alle “Attività” svolte dai Cineclub, a “Fedic Scuola”, ai libri cui il cinema si ispira con “Lo scaffale”, ai “Backstage” delle opere in lavorazione o da poco terminate, all’”Angolo delle possibilità”, ai “Festival”, alle “Premiazioni”, alla “Posta”, alle “News” e alle “Proiezioni programmate” dai Cineclub, con la presentazione delle schede filmografiche da raccogliere e consultare, oltre ad una serie di articoli che variano nel tempo in base alle attività svolte dalla Federazione come, ad esempio, la 19a edizione del “Forum Fedic a Venezia”, organizzato dal critico cinematografico, autore di numerosi saggi sul Cinema, Paolo Micalizzi.
Devo dire che se gli “articoli” non mancano, e alcuni Cineclub hanno compreso molto bene  lo spirito di comunicazione che si vuole trasmettere ed alimentare con i “fogli di informazione”, resto sempre in attesa che anche le “piccole notizie” dei Cineclub, soprattutto di quelli che non hanno mai inviato i loro “pensieri”, “critiche” o “iniziative”, possano essere pubblicate per dare un’immagine più completa e più reale della nostra Federazione.
Vorrei che si potessero affrontare alcuni problemi tecnici che i Filmmaker incontrano quotidianamente, ed avere la possibilità di “dialogare”, in uno “Spazio tecnico”, con gli interessati per offrire un servizio di reciproco scambio di esperienze, con lo scopo di approfondire tematiche di cultura cinematografica. Non mi dispiacerebbe, inoltre, avere una rubrica dedicata a “Lo sguardo critico” sulle opere più interessanti che si sono distinte nei Festival della “Rete Fedic”, per dare modo a tutti coloro che non hanno potuto essere presenti alle diverse manifestazioni di conoscere la continua evoluzione del “Cinema Corto” in campo nazionale ed internazionale, analizzando, in questo caso, alcune opere che ogni anno sono premiate nell’itinerante Festival dell’UNICA.
Le idee, certamente, non mancano, però, mi accorgo che per concretizzare alcuni desideri occorrono due ingredienti indispensabili: il “tempo” e validi “Collaboratori” disposti ad alcuni sacrifici ma, soprattutto, entusiasti ed eternamente innamorati di analizzare le opere dei Filmmaker che tentano, con la loro sensibilità e cultura, di raccontare, documentare o sperimentare, attraverso le immagini, la società nella quale viviamo.
Il “nuovo Fedic Notizie” vuole, dunque, essere un insieme di “fogli d’informazione” aperti ad un costruttivo “dialogo” non solo tra gli iscritti alla Federazione ma rivolti anche a tutti coloro che si occupano del “linguaggio delle immagini”, del desiderio di esprimere le proprie opinioni attraverso le ”parole” o con semplici storyboard classici, realizzati con disegni, o fotografici, per testimoniare la graduale e continua crescita di una Federazione ricca di iniziative pronte a coinvolgere sia gli Autori, con la loro innata fantasia, che i semplici “fruitori” di quell’insuperabile mezzo mediatico racchiuso nella “Settima Arte”.

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DIVULGAZIONE COMPILATION CORTOMETRAGGI PER I CINECLUB
di Roberto Merlino

Da anni, in FEDIC, c’è la consuetudine di fornire ai propri Cineclub alcune “compilation” di cortometraggi.
La consegna dei dvd avviene in occasione dell’Assemblea Generale di inizio anno, alla quale sono ospitati tutti i Presidenti (o delegati). Le compilation “storiche” sono due: quella dell’UNICA (relativa al Festival Mondiale dell’Union International du Cinéma, di cui la FEDIC fa parte) e quella del Festival di Montecatini. I film inseriti in queste selezioni sono di alta qualità e rappresentano un’ottima cartina al tornasole per valutare  -anno dopo anno-  le “tendenze”, gli “stili”, le “tecniche” e le “sperimentazioni” del corto indipendente a livello mondiale.

Il tavolo delle Compilation

Il tavolo delle Compilation

Da alcuni anni è stata aggiunta la “compilation” di FEDIC Scuola, in grado di offrire un panorama interessante sulla produzione proveniente dagli istituti italiani di ogni ordine e grado. Ci piace segnalare che alcuni dei film inseriti sono realizzati grazie all’intervento formativo dei nostri docenti, registi e tecnici.
Ultime in ordine di arrivo, ma non meno importanti!, le compilation del Festival di San Giovanni Valdarno e del Videogiornale FEDIC. Si tratta di “novità” degli ultimi due anni. La prima raccoglie una qualificata selezione di film presenti allo storico Valdarno Cinema FEDIC; la seconda è una “documentazione”, variegata ed emozionante, realizzata con i contributi filmati provenienti dai vari Cineclub, a testimonianza dell’attività svolta nell’arco dell’anno.
Con queste cinque compilation (UNICA, Montecatini, FEDIC Scuola, Valdarno e Videogiornale FEDIC) i Cineclub FEDIC di tutta Italia hanno la possibilità di organizzare “serate” di qualità, non solo per i propri Soci ma anche per amici e simpatizzanti.
Il grosso passo in avanti di quest’anno, però, è rappresentato dalle “compilation dei Cineclub”, con le quali si è creata una piccola “distribuzione” di film FEDIC che, seppur limitata, è pur sempre un interessante ed importante passo in avanti.

Compilation in distribuzione

Compilation in distribuzione

Vediamo in cosa consiste questa novità e come è nata.
Abbiamo cercato di far capire, anche tramite incentivi, che sarebbe stato bello ed utile creare una sorta di “scambio” tra Cineclub, in modo da far vedere i propri film e, al contempo, proiettare e commentare quelli degli altri. Si è cercato un meccanismo comune che permettesse, in concreto, di raggiungere l’obiettivo. La soluzione che abbiamo raggiunto è stata quella di suggerire a tutti i Cineclub interessati di realizzare, ognuno, una compilation in dvd con i lavori più rappresentativi, farne svariate copie e portarle con sé all’Assemblea dei Presidenti, mettendole a disposizione di chi fosse interessato. Il risultato è stato che ci siamo ritrovati con oltre un centinaio di dvd sul grosso tavolo dell’Assemblea e li abbiamo visti sparire, in pochi minuti!, nelle tasche e nelle borse dei Presidenti.
La cosa mi ha gratificato e riempito di entusiasmo, perché ho voluto coglierci una gran voglia di partecipare, che fa ben sperare per il futuro della nostra Federazione.
Spero che, tramite la visione dei lavori fatti dai “colleghi” di altri Cineclub, possano nascere stimoli ed idee, oltre alla capacità di affinare il senso critico (ed autocritico!). Ma, soprattutto, spero che il “veicolo compilation” sia solo il momento iniziale di una spinta propiziatoria verso il “veicolo umano”. Intendo dire che sarebbe bello ed auspicabile avere scambi tra Cineclub, che si ospitano a vicenda, facendo intervenire gli Autori alle loro serate, per farli interagire e confrontare con i propri Soci. Sarebbe un modo per crescere artisticamente e per creare (o rafforzare) legami di stima ed amicizia.

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SEGNALAZIONI

Iniziative interessanti

“MARCHIO DI QUALITÀ” DELLA CRITICA CINEMATOGRAFICA

Dall’ottobre 2012 il SNCCI (Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani) ha lanciato l’iniziativa “I film della critica” per la promozione del cinema di qualità allo scopo di fornire maggiore visibilità ad una serie di titoli oggettivamente meritevoli. Non si tratta del tradizionale Servizio di segnalazioni, già svolto in passato dal SNCCI, ma di un vero e proprio “marchio di qualità” attribuito dai critici cinematografici italiani a quei film distribuiti in Italia e riconosciuti di particolare livello estetico e culturale.
E’ un’iniziativa interessante per il mondo del cinema che proponiamo, in modo particolare, all’attenzione di filmmaker, cinefili, giornalisti e studiosi , pubblicando l’elenco dei film finora segnalati: uno stimolo a recuperarli nel caso non si sia avuta la possibilità di vederli nella normale programmazione nelle sala cinematografiche e un invito a programmarli nell’attività culturale.

La Redazione

2012
11 settembre    “Monsieur Lazhar”  di Philippe Falardeau – OFFICINE UBU
11 settembre     “ L’intervallo”  di Leonardo Di Costanzo – Istituto  LUCE/ CINECITTA’

09 ottobre      “Kuf”  di Ali Aydin – SACHER DISTRIBUZIONE
09 ottobre    “Amour”  di Michael Haneke – TEODORA FILM
16 ottobre    “Terramatta”  di Costanza Quatriglio – Istuituto  LUCE/ CINECITTA’

Terramatta2013

09 gennaio    “Qualcosa nell’aria” – Après Mai  di Olivier Assayas  – OFFICINE UBU
09 gennaio    “Thy Womb” –  di Brillante Mendoza – non ha distribuzione  in Italia
29 gennaio    “Re della Terra Selvaggia” – di Benh Zeitlin  – Satine Film con Bolero Film
04 febbraio      “Zero Dark Thirty” di Kathrin Bigelow – Universal Pictures International Italy
28 febbraio    “Il Lato Positivo “ – Silver Linings Playbook  di  David O. Russell – Eagle Pictures
25 marzo    “ Su Re” di Giovanni Columbu – Sacher Distribuzione
02 maggio       “NO – I giorni dell’arcobaleno” – di Pablo Larrain  – Bolero Film
23 maggio       “La Grande Bellezza ” – di Paolo Sorrentino  – Indigo Film – Medusa Film
07 giugno     “Il caso Kerenes” di Calin Peter Netzer, distribuito da – TEODORA FILM
21 ottobre    “ La Vita di Adele” di Abdellatif Kechiche – Lucky Red  Distribuzione
21 novembre    “ Il Passato” di Asghar Farhadi –  BIM  Distribuzione
05 dicembre    “ Philomena” di Stephen Frears – Lucky Red  Distribuzione
05 dicembre    “ Still Life” di Uberto Pasolini –  BIM  Distribuzione
05 dicembre    “ Locke ” di Steven Knight –  Good Films  Distribuzione

Dal film Su Re

Dal film Su Re

2014

07 gennaio    “ Nebraska” di Alexander Payne – Lucky Red  Distribuzione
07 gennaio    “ Inside Llewyn Davis” di Joel e Ethan Coen – Lucky Red  Distribuzione
03 febbraio    “Dallas Buyers Club “ – di  Jean-Marc Vallée  – Good Films Distribuzione
21 marzo      “Ida” di Pawel Pawilikowski – Parthernos Distribuzione e Lucky Red  Distribuzione
02 aprile          “Father & Son”  di  Hirokazu Koreeda – BIM Distribuzione
12 maggio       “Le meraviglie”  di  Alice Rohrwacher  – BIM Distribuzione
12 maggio       “Solo Gli Amanti Sopravvivono”  di  Jim Jarmusch  MOVIES INSPIRED
18 giugno         “Jersey boys”  di  Clint  Eastwood – Warner Bros. Entertainment Italia SpA
09 settembre    “Anime Nere”   di Francesco Munzi –  Good Films Distribuzione
09 settembre    “The Look of  Silence” di Joshua Oppenheimer  I Wonder  Pictures Distribuzione
09 settembre    “Belluscone”  di Franco Maresco  – Lucky Red Distribuzione
29 settembre   “Class Enemy “ di Rok Bicĕk  – Tucker Film srl Distribuzione
30 settembre    “Winter Sleep”  di Nuri Bilge Ceylan  – Parthernos/ Lucky Red Distribuzione
27 ottobre         “Boyhood” di Richard Linklater distribuito da Universal Pictures
29 ottobre         “Pelo Malo” di Mariana Rondòn distribuito da Cineclub Internazionale Distribuzione

Un’immagine del film Pelo Malo03 novembre  “Sils Maria”  di Olivier Assayas –  Good Films Distribuzione
04 novembre  “Torneranno i prati ”   di Ermanno Olmi –  01 Distribution Rai Cinema
12 novembre “Due giorni una notte” di  Luc e Jean-Pierre Dardenne – BIM Distribuzione
17 novembre “Addio al Linguaggio” di Jean-Luc Godard – BIM Distribuzione
20 novembre  “Viviane”  di Norit e Shlomi Elkabetz  distribuito da Parthenos
01 dicembre   “Mommy”  di  Xavier Dolan –  Good Films Distribuzione

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2015

12 gennaio  “Hungry Hearts ”  – di Saverio Costanzo –  01 Distribution Rai Cinema

motivazione:
Il rischioso ed originale mix fra una storia intima e dolorosa esposta con grande pudore e una vicenda professionale narrata con ironia e sarcasmo è pienamente riuscito.
Il risultato è un film intenso, struggente ed emozionante in ogni senso. Pur attingendo alle proprie esperienze personali, con una scelta sorprendente, Nanni Moretti evita il pericolo di un film eccessivamente autoreferenziale affidando ad un altro da sé il ruolo di protagonista.

20 gennaio  “Turner ”  – di Mike Leigh –  BIM  Distribuzione

motivazione:
Mike Leigh disegna con magnetica forza visiva, la vita dello straordinario pittore inglese e i luoghi dove è stata vissuta, trasformando il paesaggio, così intimo nell’opera dell’artista, in una “quinta” essenziale. Leigh conferma il suo sguardo profondo, calando i personaggi in una realtà sociale spesso ambigua e contraddittoria, ma descritta con una sentita e partecipata sensibilità umana, anche nelle sue espressioni più scostanti, dove anche il ruolo dell’artista fatica a trovare a volte una sua ragione. Formidabile la prova attoriale di Timothy Spall.

02 febbraio  “Birdman” di Alejandro González  Iñárritu – 20th Century Fox Italia Distribuzione

motivazione:
Con virtuosismo mai compiaciuto, Alejandro González Iñárritu  fa correre la macchina da presa, in tempo reale, nel backstage di un teatro che diventa al tempo stesso l’altra faccia dell’industria  hollywoodiana, tra scontro di ego, prove straordinarie d’attore, satira della critica e resistenza quotidiana alla tirannia dei sequel e dei franchise. Michael Keaton, supereroe pentito, associa perfettamente malinconia e cinismo

09 febbraio  “Timbuktu”  di  Abderrahmane Sissako  – Academy Two  Distribuzione.

motivazione:
Sissako compone un potente mosaico, a tratti leggero, più spesso drammatico, di una quotidianità resa terribile dalle leggi imposte dagli integralisti islamici. Il suo sguardo lucido e poetico, anche nei momenti più brutali, sottolinea la crudeltà di imposizioni e divieti assurdi di un Potere assoluto e cieco. Mai così di attualità, dati i recenti fatti che hanno sconvolto il mondo, Timbuktu scrive tra il deserto e l’intolleranza un capitolo prezioso per la conoscenza e il contenuto artistico.

Timbuktu.

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17 febbraio  “Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza” di Roy Andersson- Lucky Red

motivazione: Roy Andersson continua, con tempi controcorrente, il suo scandaglio sulla tragicità della commedia umana. Il film, Leone d’oro all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, compone in quadri di surreale, impietosa rappresentazione, il grottesco ritratto di una civiltà, i cui comportamenti assurdi dimostrano la totale estraneità a una “normalità” presunta. In una raggelante messinscena tipologicamente nordica, ogni possibile risata si stempera nel più atroce silenzio, tra lo sconcerto e il dolore.

23 febbraio  “Life itself”  di Steve James – I Wonder Pictures

motivazione:
Attraverso le vicende biografiche di Roger Ebert, uno dei più influenti critici cinematografici americani, scomparso nel 2013, il documentario racconta la passione per il cinema, dimostrando come si possano promuovere i film di qualità utilizzando un linguaggio semplice e immediato. La struttura del racconto procede seguendo un percorso emozionale, piuttosto che cronologico, utilizzando materiali di ogni tipo -testimonianze, filmati di repertorio, fotografie – che compongono un coinvolgente mosaico di grande suggestione

26 febbraio “Vizio di forma” di Paul Thomas Anderson – Warner Bros Italia

motivazione:
Attraverso una scrittura stratificata che trae origine dalla trasposizione del romanzo di Thomas Pynchon, Paul Thomas Anderson riesce a ricostruire, con intenti tutt’altro che banalmente nostalgici, la dimensione esistenziale di personaggi sedotti dall’epoca di appartenenza (inizio anni ’70), così instabile emotivamente e ricca di percezioni di fuga, dove gli intrecci a tratti caotici e inestricabili della trama accompagnano i percorsi di uno stravagante detective destabilizzato da droghe, deliri e solitudine, ponendo ogni immagine in piena libertà narrativa.

06 marzo  “Foxcatcher”  di Bennett  Miller –  BIM

motivazione:
Una riflessione sul potere, raccontata in una dimensione privata, caratterizzata da rapporti malati, gelosie familiari, sentimenti complessi e contrastanti. Ispirato ad un fatto di cronaca che sullo schermo si trasforma in metafora del sogno americano che diventa incubo. Un film complesso, aspro, spiazzante, che nasce da una sceneggiatura ricchissima, capace di mescolare la concretezza del sudore muscolare con l’evanescenza delle dinamiche di dominazione e sottomissione.

16 marzo “N-Capace”  di Eleonora Danco  – BIBI FILM – RAI Cinema

motivazione:
Una riflessione a più voci su Dio, il sesso, la morte, la famiglia, affidata ad un eterogeneo gruppo di anziani e adolescenti. In un clima metafisico e surreale, fra indiscrezioni e provocazioni, le parole si mescolano con immagini sempre originali e imprevedibili. Un film estremo e controcorrente.

07 aprile  “L’altra Heimat”  di Edgar Reitz  – Ripley’s Film- Viggo – Nexo Digital

motivazione:
Edgar Reitz arricchisce di un nuovo capitolo la sua monumentale opera di ricostruzione di una Nazione, in epoche diverse, confermando la sua straordinaria capacità di elevare la storia di una famiglia e di un luogo immaginario a paradigma della Storia attraverso gli ultimi 150 anni. La forza delle immagini, lo scandaglio sociale, la fede in un cinema che possa ancora raccontare, con tempi per niente commerciali, esistenze e fatti pongono Reitz tra i cineasti più affascinanti e irrinunciabili di oggi.

Dal film L’altra Heimat10 aprile “The fighters – Addestramento di vita” di  Thomas Cailley – Nomad Distribuzione

motivazione:
Thomas Cailley racconta con originalità, in un’alternanza di generi, una storia di iniziazione, anche sentimentale, attraverso una fisicità marcata, non necessariamente erotica, di due giovani assai diversi tra loro, che trovano il modo per affrontare insieme disagi e turbamenti caratteriali e comportamentali, con un finale coraggioso dove il rapporto tra umanità e natura si mescola tra fascino e panico.

14 aprile  “Mia madre” di  Nanni Moretti distribuito dalla 01 Distribution –Rai Cinema

Motivazione:
Il rischioso ed originale mix fra una storia intima e dolorosa esposta con grande pudore e una vicenda professionale narrata con ironia e sarcasmo è pienamente riuscito.  Il risultato è un film intenso, struggente ed emozionante in ogni senso. Pur attingendo alle proprie esperienze personali, con una scelta sorprendente, Nanni Moretti evita il pericolo di un film eccessivamente autoreferenziale affidando ad un altro da sé il ruolo di protagonista

John Turturro in Mia madre di Nanni Moretti

John Turturro in Mia madre di Nanni Moretti

27 aprile  “Forza maggiore”  di Ruben Östlund  distribuito dalla Teodora Film,
Motivazione:
Il regista svedese racconta un’ordinaria storia di crisi coniugale con un’originalità non comune,
tracciando un singolare percorso narrativo, dove ogni elemento si insinua e si manifesta all’improvviso, minando certezze e sicurezze.
Non privo di sottile sarcasmo e segnato da uno stile rigoroso, quasi asettico, dove le immagini assumono forza e talvolta valore simbolico,
il film s’impone anche per la visione potente ed enigmatica della natura, qui elemento fondamentale per lo sviluppo della storia.

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FESTIVAL ED EVENTI

MAESTRI DEL CINEMA E FOLTISSIMO PUBBLICO:
CARTE VINCENTI DEL BIF&ST 2015
di Paolo Micalizzi

logoC’è un dato molto significativo che indica come il Bif&st sia una grande Festival: oltre 73.000 spettatori in otto giorni di cui 50.000 giovani. E sono spettatori soprattutto del territorio e non di addetti ai lavori come avviene in altri Festival di grandi dimensioni. Un dato che indica, in sostanza, come il festival sia ben radicato nel territorio, e lo è stato posso dire sin  dall’inizio come ebbi modi di constatarlo partecipando alla seconda edizione: oggi, siamo alla sesta. Ad attirare il pubblico un ricco programma: sul cinema italiano ma anche su quello internazionale. Film e documentari raggruppati in apposite sezioni che consentono la conoscenza del panorama attuale cinematografico. Ma a dare maggior prestigio al Festival è soprattutto la presenza di Maestri del Cinema mondiale, protagonisti di Master Class che anche quest’anno hanno affollato il prestigioso Teatro Petruzzelli. In scena Maestri come Alan Parker, Jean Jacques Annaud, Costantinos Costa- Gravas, Ettore Scola, Andrzej Wajda, Edgar Reitz, Margarethe von Trotta e Nanni Moretti, tutti autori insigniti del Fipresci Platinum Award, la Federazione internazionale dei critici del cinema. Otto lezioni di cinema che hanno fatto approfondire l’opera dei protagonisti partendo da un loro film particolarmente significativo.

Protagonisti delle Otto lezioni di cinema

Protagonisti delle Otto lezioni di cinema

Cosi, per Alan Parker Fuga di mezzanotte (1977) che racconta le drammatiche vicende di un americano detenuto nelle carceri turche, film di un autore che, come ha affermato, ha sempre cercato di sperimentare cose nuove, generi diversi “ perché se si vuol rimanere vivi si deve cambiare e non ripetersi mai”. E data la situazione sempre più difficile per realizzare film, Alan Parker consiglia ai giovani talenti di difendere le proprie idee con onestà e chiarezza e, soprattutto, di costruire intorno a sé un team di professionisti talentuosi che, però, siano soprattutto degli amici veri. Sul mestiere di regista si è soffermato anche Jean- Jacques Annaud, che ha presentato in anteprima L’ultimo lupo, sostenendo che lo scopo deve essere quello di suscitare emozioni nel pubblico utilizzando anche tecniche innovative. Circa poi il fatto di avere un animale al centro della narrazione, Annaud lo ha spiegato dichiarando che in essi si rispecchia il comportamento umano e quindi bisogna cercare di capire l’animale che vi è in noi e cercare di addomesticarlo.
Regista che nelle sue opere ha affrontato senza compromessi temi politici e una forte denuncia sociale è Costantinos Costa-Gravas di cui è stato riproposto Amen, opera tratta da “Il Vicario” (1963) di Rodolf Hochhuth, che denuncia il silenzio papale sulla Shoah durante il periodo nazista. Il regista ha affermato che si è sempre voluto interessare di uomini e del loro potere per cui ogni suo film riflette un evento della società che lo ha colpito in modo particolare. “Tutto il cinema è politico, anche un film d’azione  che mostra eroi che salvano il mondo  con una pistola. E a tal proposito ha dichiarato di essere sempre stato influenzato dai polizieschi americani. E sul suo modo di affrontare la politica ha dichiarato il suo debito con la cultura greca: “Se ho imparato un certo modo di affrontare la politica, lo devo agli studi dei classici greci. Non ho mai cercato di capire l’origine dei film  che ho diretto, ma il bagaglio culturale greco è sempre alla base dei film che faccio. L’insegnamento più grande è che ogni volta che c’è un  cambiamento di civiltà, bisogna cambiare gli uomini e la società in cui essi vivono”. Un altro Maestro del cinema politico è il polacco Andrzej Wajda che a 89 anni continua a girare film. All’ultima Mostra d Venezia si è visto il suo Walesa.
L’uomo della speranza, mentre al Bif&st è stato riproposto Katyn (2007), film omaggio alla madre che inutilmente ha per anni cercato il padre che poi si seppe era tra i morti di un tragico evento, quello di cui parla il film incentrato sulla strage di ottomila ufficiali polacchi da parte della polizia segreta di Stalin perpetrata nel 1940 nell’omonima foresta, vicino Smolensk.

Dal film Katyn di Andrzej Wajda

Dal film Katyn di Andrzej Wajda

Film politico di grande consistenza e significato è Anni di piombo (1981) che è ispirato alle vicende di due sorelle della banda Beader-Meinhof, sul loro rapporto e sulla ricerca da parte di una di esse della verità sulla morte dell’altra, avvenuta in carcere in circostanze misteriose. La regista tedesca Margarethe von Trotta ha affermato che nella sua attività ha sempre cercato di portare avanti le sue idee secondo uno stile preciso che è stato quello di concentrarsi più sulle persone che sulle tematica. Un cinema della memoria, quello della Von Trotta che ha al centro eventi che hanno segnato la Germania, come quelli della rimozione post-bellica e quelli, successivi, delle contestazioni e dei movimenti. “La nostra generazione, ha detto, ha capito solo nel ’60 cosa era successo e per reazione molti di noi sono diventati ribelli. A casa e a scuola, siamo stati cresciuti nel silenzio del passato: si sono dati molto da fare per tenere una generazione all’oscuro”. Un tema che ricorre poi nei suoi film è quello della “sorellanza” che affronta anche in The Misplaced World presentato in anteprima al Bif&st. Una “lezione di cinema” anche  dal leggendario regista Edgar Reitz, autore della saga Heimat che in circa 60 ore racconta la storia della Germania attraverso l’epopea di una famiglia. E’ tra i fondatori del nuovo corso del cinema tedesco scaturito dal “Manifesto di Oberhausen”(1962) firmato da 26 giovani registi tra cui Alexander Kluge, Peter Shamonì e Volker Schlondorff, la prima generazione di registi a voler prendere le distanze dal cinema nazista ritenendo che “il cinema dei padri è morto”. Un cinema il suo tra epica e storia da cui prendere ispirazione. Nel panel delle lezioni di cinema anche i Maestri italiani Ettore Scola e Nanni Moretti. Il regista di C’eravamo tanto amati, di Una giornata particolare e di altri film che l’hanno consegnato alla Storia del Cinema non soltanto italiano, fino al più recente Che strano  chiamarsi Federico, ha ripercorso la sua grande storia autoriale caratterizzata, come afferma la motivazione del Premio Fipresci a lui attribuito,  da un cinema “acuto e ricco di umorismo, lungimirante e talora profetico che ha spinto generazioni di spettatori a riflettere”. Ma più che del suo cinema, Ettore Scola ha colto l’occasione per sottolineare, anche come Presidente del Festival, la presenza di tantissimi giovani che si alzano alle sette del mattino per correre al cinema e che, dopo le proiezioni, continuano a discutere e a confrontarsi aggiungendo che “ è in corso un processo osmotico che non bisogna sprecare”. E rivolgendosi ai giovani li ha incitati a considerare, data la situazione cinematografica e politica attuale che costituisce una realtà difficile da interpretare, che tutto è nelle loro mani. Attesissimo poi Nanni Moretti di cui era in uscita Mia madre. Ma il regista non ha parlato di quest’ultimo suo film, di cui strategicamente aveva fatto diffondere notizie il giorno prima, ma di Caro diario (1993), leggendo gli appunti di lavorazione dei giorni in cui lo stava realizzando. Un recital, in fondo, in cui ha mostrato cosa c’è dietro a un film. Una lezione di particolare interesse e utile a chi vuole cimentarsi nella regia. Otto lezioni di cinema, storia e vita. Da sottolineare poi come alcuni registi internazionali abbiano dichiarato la loro riconoscenza per il cinema italiano. Jean Jacques Annaud ha rivelato che da giovane è stato molto colpito da Sciuscià (1946) e da Ladri di biciclette(1948) di Vittorio De Sica piuttosto che dai film americani, mentre Margaret von Trotta ha citato I bambini ci guardano (1943) di Vittorio De Sica ed ha dichiarato che avrebbe voluto lavorare con Gian Maria Volontè e Marcello Mastroianni. Vittorio De Sica è stato anche omaggiato da Edgar Reitz che ha anche affermato di conoscere a memoria i film di Roberto Rossellini.

Francesco Rosi

Francesco Rosi

Il Bif&st è stato poi caratterizzato dal tributo a Francesco Rosi, a cui esso era dedicato, e da un’ampia retrospettiva ad un gigante del cinema come Fritz Lang, curata da Felice Laudadio e dallo storico del cinema Carlo di Carlo. Un’iniziativa, quest’ultima, molto opportuna nel momento in cui è stato riproposto in 70 sale cinematografiche italiane, con il restauro della Cineteca di Bologna, un suo capolavoro come Metropolis (1927), una delle opere simbolo del cinema espressionista.
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Una significativa immagine del film Metropolis di Fritz Lang

Una significativa immagine del film Metropolis di Fritz Lang

Un autore, Fritz  Lang, di tante opere che l’hanno consegnato alla Storia del Cinema: I nibelunghi (1924), M.il mostro di Dusseldorff (1931), Il testamento del dottor Mabuse (1933) che conclude la fase tedesca dei suoi film per trasferirsi poi in Francia e successivamente in America, dove dal 1936 al 1957 realizza ben 22 film facendo poi ritorno in Germania e chiudendo con il cinema nel 1963, a 73 anni. Tra i suoi film americani Furia (1936), Anche i boia muoiono (1943), La donna del ritratto (1944), Gardenia blu (1952) e Il grande caldo (1953). Al Bif&st anche Fritz Lang attore con Il disprezzo (1963) di Jean-Luc Godard in cui interpreta se stesso. Una retrospettiva per far approfondire meglio, soprattutto, alle nuove generazioni, l’opera di un  gigante del cinema. Una Mostra fotografica, curata da Angelo Amoroso D’Aragona, ha fatto da “memoria storica” per riflettere sull’intera sua opera. Cosi come una Mostra dedicata a Francesco Rosi ha consentito di ripercorrere la filmografia di questo Maestro del cinema italiano, ma non solo, di cui è stato presentata un’ampia retrospettiva dei suoi film ma anche alcuni documentari-video che ne completano la conoscenza. La visione dei lungometraggi  della sezione “ItaliaFilmFest”( opere prime e seconde) e del panorama internazionale ha costituito poi momenti di conoscenza del cinema d’oggi, favoriti anche dagli incontri con i loro protagonisti (registi, attori, attrici) che hanno consentito un approccio informativo utile a meglio analizzare le opere programmate e il momento cinematografico che viviamo. Sessanta spettatori poi, sono stati convolti nella giuria delle opere prime e seconde che ha decretato vincitore Più buio di mezzanotte di Sebastiano Riso, incentrato sulla crescita di un giovane al quale piacciono i ragazzi. Ricco poi il programma dei documentari che ha consentito di aggiornarsi su una produzione che attira sempre più “vecchi” e nuovi talenti del cinema. Il Bif&st ha anche organizzato alcuni laboratori di scenografia e costumi per il cinema, il teatro e la televisione, tenuti da qualificati esperti del settore a dei giovani appositamente selezionati: un’opportuna occasione per chi vuole cimentarsi in quei mestieri.
Una giuria  espressa dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (SNCCI), ha assegnato poi, per “ItaliaFilmFest”, i seguenti premi: Premio Mario Monicelli per il miglior regista a Francesco Munzi per Anime nere, premio Franco Cristaldi per il miglior produttore a Luigi Musini per Anime nere di Francesco Munzi e per Torneranno i prati di Ermanno Olmi (per questo film è stata anche premiata la co-produttrice Elisabetta Olmi),premio Tonino Guerra  per il miglior soggetto a Marcello Mazzarella per Biagio di Pasquale Scimeca, premio Luciano Vincenzoni per la migliore sceneggiatura a Edoardo Leo  e Marco Bonini per Noi e la Giulia di Edoardo Leo, premio Anna Magnani per la migliore attrice protagonista a Alba Rohrwacher per Hungry Hearts di Saverio Costanzo, premio Vittorio Gassman per il miglior attore protagonista a Elio Germano per Il giovane favoloso di Mario Martone, premio Alida Valli per la migliore attrice non protagonista a Anna Foglietta per Noi e la Giulia di Edoardo Leo, premio Alberto Sordi per il miglior attore non protagonista a Carlo Buccirosso per Noi e la Giulia di Edoardo Leo, premio Ennio Morricone per le migliori musiche a Paolo Fresu per Torneranno i prati di Ermanno Olmi, premio Giuseppe Rotunno  per il miglior direttore della fotografia a Fabio Gianchetti per Hungry Hearts di Saverio Costanzo, premio Roberto Perpignani per il miglior montatore a Cristiano Travaglioli per Anime nere di Francesco Munzi  e premio Piero Tosi per il miglior costumista a Nicoletta Ercole per Incompresa di Asia Argento. Nel “Panorama Internazionale” è stato premiato ,da una giuria popolare presieduta da Valerio De Paolis, Louis-Julien Petit per il suo Discount, mentre il regista Oles Sanin  ha ricevuto una Menzione speciale per Povodyr (The Guide). Infine, premi “Nuovo Imaie” all’attrice Alba Rohrwacher protagonista di Vergine giurata di Laura Bispuri e all’attore Pierfrancesco Favino per Senza pietà di Michele Alhaique. Spazio anche ai videomaker con il “Short Roads Motoria” che ha visto vincitrice, su una ventina di partecipanti, Viole Piccininni con Domani è qui.  Una manifestazione, il Bif&st che ha confermato come Felice Laudadio sia un Direttore di Festival di primo piano. Un  Direttore che pensa anche in modo concreto al futuro del Festival annunciando, al termine della cerimonia conclusiva al Petruzzelli, il programma di massima della prossima edizione che si terrà a Bari dal 2 al 9 aprile 2016 e sarà dedicata, nella ricorrenza dei 20 anni della sua scomparsa, a Marcello Mastroianni . Con una serie di iniziative volte ad inquadrare nella sua completezza la figura di questa grande personalità del cinema. Tra le iniziative in programma le “Lezioni di cinema” in cui saranno protagonisti otto attori e attrici, e Laboratori dedicati alla formazione e alla informazione degli attori.

L’attore Marcello Mastroianni a cui sarà dedicato il Bif&st 2016

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ASSOCIAZIONISMO INTERNAZIONALE

IL FUTURO DEL CINEMA E  IL NUOVO PUBBLICO
di Marco Asunis

In rapporto all’attività culturale cinematografica in Italia, qual è lo stato oggi e quali sono le prospettive domani delle nove Associazioni Nazionali di Cultura Cinematografica – AANNCC (di seguito e in ordine alfabetico l’elenco delle Associazioni: ANCCI – Associazione Nazionale Circoli Cinematografici Italiani,  CGS –  Cinecircoli Giovanili Socio-Culturali, CINIT – Cineforum Italiano, CSC – Centro Studi Cinematografici, FEDIC – Federazione Italiana dei Cineclub, FIC – Federazione Italiana Cineforum,  FICC –  Federazione Italiana dei Circoli di Cinema, UCCA – Unione Circoli Cinematografici ARCI  e UICC – Unione Italiana dei Circoli del Cinema)?
Proverò a fare alcune riflessioni generali nel merito, per tentare di dare qualche risposta al quesito che nella sostanza mi ha richiesto l’amico Paolo Micalizzi, direttore di questa rivista.
Partiamo da una prima considerazione, che parte da un punto di vista specifico della FICC di cui sono presidente da sette anni; in questi ultimissimi anni, grazie agli sviluppi di una condivisione di obiettivi e di un percorso comune, il rapporto tra le nove AANNCC si è particolarmente rinsaldato.
Tale condizione la si può constatare dai tanti incontri di lavoro collegiale, dalle tante manifestazioni  congiuntamente fatte e, in particolare, dalla nascita di un coordinamento nazionale che ha rappresentato  istanze e funzioni di tutte le AANNCC.
Il recentissimo nuovo processo unitario delle AANNCC si è dovuto sviluppare, oltre che da una comune necessaria verifica di razionalizzazione delle proprie condizioni operative,  come risposta forte a una situazione precaria e difficile derivata dalla crisi generale e dai poderosi e iniqui tagli dei finanziamenti ministeriali, che hanno superato il 40% nel giro di pochissimi anni.
In questo quadro la loro specifica funzione culturale nazionale è stata fortemente  compromessa, contrastando con quanto invece era ben garantito dalla legge sul cinema già a partire dalla metà degli anni ’60, poi riconfermato dalle successive modifiche legislative che si sono susseguite nel corso degli anni.
Era questo il riconoscimento legislativo concreto per un’attività associativa culturale radicata nel nostro Paese da tanto tempo, già molto prima degli anni ’60.
La FICC,  che ha avuto tra i suoi fondatori e alla sua guida uomini di cultura del calibro di Cesare Zavattini, l’8 novembre 1947 è stata fra queste  Associazioni la prima a nascere.
Seppure in una realtà  completamente devastata dalla guerra, essa ha iniziato a sviluppare la sua attività in un contesto impregnato di ideali e di speranze per una nuova rinascita, in cui il cinema assumeva sul versante sociale, culturale e politico un ruolo strategico fondamentale.
Proprio Cesare Zavattini, del ruolo straordinariamente democratico e partecipativo che svolgevano i circoli del cinema in Italia, racconta: “Ho visto con i miei occhi cambiare la faccia di un paese con la nascita di un circolo del cinema, giovani e anziani si animavano improvvisamente e cominciavano a discutere. Ho visto aspettare con ansia l’arrivo del nuovo film e il nuovo film lasciare dietro di sé un’idea, un sentimento, qualche cosa che prima non c’era, e centinaia di abitanti di un piccolo paese, che prima andavano a vedere i film come un vizio, andare a vedere i film con il bisogno di entrare nel giro dei giudizi del mondo, di sentirsi membri di una collettività dove chi fa qualcosa lo fa sempre in rapporto agli altri che affronta consapevolmente, di affermare insomma la propria responsabilità. (citazione di Cesare Zavattini, Il Progresso Irpino 1955)”
Seppur in un processo di differenziazioni o  affermazioni di nuove forme di identità associazionistiche laiche o cattoliche derivanti da un mondo politico diviso in due, da allora in poi il movimento dei circoli del cinema si è sviluppato determinando la funzione del cinema come strumento di cultura e non merce,  impegnandosi a difesa del cinema come scoperta della realtà del paese, diffondendo opere non distribuite  dal monopolio commerciale o a causa dell’ostruzionismo politico, sviluppando una positiva evoluzione fino ad oggi nella organizzazione e nella formazione culturale e critica del pubblico.
Su tali basi, diversi sono stati anche gli approcci positivi per un lavoro comune nel corso di questo tempo, come negli anni ’80 e ’90 , ad esempio, grazie in particolare al forte impegno di operatori come Riccardo Napolitano.
Da rimarcare  quanto avvenne agli inizi del 2000 con l’A.I.C.A. – Associazione per Iniziative Cinematografiche e Audiovisive, organismo culturale unitario nato proprio negli anni ’90, coordinata da Elio Girlanda, che ebbe il compito di sviluppare tramite le AANNCC un progetto  speciale chiamato Cantiere Italia – 100 schermi di qualità.
Un progetto che prevedeva  la promozione da parte della Direzione Generale per il Cinema dei film italiani realizzati anche con il contributo economico pubblico, sia sul versante della produzione che in quello della distribuzione e circuitazione grazie all’impegno delle AANNCC.
Ma indubbiamente questi approcci unitari sono andati in tutti questi anni a fasi alterne, non hanno avuto continuità e non hanno riguardato neppure l’insieme delle AANNCC.
Solo a partire dal 2010, quando la crisi economica generale  del Paese ha iniziato a mordere i freni e a far traballare garanzie consolidate di cui godevano le AANNCC, il bisogno impellente dell’incontro e dell’organizzazione interna è stato sollecitato dal rischio della messa in discussione della sopravvivenza stessa delle Associazioni.
Hanno una data e un luogo preciso la consapevolezza di dover loro obbligatoriamente fare i conti con una realtà economica e finanziaria,  politica e culturale fortemente negative e l’acquisizione del fatto che per affrontare in termini decisi questa nuova situazione era necessario studiare nuove strategie e sollevare il livello della compattezza interna.
L’occasione che si presenta è quella di un Convegno significativamente intitolato ‘L’Associazionismo culturale agli albori del XXI secolo: l’impegno dell’operatore culturale e il rogo della cultura’, organizzato il 29 e 30 giugno 2012 nell’ambito del VII Sardinia Film Festival – SFF dal Cineclub Fedic di Sassari e condotto da Italo Moscati.

Convegno di Sassari- al tavolo dei relatori (da sin.) Carlo Dessì, Paolo Micalizzi, Italo Moscati, Angelo Tantaro e Marco AsunisE’ a seguito di quella iniziativa, ben preparata e coordinata dal presidente del SFF Angelo Tantaro, che le nove AANNCC sottoscrivono un importante documento.
Un atto ufficiale condiviso che, in sintesi, impegnava sul piano politico culturale  le nove Associazioni a un lavoro comune atto a contrastare una “realtà nazionale sempre più improntata a svilire il ruolo della cultura cinematografica e della formazione del pubblico nel nostro Paese.”.
In questo impegno formale vi era una volontà sottesa a rispondere in modo forte a una precaria condizione determinatasi nel tempo, che indeboliva la funzione principale delle rappresentanze del pubblico nella difesa dei suoi diritti sempre più minacciati da una condizione di “forte destrutturazione sociale, etica e culturale nel Paese”. Era  questa la svolta tanto attesa.
E’ netta nel documento la forte volontà di costruire  un fronte compatto teso “a difendere anzitutto il valore della cultura cinematografica, dell’istruzione e della formazione, considerandoli ‘bene comune’ e fondamentali per la qualità della vita e per la crescita democratica della società.”.
Nascono così i presupposti che impegnano le nove Associazioni  a rimarcare e riaffermare all’unisono la loro funzione per un impegno verso l’organizzazione e la formazione critica del pubblico, per la difesa dei suoi diritti sanciti dalla ‘Carta di Tabor’ nel 1987, approvati durante il XXVI Congresso della International Federation of Film Societies e alla cui stesura e deliberazione grande impegno hanno dato il presidente Carlo Lizzani, Filippo Maria De Sanctis e Fabio Masala.

Il regista Carlo Lizzani

Il regista Carlo Lizzani

Il decalogo della Carta dei Diritti del pubblico, i principi secondo i quali non può esserci umanizzazione senza comunicazione e nei quali la formazione del pubblico risulta condizione fondamentale, anche per gli autori, per la creazione di opere di qualità, da quel momento risultano punto di riferimento centrale ed aggregante per le AANNCC.
La rivista mensile on line Diari di Cineclub ideata da Angelo Tantaro, che nasce subito dopo  questo approdo,  diventa l’arma principale,  la testa di ariete per la divulgazione delle iniziative e delle informazioni delle Associazioni, che registra e promuove il continuo lavoro del coordinamento delle AANNCC finalizzato alla sensibilizzazione ed alla mobilitazione del mondo politico e culturale.
Il risultato di questo impegno appare straordinario nei suoi sviluppi.
Il coordinamento, presieduto da Candido Coppetelli presidente del CGS, dalla compianta Pia Soncini della UICC e da Angelo Tantaro in rappresentanza della FEDIC e di direttore della rivista, interagisce dinamicamente con i rappresentanti massimi delle istituzioni, promuove  interpellanze di parlamentari, interviene con il ministro Bray e incontra il suo successore Franceschini.
La conclusione di questo lungo e faticoso percorso è stato l’incontro con i commissari e il direttore generale del MIBACT Nicola Borrelli, che ha avuto da subito riscontri positivi anche se non del tutto soddisfacenti.

Audizione al Mibact, 9 settembre 2014- da sin. Angelo Tantaro, Nicola Borrelli, Rosaria Marchese, Candido Coppetelli, Francesco Tufarelli, Marco Asunis

Audizione al Mibact, 9 settembre 2014- da sin. Angelo Tantaro, Nicola Borrelli, Rosaria Marchese, Candido Coppetelli, Francesco Tufarelli, Marco Asunis

Ciò che si è posto al centro del confronto con i vari interlocutori è stato un caparbio impegno a non far scomparire il lavoro prezioso e originale che svolgono da anni le AANNCC con i loro circoli.

Un lavoro che sostiene e divulga in particolare il cinema di qualità, sviluppando una politica che favorisce cultura e critica attiva del pubblico, magari in zone dove le sale cinematografiche non ne esistono più oppure nelle stesse nostre scuole.
Un lavoro senza scopo di lucro, quello delle Associazioni, che si dipana da decenni in tutto il territorio nazionale con proposte di rassegne e proiezioni tematiche, dibattiti, corsi formativi ed autoformativi, riviste e pubblicazioni editoriali, festival e circuitazioni di esperienze cinematografiche ed audiovisive indipendenti e così via,  confermando con ciò una presenza unica e non interscambiabile per una diffusa promozione culturale del cinema in Italia.
Appare sempre più evidente per il futuro continuare a percorrere questa strada e a lavorare su un fronte di impegno comune, in cui l’associazionismo continui a porre  al centro del proprio essere l’obiettivo di crescita culturale e critica del pubblico.
Le prospettive future stanno qui, nel non piegarsi e andare avanti verso un orizzonte comune di riferimento, verso un inevitabile processo storico che sappia affermare uno specifico ruolo attivo,  partecipativo e maggiormente democratico del pubblico e, nel contempo, della società.

DOCUMENTI

La Carta dei Diritti del Pubblico
conosciuta come “Carta di Tabor”
1.    Il pubblico ha diritto di ricevere tutte le informazioni ed espressioni audiovisive. Il pubblico deve avere i mezzi per esprimersi e far conoscere i propri giudizi ed opinioni. Non vi sarà umanizzazione senza comunicazione.
2.    Il diritto all’arte, all’arricchimento culturale, alla capacità di comunicazione, fonte di ogni mutazione culturale e sociale, è un diritto imprescrittibile. Esso è garante di una vera comprensione tra i popoli, solo mezzo di evitare le guerre.
3.    La formazione del pubblico è la condizione fondamentale, anche per gli autori, per la creazione di opere di qualità. Solo la formazione del pubblico permette l’espressione dell’individuo e della collettività sociale.
4.    I diritti del pubblico corrispondono alle aspirazioni ed alle possibilità di uno sviluppo generale delle facoltà creative. Le nuove tecnologie devono essere utilizzate per tale obiettivo e non per l’alienazione di massa.
5.    Il pubblico ha diritto di organizzarsi in modo autonomo per la difesa dei propri interessi. Per raggiungere tali obiettivi, le associazioni del pubblico devono poter disporre di strutture e mezzi posti a disposizione degli enti pubblici.
6.    Le organizzazioni del pubblico hanno diritto di essere associate alla gestione degli organismi di produzione e di distribuzione, sia dello spettacolo che dell’informazione, e di partecipare alla designazione dei responsabili di tali organismi.
7.    Pubblico, autori ed opere non possono essere utilizzati per fini strumentali, siano essi politici, commerciali o altro. Nel caso di strumentalizzazioni, le organizzazioni del pubblico hanno diritto di esigere risarcimenti.
8.    Il pubblico ha diritto ad una corretta informazione. Il pubblico rifiuta ogni forma di censura e di manipolazione; esso si organizza per far rispettare in tutti i massmedia la pluralità delle opinioni ai fini della propria realizzazione.
9.    Di fronte alla mondializzazione della diffusione dell’informazione e dello spettacolo, le organizzazioni del pubblico si uniranno e lotteranno sul piano internazionale.
10.    Le associazioni del pubblico rivendicano l’organizzazione di serie ricerche sui bisogni e lo sviluppo delle conoscenze del pubblico. Esse si oppongono, invece, a indagini strumentali, come le richieste sugli indici di ascolto e di gradimento.
Approvata  all’unanimità nel corso del XXVI Congresso della Federation International of Film Societies (IFFS), tenutosi nel 1987 a Tabor  (Cecoslovacchia)

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CONVEGNO ORGANIZZATO NELL’AMBITO DEL VII SARDINIA FILM FESTIVAL

L’associazionismo culturale agli albori del XXI secolo
L’impegno dell’operatore culturale e il rogo della cultura
UNIVERSITÁ DI SASSARI 29-30 GIUGNO 2012
DOCUMENTO FINALE DELLE ASSOCIAZIONI DI CULTURA CINEMATOGRAFICA

I rappresentanti  delle 9 Associazioni nazionali di cultura cinematografica riconosciute dalla vigente Legge sul Cinema,  ANCCI ( Associazione Nazionale Circoli Cinematografici Italiani), CGS (Cinecircoli Giovanili Socio-Culturali), CINIT (Cineforum Italiano), CSC (Centro Studi Cinematografici), FEDIC (Federazione Italiana dei Cineclub), FIC (Federazione Italiana Cineforum), FICC (Federazione Italiana dei Circoli del Cinema), UCCA (Unione Circoli Cinematografici ARCI),  UICC (Unione Italiana dei Circoli del Cinema), riunitosi in occasione del Convegno organizzato dal Cineclub Fedic di Sassari il 29-30 giugno 2012, avente per tema: ‘L’Associazionismo culturale agli albori del XXI secolo: l’impegno dell’operatore culturale e il rogo della cultura’, considerano di particolare importanza tale confronto per dare slancio unitario al ruolo e all’attività culturale delle Associazioni, anche attraverso iniziative communi. Le associazioni manifestano  la  consapevolezza che i cambiamenti in corso nel Paese, dalla grave situazione economico-finanziaria alle grandi trasformazioni tecnologiche della comunicazione, necessitano di nuove riflessioni sulla propria identità ed azioni corrispondenti a dare risposte alla forte destrutturazione sociale, etica  e culturale in atto.
Di fondamentale importanza è a questo proposito la trasformazione digitale in corso che rappresenta un terreno di innovazione ineludibile non solo per l’esercizio, ma anche per la rete dei circoli del cinema. In tal senso auspicano che il Ministero si adoperi perché la loro realtà possa essere più presente nel contesto culturale europeo.
Questo contraddittorio inizio di XXI secolo deve continuare a vedere l’associazionismo culturale impegnato a difendere il valore della cultura cinematografica, dell’istruzione e della formazione, considerandoli ‘bene comune’ fondamentale per la qualità della vita e per la crescita democratica della società. È  un compito generale che deve svilupparsi anche attraverso il raccordo con il mondo autoriale e della distribuzione cinematografica indipendente, per attivare politiche più rispondenti agli interessi di un pubblico che si vuole sempre attivo e critico. In questo ambito  ritengono importante continuare a lavorare con il mondo della scuola per un’azione pedagogica  tesa alla formazione delle giovani generazioni.
Ritengono quindi che per conseguire tali obiettivi occorra valorizzare il lavoro professionale degli operatori culturali e l’attività di volontariato dell’associazionismo cinematografico, per l’organizzazione del pubblico, per la sua formazione e per la difesa dei suoi diritti, a cominciare da quelli sanciti dalla ‘Carta di Tabor’ del 1987 nel Congresso della International Federation of Film Societies (IFFS), con la presidenza del regista Carlo Lizzani.
È  a partire da questi presupposti che le 9 Associazioni nazionali intendono contrastare da subito le vecchie e nuove tendenze di ‘politica culturale’ da parte delle Istituzioni che ne avviliscono il ruolo attraverso pesantissimi e ingiustificati tagli dei finanziamenti. Tutto ciò mette a rischio la sopravvivenza stessa dell’associazionismo cinematografico e del sistema cultura il cui investimento pubblico rispetto al Pil continua ad essere tra i più bassi in Europa.
Per tutte queste ragioni le 9 Associazioni nazionali di cultura cinematografica sono al fianco degli oltre 400.000 lavoratori di cultura e spettacolo in Italia che rischiano il posto di lavoro, a iniziare da quelli dello storico polo di Cinecittà a Roma la cui memoria e le attività non devono essere messi in discussione.
Le stesse Associazioni auspicano, infine, che la principale azienda culturale pubblica del Paese, la RAI, venga ‘restituita ai cittadini’ favorendone un rilancio e una gestione che recuperi integralmente la propria principale funzione di servizio culturale pubblico.

Vito Rosso (ANCCI)
Cristiano Tanas (CGS)
Massimo Caminiti (CINIT)
Carlo Tagliabue (CSC)
Paolo Micalizzi (FEDIC)
Gian Luigi Bozza (FIC)
Marco Asunis (FICC)
Greta Barbolini (UCCA)
Pier Mario Mignone (UICC)
Sassari, 30 giugno 2012

L’associazionismo culturale agli albori del XXI secolo. L’impegno dell’operatore culturale e il rogo della cultura
Lettera al Ministro per i Bini e le Attività Culturali, Lorenzo Ornaghi

Gentile Signor Ministro,
a seguito del Convegno “L’associazionismo culturale agli albori del XXI secolo. L’impegno dell’operatore culturale e il rogo della cultura” che si è svolto a Sassari nell’ambito della VII edizione del Sardinia Film Festival, i rappresentanti delle nove associazioni nazionali di cultura cinematografica riconosciute dal MIBAC hanno redatto un documento che Le inviamo per opportuna conoscenza in allegato. Dal convegno è emersa l’esigenza di un incontro con lei per verificare le problematiche riferite al ruolo, alle funzioni e alle prospettive dell’associazionismo nazionale di cultura cinematografica.
In attesa di un cortese riscontro la salutiamo con molta cordialità.
Massimiliano Eleonori (ANCCI)
Candido Coppetelli (CGS)
Massimo Caminiti (CINIT)
Massimo Maisetti (FEDIC)
Gian Luigi Bozza (FIC)
Marco Asunis (FICC)
Greta Barbolini (UCCA)
Pier Mario Mignone (UICC)
Roma 2 luglio 2012

OCCHIO CRITICO

THE IMITATION GAME: IMPLICAZIONI FILOSOFICHE
di Maurizio Villani

Il “gioco dell’imitazione” è la cifra interpretativa che accompagna tutta la ricostruzione filmica della vicenda umana e professionale di Alan Turing, così come la rappresenta il regista Morten Tyldum, adattando per il cinema la biografia scritta da Andrew Hodges nel 1983 (“Alan Turing: The Enigma”).
Il racconto cinematografico intreccia almeno quattro linee narrative: la storia del gruppo di matematici, guidato da Turing, incaricato dal servizio segreto britannico di decrittare il codice Enigma, ideato dai Nazisti durante la Seconda guerra mondiale per comunicare le loro operazioni militari in forma segreta; l’omosessualità del protagonista, repressa in una società che la considera un reato; la progettazione di una macchina “computante” che anticipa gli attuali computer; il tema squisitamente filosofico di cosa voglia dire pensare e se si possa attribuire il pensiero alle macchine.

Un’immagine del film con il gruppo di ricercatori impegnati a decrittare il codice Enigma (in primo piano il protagonista, Benedict Cumberbatch, al suo fianco Keira Knightley nella parte di Joan Clarke

Un’immagine del film con il gruppo di ricercatori impegnati a decrittare il codice Enigma (in primo piano il protagonista, Benedict Cumberbatch, al suo fianco Keira Knightley nella parte di Joan Clarke

Prenderò le mosse da quest’ultimo tema per approfondire cosa credesse Turing a proposito delle capacità di ragionamento sia della sua macchina “computante” sia dei computer in generale. Durante una fase dell’interrogatorio cui il protagonista viene sottoposto in un commissariato di polizia con l’accusa di omosessualità, il detective che lo interroga, mostrando di conoscere le idee di Turing, gli chiede:

«Può una macchina riuscire a pensare come un essere umano?».
«Molti dicono di no», osserva Turing.
«Ma lei non è molti», replica il poliziotto.
«Il problema è – continua Turing – che è una domanda stupida. (…) È ovvio che le macchine non possono pensare come le persone. Una macchina è diversa da una persona e pensa in modo diverso. La domanda interessante è: poiché un qualcosa pensa diversamente da noi, vuol dire che non sta pensando?».
È evidente, prosegue nel suo ragionamento Turing, che i cervelli delle persone hanno modi di pensare diversi, si può allora ritenere che cervelli fatti di rame, acciaio e cavi pensino diversamente?
«Questa è la sua pubblicazione? Qual è il titolo?», chiede il detective.
«Il gioco dell’imitazione», risponde Alan Turing. Poi rivolge a sua volta un’inquietante domanda al suo interlocutore: «Le va di giocare? …. Facciamo un gioco, una sorta di test per stabilire se si ha davanti una macchina o un essere umano».

Alan Mathison Turing (1912-1954)

Alan Mathison Turing (1912-1954)

L’ultima battuta di Turing fa riferimento al concetto di gioco e a quello di test. Nell’idea del gioco è implicita la convinzione, già espressa dal matematico inglese nelle risposte precedenti, che il pensiero non sia di un unico tipo, ma che esistano molteplici forme di pensiero, come esistono molte forme di vita e di giochi linguistici che le esprimono. Si è sempre ritenuto che queste molte forme di pensiero appartengano tutte alla mente umana. Il problema che viene posto nella conversazione tra Turing e il detective Nock è se, oltre ai molti modi di pensare dell’intelligenza umana, vi siano altri tipi di inferenze, compiute da macchine, che possano dirsi forme di pensiero oppure no. Per cercare la risposta a questa domanda Turing ha ideato il test che da lui ha preso il nome e che costituisce un vero e proprio «gioco dell’imitazione». Esso si deve svolgere fra tre individui (uomo o donna non importa), A, B e C. Immaginiamo che i tre siano separati e che possano comunicare solo attraverso messaggi scritti a macchina; A deve interrogare B e C per indovinare chi dei due sia uomo o donna e, mentre B cercherà dì aiutarlo, C tenterà di ingannarlo. Ebbene, sostituiamo C con un computer, e chiediamoci cosa succederà: «L’interrogante sbaglierà altrettanto spesso in questo caso di quando il gioco è effettuato fra un uomo e una donna? Queste domande sostituiscono la nostra domanda originaria “Le macchine possono pensare?”».
In altri termini si tratta di immaginare che un “esperto” intrattenga una conversazione “cieca”, in cui non vede il suo interlocutore, limitandosi a comunicare con lui tramite messaggi scritti. Qualora l’esperto non riesca a sapere con certezza se sta comunicando con una persona o con una macchina, allora si può veramente affermare che la macchina pensa. Quindi, secondo Turing, «un computer è paragonabile a un essere umano, quanto a intelligenza, se gli esseri umani non possono distinguere le prestazioni del computer da quelle dell’essere umano». Nel corso dell’articolo del 1950 dal titolo “Macchine calcolatrici e intelligenza” Turing lascia chiaramente intendere di ritenere che il pensiero sia a tutti gli effetti un calcolare, o meglio un algoritmo eseguibile da un calcolatore.
Il “test di Turing”, a oltre sessant’anni  dalla sua formulazione, è tutt’ora al centro di una vasta letteratura critica, divisa tra chi lo considera l’unico criterio efficace per attribuire l’intelligenza alle macchine e chi lo giudica insufficiente.  Turing nell’articolo citato si disse fiducioso che «le macchine saranno alla fine in grado di competere con gli uomini in tutti campi puramente intellettuali». Nonostante questa previsione e qualunque sia il giudizio che si intende dare del valore del test, la sua applicazione ha comprovato che, a tutt’oggi, nessuno dei calcolatori esistenti è stato in grado di superare compiutamente il test.

La Macchina di Turing nella ricostruzione del film, alle spalle del protagonista

Al fine di raggiungere l’obiettivo di cui si è detto, Turing condusse una ventennale ricerca, tesa a progettare una macchina “computante”, le cui caratteristiche gli erano già chiare nella mente quando, ancora studente a Cambridge, pubblicò nel 1936 un saggio “Sui numeri computabili, con un’applicazione al problema della decisione”. In questo studio Turing chiariva che a suo parere “computabile” significava “calcolabile da parte di una macchina” e ne mostrava l’operatività, risolvendo in senso negativo il complesso “problema della decidibilità”, posta dal matematico Davin Hilbert nel 1928.
Lo strumento principale con il quale Turing fece questa importante dimostrazione era la Macchina universale. Questo dispositivo, è bene sottolinearlo, è inizialmente puramente teorico, ed è composto da un nastro di lunghezza infinita diviso in caselle e da una macchina che si muove lungo di essa un passo alla volta e che ha la capacità di leggere, scrivere o cancellare dei simboli sul nastro medesimo. Ebbene, questo semplice dispositivo, se dotato delle opportune istruzioni, riesce a caratterizzare ciò che in matematica si intende per procedura algoritmica. In linea di principio tutti i computer che utilizziamo comunemente sono di fatto delle macchine universali dì Turing, ciò che li differenzia dai primi prototipi è il fatto che negli anni Trenta-Quaranta si trattava di calcolatori meccanici, mentre a partire dagli anni Cinquanta lo stesso Turing iniziò a lavorare su calcolatori elettronici.
Il matematico inglese è perfettamente consapevole che, al di là delle molte questioni specifiche, l’importanza della sua macchina «deriva dal fatto che permette di compiere tutte le elaborazioni effettuate mediante le macchine (elettroniche o meccaniche) apparse nella storia dell’umanità, incluse le elaborazioni che oggi si eseguono con le tecnologie più avanzate e gli odierni computer, e perfino le dimostrazioni matematiche che l’umanità ha raccolto nel corso della sua storia».
Questo tema della Macchina di Turing ha un’ampia presenza nel film di Tyldum. Non solo essa è lo strumento attraverso il quale, tra le incomprensioni delle gerarchie militari, avviene la decodifica del codice Enigma, ma nella parte finale del film la macchina si rivela essere la sola ragione di vita di Turing. Il film ci mostra il protagonista, dopo la condanna per atti osceni in quanto omosessuale, depresso, sciatto e trasandato mentre lavora alla macchina. Bussa alla sua porta Joan, la ragazza di un tempo che Turing aveva voluto nel suo gruppo di ricerca, cui aveva proposto il matrimonio, e che ora gli racconta di essersi sposata con un militare.
Turing appare psicologicamente distrutto. Spiega che la sua prostrazione è dovuta ai farmaci che è costretto a prendere: «Il giudice mi ha dato una scelta: o due anni in prigione o una terapia ormonale … castrazione chimica per curare le mie tendenza omosessuali. E io ho scelto questo. Non potevo lavorare in prigione».
Sollecitato da Joan a uscire dalla sua solitudine e a cercare aiuto, Turing le risponde:
«Non sono solo; non lo sono mai stato».
Poi va ad accarezzare la macchina che occupa tutta una parete della stanza. Ad essa ha dato il nome di Cristopher (lo stesso nome del suo amico di adolescenza, morto precocemente a causa di una malattia). Disperato e piangente, aggiunge rivolto a Joan:
«Cristopher è diventato così bravo. Se non continuo la terapia, loro me la portano via. Tu non puoi lasciarglielo fare».
Per non andare in carcere per due anni e dover abbandonare Cristopher, Turing ha preferito accettare la castrazione chimica: la macchina si rivela essere l’unico vero “oggetto d’amore” della sua esistenza, a cui tutto deve essere sacrificato.

Una sceda del colloquio tra Turing, prostrato dai farmaci, e Joan

Una scena del colloquio tra Turing, prostrato dai farmaci, e Joan

L’atmosfera del colloquio  si rasserena solo quando Joan ricorda all’amico il valore delle sue scoperte scientifiche e i meriti che ha acquisito nel lavoro di intelligence durante la guerra. Poi chiude la conversazione con una battuta illuminante: «Sono le persone che nessuno immagina che possano fare certe cose quelle che fanno cose che nessuno può immaginare».
Poche sequenze dopo il film si conclude e nei titoli di coda viene comunicato che il 7 giugno del 1954, nonostante la libertà guadagnata sacrificando la propria identità e l’immensa genialità dimostrata con Christopher, Alan si arrese e si uccise all’età di 41 anni.

Nota filmografica e bibliografica

The Imitation Game, Gran Bretagna, Anno2014. Regia di  Morten Tyldum, Soggetto di Andrew Hodges (biografia), Sceneggiatura di Graham Moore; interpreti principali: Benedict Cumberbatch (Alan Turing); Keira Knightley (Joan Clarke), Matthew Goode (Hugh Alexander),Charles Dance (Comandante Alastair Denniston), Rory Kinnear (Detective Nock). 2015 – Premio Oscar per la migliore sceneggiatura non originale, a Graham Moore.
La biografia di Alan Turing da cui è tratto il film è di Andrew Hodges; “Alan Turing: The Enigma”, 1983, riedita ora in italiano col titolo “Alan Turing. Storia di un enigma”, traduzione di  D. Mezzacapa, Bollati Boringhieri, Torino 2014.
I due saggi di Turing citati nell’articolo (“Sui numeri computabili, con un’applicazione al problema della decisione” del 1936 e “Macchine calcolatrici e intelligenza” del 1950) sono tradotti in italiano in: A. M. Turing, Intelligenza meccanica, a cura di G. Lolli, Bollati Boringhieri, Torino 1994.

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NEO-CINEMA
A cura di Elio Girlanda

IMMAGINI OLTRE IL TEMPO

Nuovi formati per durata, lunghezza o brevità, si vanno affermando con le immagini in movimento tra cinema, tv, web, nuovi media, arti visive e applicazioni per la comunicazione mobile. Mentre i film industriali superano ormai la durata canonica dei 100’/120’ commerciali e sfiorano a volte le 3 ore, e oltre, oppure danno vita a vere proprie saghe composte negli anni da più episodi, i film d’autore tendono a non avere più limiti di tempo. È il caso dell’ultimo capitolo della quadrilogia di Edgar Reitz (L’altra Heimat, 2014, durata 232’) oppure del doppio film di Lars von Trier, Nymph()maniac, vol. I e vol. II (145’ e 180’). Si assiste, quindi, a una rinegoziazione tra autori e pubblico sulla durata media del film che, dopo i primi kolossal italiani e americani degli Anni 10, si era stabilita in relazione al numero di proiezioni in sala.
La rinegoziazione è dovuta anche alla possibilità per lo spettatore di interrompere o rivedere un film fuori dalla proiezione in sala ovvero la “rilocazione”, di cui scrive Francesco Casetti (La Galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene, Bompiani, 2015), la possibilità cioè dell’esperienza di cinema di rilocarsi in nuovi ambienti fisici e mediali, al di fuori della tradizionale sala buia.

Un esempio di rilocazione a New York

Un esempio di rilocazione a New York

Eppure si sa che la psicologia, prima, e le neuroscienze, dopo, hanno dimostrato quanto bassa sia la soglia d’attenzione dello spettatore medio, soprattutto per quel che riguarda i messaggi audiovisivi. Ma tant’è. All’estremo opposto si affermano, anche in ambito professionale, i formati cortissimi, basati non tanto sull’efficacia comprovata dei messaggi pubblicitari (15” e 30”) quanto sulla durata della memoria disponibile sui server dei social media come Facebook o Instagram. Ecco allora che alle ultime edizioni di Cortinametraggio, per esempio, erano in competizione video della durata massima di 15” per la sezione Instagram.

Il logo di Cortinametraggio

Il logo di Cortinametraggio

Se aggiungiamo le possibilità offerte dalla tecnologia time-lapse che consente di comprimere in pochissimo tempo immagini molto lunghe o dilatate nel tempo e con vari usi dalla pubblicità alle arti visive, il panorama è completo. Almeno apparentemente. Dal festival francese “L’image contre-nature” (sic!) si annuncia la preparazione di un film della durata dii ben 720 ore: Ambiance, dello svedese Anders Weberg che prepara un trailer di 72’ per quest’anno e rilascerà altri due trailer prima della conclusione del progetto. Uno, lungo 7 ore e 20’, in rete nel 2016, e l’altro, da 72 ore, in uscita nel 2018.
Ambiance invece è definito dal regista: «Spazio e tempo s’intrecciano in un viaggio onirico e surreale al di là dei luoghi». Weberg ha girato più di 300 corti in 20 anni di carriera, tanto dall’aver deciso di compiere una vera impresa: la proiezione unica in tutto il mondo, a partire dalla notte del 31 dicembre del 2020, del suo nuovo film. Poi, 720 ore dopo, il film sarà distrutto (www.thelongestfilm.com/).

ambianceDue anni dopo, si potrà assistere al film “completo” che batterà il record del mondo, attualmente detenuto da Modern Times Forever del gruppo di artisti danesi Superflex, uscito nel 2011 e della durata di ”appena” 240 ore (10 giorni). Il film mostra come Stora Enso, quartiere generale di Helsinki, potrebbe decadere nei prossimi mille anni. Il film è stato originariamente proiettato davanti all’edificio stesso su 40m², in modo che il pubblico potesse vedere l’edificio attuale e l’altro contemporaneamente sullo schermo tra multivisione, media-façades e video mapping.

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Proiezione di Modern Times for ever

Proiezione di Modern Times for ever

Cosa sta succedendo e perché? Nel 2001, con il primo iPod con la possibilità di registrare musica per ore e ore, un critico musicale si pose l’interrogativo: è forse giunto il momento per qualche compositore di scrivere musica della durata di 24 ore, e oltre? Ci si chiedeva, cioè, se ci sarebbe potuto essere in futuro un’opera musicale da contenersi comodamente nei nuovi dispositivi mobili di riproduzione sonora ed essere ascoltata senza alcuna preoccupazione né di durata né di luogo. Oggi, grazie ai dispositivi digitali di ripresa e riproduzione audio/video in tempo reale (dagli smartwatch alle microcamere), molto probabilmente i confini temporali (e spaziali) stanno saltando anche nella produzione e nella fruizione delle immagini in movimento. Si pensi allo sviluppo rapidissimo dei nuovi media e ad app recenti come Periscope per Twitter, che sta spopolando tra i giovanissimi, alle app per il turismo in realtà aumentata come piccole “macchine del tempo”, fino ai dispositivi indossabili che permettono di registrare la nostra vita quotidiana o i dati biometrici del nostro stato di salute.

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Modello di smartwatch

Modello di smartwatch

Dunque il sogno di tanti cineasti sperimentatori e cineamatori del passato di poter trasmettere il flusso della vita senza limiti di tempo, che ha dato origine, tra l’altro, ai diary-film dei filmmaker dell’underground americano, oggi è diventato realtà. Nota Francesco Longo: «Su Periscope è mattina presto e la luce dilaga e contemporaneamente il sole tramonta ed è anche piena notte: un ragazzo ispanico nel buio della sua stanza avverte l’umanità che non riesce a dormire. Da quando è stata lanciata Periscope, applicazione di Twitter per inviare video streaming dallo smartphone, tutto il mondo è in diretta, ogni cosa accade simultaneamente, in uno stesso luogo, dentro uno schermo. Il mito della simultaneità che ha attraversato tutto il novecento ha trovato la sua incarnazione definitiva. Il caos è servito. Per cominciare a riprendere è sufficiente, una volta scaricata l’applicazione, toccare l’icona con la telecamera. Si possono avvertire che si sta cominciando una diretta i follower di Twitter, a cui l’applicazione è legata. Tommaso Marinetti, nel manifesto Distruzione della sintassi – Immaginazione senza fili, scriveva: “Ho ideato inoltre il lirismo multilineo col quale riesco ad ottenere quella simultaneità lirica che ossessiona anche i pittori futuristi”. Marinetti avrebbe amato la simultaneità di Periscope.

Filippo Tommaso Marinetti

Filippo Tommaso Marinetti

In quel testo dell’11 maggio 1913 c’era scritto: “Il poeta lancerà parecchie linee parallele parecchie catene di colori, suoni, odori, rumori, pesi, spessori, analogie”. Si augurava un mondo in cui un solo gesto creativo potesse condensare tutte le emozioni possibili senza interruzioni di tempo e spazio. Con le dirette su Periscope si è realizzato un modo di narrare la realtà che artisti e scrittori inseguono da almeno un secolo. […] Da Periscope usciranno delle star. Qualcuno riprenderà per caso un incidente d’auto o forse filmerà una rapina. Si discuterà a sfinimento di come censurare Periscope quando sarà invasa da sesso e violenza, e un’associazione di genitori raccoglierà allora firme per una petizione irrevocabile.“This app is crazy”, dice una ragazza e scoppia in una risata, poi la diretta si interrompe. Qualcuno già odia Periscope. Una squadra di psichiatri sarà al lavoro per preparare una terapia per disintossicare i primi videodipendenti. Prima che arrivino tutti gli uffici marketing, la politica, e che tutto il resto diventi autopromozione, su Periscope si respira ancora un’aria divertita da pionieri. Il tumulto della vita è sotto agli occhi di tutti, tra noie, narcisismi, monologhi deliranti e paesaggi illimitati. Un bambino viene allattato, il vagone della metro di New York è arrivato al capolinea»

(www.internazionale.it, 16 aprile 2015).

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the end of timeLa rivoluzione del collasso del tempo e dello spazio anche per le immagini in movimento e “in diretta” è ormai alle porte. Forse per questi motivi il regista Peter Mettler ha realizzato il bel documentario The End of Time (Svizzera/Canada, 2012, 109’), un saggio ipnotico sul significato e le diverse concezioni del tempo e sul rapporto che con esso ha l’umanità, illusa di poterlo misurare, controllare, sfidare (www.theendoftimemovie.com/). Al contrario, il regista ha cercato luoghi, dal Cern di Ginevra alle sponde dei fiumi sacri indiani, dai vulcani hawaiani alla decadente Detroit, in cui il tempo dimostra di avere una propria ineffabile logica, e ogni ordine tra passato, presente e futuro, diventa soggettivo.

Elio Girlanda*

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* L’Autore è docente responsabile dell’area didattica “Lo spettacolo nella società multimediale, linguaggi e formati” presso l’Università Telematica Internazionale UNINETTUNO e autore di saggi sul cinema digitale e i nuovi media.

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VISTI DA LONTANO
a cura di Andreina Sirena

NENA
Regia: Saskia Diesing.

Interpreti:  Gijs Blom, Monic Hendrickx, Abbey Hoes, Fabian Jansen, André Jung.
Uwe Ochsenknecht,  Jelmer Ouwerkerk
Durata: 90’
Origine: (Olanda/Germania, 2014).

La sedicenne Nena vive in una cittadina della campagna olandese, al confine con la Germania. E’ l’estate del 1989 e l’assetto politico dell’Europa sta per cambiare drasticamente. La Germania sta per infliggere il colpo fatale a quella cortina di ferro – come l’aveva definita Churchill – che aveva diviso e snaturato l’Europa per oltre
quarant’anni e, come la capitale Berlino si riapproprierà di lì a poco di se stessa, demolendo il muro che separava i berlinesi dai loro stessi concittadini, lo stesso farà l’Europa negli anni immediatamente a seguire. Simultaneamente a città, nazioni, continenti, anche la vicenda degli individui in Nena delinea un analogo percorso di riappropriazione di sé, della propria identità, della propria libertà.
Nena si innamora di un coetaneo, e attraverso la scoperta dell’amore e del sesso prende congedo dall’infanzia, sbocciando alla vita adulta, nel senso della consapevolezza di come la realizzazione di sé passi essenzialmente attraverso il rapporto, la relazione con l’altro. Di contro, proprio questa dimensione della relazione  sembra ormai per sempre preclusa a suo padre: appena separato e affetto da sclerosi multipla, desidera soltanto morire. Tanto quanto Nena si apre al mondo e alla sua meraviglia, così il padre si ripiega in se stesso, chiudendosi  in un rabbioso dolore. La malattia lo rende incapace di aprirsi agli altri e di ricevere a piene mani l’amore della figlia.

Dal film Nena

Dal film Nena

Nena è duramente provata dalla scoperta del tentato suicidio di suo padre.  Allo stesso tempo, apprende che quella non è nemmeno stata la prima volta. Questa ossessiva ricerca della morte è vissuta dalla fanciulla come un’offesa personale: come può suo padre non sognare altro che abbandonarla, fuggire da lei, dal suo amore? Come può contare così poco il loro rapporto, come può essere annientato da una – per quanto terribile – malattia? Ma Nena, appunto, ama. Nena ha scoperto l’amore.
Ed è proprio l’amore che la porterà ad un cambio radicale di prospettiva. E’ proprio l’amore che la porterà a quella empatia che il fisioterapista e il fratello del padre – supplicati di dargli la morte- non conoscono. Nena comprende che l’amore non si misura, non fa calcoli, non tiene la contabilità.  Lentamente il desiderio di morte
del genitore non è più vissuto come un oltraggio personale. Il padre l’ama ma soffre in modo indicibile.  Ora non si tratta più di ciò che lui potrebbe fare per lei, ma di ciò che lei può fare per lui. E quell’amore che è ‘forte come la morte’ è capace degli esiti
più estremi e coraggiosi, è capace perfino di dare quella morte di cui esso, secondo il senso comune, rappresenterebbe l’antitesi. Padre Horvak, in Million Dollar Baby (2004) di Clint Eastwood, cercava di dissuadere Frankie dal dare la morte a Maggie con queste parole: “Se tu fai una cosa del genere, ti perderai. Finirai in un abisso. Non
riuscirai mai più a ritrovarti”. Ma Frankie non cede, pur innanzi ad una prospettiva così terribile, il perdersi in un abisso senza mai più ritrovarsi, il diventare anatema, un dannato. Perché l’amore è capace anche di questo, di affrontare l’abisso, dimentichi della propria salvezza, pur di assicurarla all’amato. Ed è il rischio che affronta
anche la giovanissima e coraggiosa Nena: ha solo 16 anni, potrebbe perdersi già, senza mai più ritrovarsi. Sa bene che potrebbe privarsi per sempre della pace, ma nonostante questo preferisce donare questa pace al padre che ama. Lo accompagnerà su un binario, in aperta campagna. Un’ultima canzone cantata insieme lungo il tragitto, un bacio frettoloso per commiato e poi una fuga precipitosa, senza mai
voltarsi indietro: Nena riesce là dove Orfeo aveva fallito, solo che qui si tratta di accompagnare la persona amata alla morte, non alla vita. Così si conclude un piccolo, coraggiosissimo film, dove l’enorme impatto del finale riscatta una sceneggiatura purtroppo troppo spesso esile, debole. Ma la grandezza della regista olandese sta nella sua disarmante sincerità, lontana  per esempio dall’ambiguo ( e criptico ) messaggio de La bella addormentata (2012) di Marco Bellocchio, in cui la posizione favorevole all’eutanasia è rinvenibile  nelle parole di Lady Macbeth pronunciate nel sonno turbato di una splendida Isabelle Huppert.

Andreina Sirena

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QUALITÀ IN SERIE
a cura di Luisa Ceretto

Fargo.

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FARGO

SERIE TV – PRIMA STAGIONE (USA/2014)  –  SCRITTA E IDEATA DA NOAH HAWLEY

1° ep. The Crocodile’s dilemma (Il dilemma del coccodrillo) diretto da Adam Bernstein
2° ep. The Rooster Prince (Il principe galletto) diretto da Adam Bernstein
3° ep. A Muddy Road (Una strada fangosa) diretto da Randall Einhorn
4° ep. Eating the Blame (Le piaghe della Bibbia) diretto da Randall Einhorn
5° ep. The Six Ungraspables (Gli imprendibili 6) diretto da Colin Bucksey
6° ep. Buridan’s Ass (L’Asino di Buridano) diretto da Colin Bucksey
7° ep. Who Shaves the Barber? (Chi la fa l’aspetti) diretto da Scott Winant
8° ep. The Heap (Il puzzle) diretto da Scott Winant
9°ep.  A Fox, a Rabbit and a Cabbage (Una volpe, un coniglio e un cavolo) diretto da Matt Shakman
10° ep. Morton’s Fork diretto da Matt Shakman

Personaggi principali della prima serie:
Lester Nygaard: interpretato da Martin Freeman, è un assicuratore vessato dalla moglie che non manca di rinfacciargli  il proprio fallimento, sul piano lavorativo come su quello personale e di ricordargli quanto invece il fratello sia bravo e vincente…
Lone Malvo: Billy Bob Thornton è un killer professionista e implacabile che non esita a eliminare chiunque possa intralciare i propri piani criminali. Astuto manipolatore e conoscitore dell’animo umano e dei suoi lati più oscuri, giunge in una cittadina del Minnesota dove incontra Nygaard.
Molly Solverson: l’attrice Allison Tolman è una scrupolosa e brillante agente di polizia di Bemidji, tenace nel seguire il proprio intuito, riuscirà a far luce sui colpevoli dell’assassinio del proprio capo, oltre che di altre misteriose scomparse.
Gus Grimly: Colin Hanks interpreta l’agente del dipartimento di polizia di Duluth, padre single che avrà l’occasione di incontrare due volte Lone Malvo, due incontri che segneranno la propria vita…

La serie ruota intorno alle vicende che coinvolgono Lester Nygaard, un mite assicuratore spesso umiliato dalla consorte, con un grosso complesso di inferiorità nei confronti del fratello minore, per il suo successo e sicurezza. Un giorno incontra un vecchio compagno di scuola, Sam Hesse, un proprietario di una società di trasporti colluso con la malavita, che ben presto mostra la sua arroganza e violenza. Per schivare un pugno, in memoria dei bei tempi, Lester va a sbattere contro la vetrina di un negozio e si ferisce al naso. All’ospedale lo sventurato incontra Lone Malvo, un personaggio misterioso e inquietante, un killer professionista, al quale racconta l’accaduto. Malvo gli propone di uccidere l’ex compagno di scuola. Nygaard non rifiuta esplicitamente l’offerta, dando per scontato che l’uomo non stia parlando seriamente.  Dopo questo incontro, l’assicuratore si troverà coinvolto in una serie di crimini, a partire da Sam Hesse, su cui investigherà la brillante poliziotta Molly Solverson. Le vicende raccontate si svolgono a Bemidji, Duluth e Fargo, cittadine che si trovano al confine tra il Minnesota e il North Dakota…

Nel 1996 usciva Fargo con cui Joel e Ethan Coen ottenevano la palma d’oro, una commedia nera che poneva all’attenzione internazionale il talento e l’originalità della loro scrittura.
Quasi vent’anni dopo, la Mgm e Fx Productions decidono di ricreare per il piccolo schermo quel singolare microcosmo suburbano.
Presentata su Sky Atlantic lo scorso dicembre e conclusasi il 10 febbraio, la prima stagione della serie si compone di dieci puntate, tra i cinquanta e i settanta minuti l’una.
Ideata e scritta da Noah Hawley Fargo – la serie rispetto al film, si distanzia sul piano tematico, pur restandone fedele nello spirito, nel mood.
Sin dalla prima puntata si ritrovano infatti certe suggestioni, a partire dalla scelta dello scenario, il Minnesota, a tutti gli effetti vero co-protagonista della vicenda. Un paesaggio naturale, strade solitarie, e un’architettura urbana essenziale (motel, centri commerciali, capannoni industriali) ripresi per lo più di notte e con tonalità fredde che accentuano l’ostilità, le difficoltà di quei luoghi, costituiscono il set sul quale far muovere i propri personaggi; ma è soprattutto il bianco della neve a costituire il controcampo perfetto per le cupe atmosfere della serie.
Fargo ricalca lo stile cinematografico dei fratelli Coen, proponendo l’umorismo nero tipico dei due autori e inserendo anche riferimenti diretti ai loro lungometraggi. L’episodio pilota, come l’omonima pellicola, si apre con un’identica e non veritiera indicazione secondo la quale i fatti narrati sono veramente accaduti (segnalazione che ritroveremo nei successivi episodi).
Nella serie non mancano quegli elementi che han fatto di Fargo un film di culto, grazie alla presenza degli stessi registi in qualità di produttori esecutivi e autori: colpi di scena, satira, violenza e un tocco di saggezza filosofica. “E’ una marea di sangue questa nostra vita, per tutta la merda che ci fanno ingoiare a casa e al lavoro”, spiega il killer Malvo all’innocente Lester, dopo avergli già rivelato: “Il tuo guaio è che hai sempre pensato esistessero delle regole. Non ce ne sono! Eravamo gorilla un tempo e se non te lo ricordi, cosa hai lì nel profondo, vieni spazzato via”.
Emerge in un crescendo, col procedere e l’infittirsi della trama, la natura profondamente violenta dell’essere umano, un mix di pura cattiveria e innocenza in perenne conflitto tra loro.
Azzeccata la scelta degli attori, di Martin Freeman nei panni del timido assicuratore, così come di Billy Bob Thornton, il freddo calcolatore e spietato assassino, e ancora di Allison Tolman e Colin Hanks, figlio di Tom, rispettivamente l’agente di polizia Molly e l’agente Gus, il cui sogno in realtà è quello di fare il postino. Personaggi border line, sfaccettati, enigmatici e insoddisfatti, rappresentanti “del peggio e del meglio dell’America”.
Sequenze di efferata violenza sono attenuate da momenti che virano nel comico-grottesco con soluzioni visive ragguardevoli.  Come ad esempio, la sequenza della sparatoria nel corso della quale viene ferita la poliziotta Molly dal suo partner, Gus, che si svolge interamente nella nebbia, rendendo indefinibili i contorni, non facilmente identificabili i buoni rispetto ai cattivi, dove si riescono a percepire appena rumori e voci…
E ancora: la sequenza in cui Malvo irrompe in un edificio la cui facciata è rivestita di specchi che non lasciano intravedere gli interni, per eliminare il boss che aveva cercato a sua volta di farlo ammazzare dai suoi sicari, e chiunque lo ostacoli nel suo fine, dove una carrellata ne riprende dall’esterno il procedere di stanza in stanza.
Miglior miniserie televisiva riconosciuta agli Emmy 2014, Fargo ha inoltre ottenuto il premio alla miglior regia e al miglior casting, oltre ad essere stata premiata ai Golden Globe 2015 come miglior miniserie. A Billy Bob Thornton è stato riconosciuto il premio come miglior attore protagonista.
Fargo è una serie “antologica”, ogni stagione racconta una storia diversa e con attori differenti. La seconda stagione costituirà un prequel e verrà trasmessa negli Stati Uniti nell’autunno del 2015. Si svolgerà nel 1979 nelle città di Sioux Falls, Luverne e Fargo, negli stati del North Dakota e del South Dakota. Il protagonista sarà il padre di Molly Solverson, un ex poliziotto che compare già nella prima stagione, in cui gestisce un ristorante: non sarà però interpretato dallo stesso attore, Keith Carradine. La seconda stagione, secondo quanto ha dichiarato Noah Hawley, continuerà a ispirarsi alle ambientazioni del cinema dei Coen. Non resta che attendere il prossimo autunno…

Luisa Ceretto

PANORAMA LIBRI
a cura di Paolo Micalizzi

ErcoleIl grande libro di Ercole-Il cinema mitologico in Italia
di Steve Della Casa/Marco Giusti
(Centro Sperimentale di Cinematografia – Edizioni Sabinae,2013-pagg. 431, Euro 30,00)

Veramente un grande libro con una copertina rappresentante un uomo muscoloso tratta dal film Ercole alla conquista di Atlantide che indica significativamente come il peplum si basava soprattutto su gente forzuta. Aprono il volume due saggi firmati dagli autori, due specialisti del genere peplum. Steve Della Casa in “L’ultima frontiera della cinefilia” invita a vivere il cinema di genere con la consapevolezza che non tornerà più: leggerlo, precisa, “svincolati dalla critica sociologico-strutturale da un tanto al chilo” ed “evitare di proporlo come possibile modello per il cinema che verrà; divertirsi nel raccontarlo e nel ricordarlo, restituire il piacere testuale e l’altrettanto piacevole esperienza di raccogliere informazioni come progetto di storia orale del cinema, ma al tempo stesso  evitare di colorarlo con i toni postmoderni del revival e dell’operazione nostalgia”. Facendo successivamente un’accurata e acuta analisi del fenomeno. Marco Giusti, dal canto suo, spazia sugli autori alle origini del peplum (Godard, Fellini) e  dei suoi Maestri italiani come Cottafavi, Freda, Bava (Mario) ed altri ma anche stranieri come Hawks, Wise, Walsh, Vidor e produttori come Dino de Laurentiis, Ponti, Lombardo  dando conto anche degli incassi dei film. Ne scaturisce una storia del peplum che ha origine con il successo di Le fatiche di Ercole del 1958  di Pietro Francisci e finisce nel 1965 dopo il tentativo di contrastare lo spaghetti western che aveva fatto breccia nel pubblico; anche se successivamente il filone riprende sporadicamente con alcuni film. Un significativo Album fotografico immerge poi il lettore sul set di alcuni film con i suoi  protagonisti. Poi le schede, in ordine alfabetico, dei film che compongono il fenomeno dei peplum, con credit, sinossi e note critiche. Oltre 210 titoli ed una trentina di progetti non realizzati. Quindi, notizie di attori e attrici etichettati secondo il ruolo interpretato. Un’ampia bibliografia poi dà utili indicazioni, soprattutto agli studiosi, per poter approfondire il fenomeno peplum. In essa sono compresi anche i titoli di cinque documentari e programmi televisivi ad esso dedicati e i “Comic Book” che riguardano il fenomeno. Poterli visionare renderebbe più viva la conoscenza di un genere di successo che ha dato tante emozioni agli spettatori.

de sica“Cara Emi, sono le 5 del mattino…” Lettere dal set
di Vittorio De Sica
a cura di Alberto Crespi
(editori Laterza, 2014, pagg. 223, Euro 18,00)

Come si realizza un film. Come  si muove un regista sul set, quali sono i suoi rapporti con gli attori e le attrici, le comparse, i collaboratori. E che ruolo ha il clima, soprattutto la presenza o la mancanza del sole. Questi ed  altri aspetti emergono in questo succoso e piacevole libro che costituisce il “diario di lavoro” che il famoso regista ha redatto, senza volerlo, dai set dei film La ciociara(1960), Ieri, oggi, domani(1963), Matrimonio all’italiana(1964) e I girasoli (1970). Un Diario sottoforma  di lettere inviate alla figlia Emi scrivendole nei momenti “liberi” del giorno, anche alle 5 del mattino prima che l’autista lo andasse a prendere per portarlo sul set. Lettere affettuose alla figlia in cui si sfogava raccontando la quotidianità del set con le attese, la preparazione e il momento delle riprese, i problemi con questo o quel personaggio, figuranti ma anche attori/attrici famosi. Ne scaturisce un Diario in cui il mito, cioè il regista, viene fuori nella sua dimensione di uomo che ha la responsabilità di portare a termine il film, cioè il lavoro per il quale viene pagato. Una lezione di vita. E il racconto della  realizzazione di un film, al di fuori del mito.

vamosVamos. Il western italiano oltre Leone
di Giulio D’Amicone
(Edizioni Falsopiano, 2013 – pagg. 157, Euro 19,00)

Il western italiano non è solo Sergio Leone. In un fenomeno complesso di oltre 400 film, che si è sviluppato nel giro di un quindicennio, molti ne sono stati protagonisti. E’ quanto fa emergere Giulio D’Amicone (collaboratore della nostra rivista) in questo agile libro nella cui copertina appare Franco Nero protagonista del film di Sergio Corbucci Vamos a matar companeros (1970). Partendo dalle sue origini che, secondo l’autore, prendono l’avvio quasi al tramonto del genere classico con  il film di John Ford L’uomo che uccise Liberty Valance (1962) in cui il gunman per eccellenza dello schermo interpretato da John Wayne muore. Per Giulio D’Amicone il fenomeno del western italiano (cosi lo definisce invece delle locuzioni per lui inflazionate come “western all’italiana” o “ spaghetti western”) non ha come filo conduttore l’infallibile pistolero solitario che si allontana dopo aver  compiuto la sua vendetta ma tematiche varie che spaziano dal giallo, al genere bellico, alla farsa, all’horror e persino all’erotico moderato per non riallacciarsi poi alle tragedie greche o a quelle shakesperiane. Nel suo libro confuta l’influenza di Leone e seguaci sul cinema americano coevo affermando che esse furono reciproche, e ne indica titoli e situazioni. L’autore affronta poi il percorso seguito dalla critica nell’analizzare il fenomeno. Dapprima, dichiara, trattato con noncuranza oggi, grazie al tarantismo, con elogi che elevano buoni mestieranti a cineasti “di culto” e caratteristi di terza fila come ”grandissimi attori”. Non dimenticando poi chi ne sono stati i realizzatori. Anche persone di varie professionalità (direttori di fotografia, montatori, attori, ecc.) che hanno firmato gran parte della produzione. Sono queste le premesse di un discorso che presenta poi gli ambienti del western ed i caratteri dei personaggi più caratteristici che lo popolano, con annotazioni che “fotografano” molto bene quanto lo spettatore vede. Un libro fuori dagli schemi cha analizza il fenomeno al di là dell’aureola di mito.

BaldiGian Vittorio Baldi. Ricerca e trasgressione
di Guido Zauli
(Archetipo libri- Bologna, 2012-pagg. 314,Euro 18,00)

Un volume in cui Guido Zauli ( che in questo numero traccia un ampio profilo di Baldi che può servire da traccia alla lettura del libro) percorre gli interessi artistici del regista che, oltre, a quelli strettamente cinematografici coinvolge anche altri linguaggi, come l’architettura, la letteratura, la grafica, l’enogastronomia: il tutto alla ricerca da parte di Baldi  del nuovo, della sperimentazione, segno del carattere del  regista, insofferente alle regole. Un approfondimento dei temi trattati nel profilo che ne fanno un utile punto di riferimento per conoscere la personalità di Gian Vittorio Baldi e l’intensa attività cinematografica espressa come regista e come produttore, settore quest’ultimo che ha dato la possibilità a giovani talenti, ma anche ad autori affermati come Bresson, Godard e Pasolini, di poter realizzare i loro film. A corredo del libro una filmografia completa dei lungometraggi e dei cortometraggi. Oltre ad una ricca bibliografia.

Nou vaiNoul Val. Il nuovo cinema romeno , 1989-2009
di Francesco Saverio Marzaduri
(Archetipolibri- Bologna, 2012- pagg.298,Euro 19,00)
Un libro che analizza la produzione cinematografica romena dell’ultimo  ventennio, che si può riassumere nel movimento “Noul Val”, dando conto di un panorama complessivo e degli autori che lo compongono. Autori che poi vengono approfonditi nella loro intera filmografia. Marzaduri riferisce poi sulle tematiche principali emergenti del nuovo cinema romeno e sulle sue prospettive future. Autori e film di una cinematografia poco conosciuta in Italia che questo volume di Francesco Saverio Marzaduri( che in questo numero della Rivista ne traccia una sintesi) consente di approfondire in maniera molto ampia.

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TornatoreGiuseppe Tornatore cinema passione sogno
Catalogo a cura di Lilia Ricci
AmaRcord, 2014 – pagg. 210

E’ il Catalogo che accompagna la XXXIII Rassegna del Cinema Italiano-Primo Piano sull’Autore di Assisi, organizzata con competenza e passione da Franco Mariotti. Ma più che un Catalogo si tratta di un volume che costituisce un punto di riferimento importante per lo studio del cinema di Giuseppe Tornatore. Cosi come in passato lo è stato per gli altri Autori  omaggiati ad Assisi: Lizzani, Olmi, Risi, Lattuada , Germi, Antonioni, Wertmuller, Comencini, Pontecorvo, Damiani, Bolognini, Di Carlo, Monicelli, Sordi, Bertolucci, Magni, Montaldo, Zeffirelli,   Rosi(Francesco), Avati, Parenti, ma anche le famiglie Vanzina e Gassman, gli attori Verdone, Giannini, Placido, Bud Spencer & Terence Hill, Banfi e Lollobrigida ,il produttore Aurelio De Laurentiis ed il press agent Enrico Lucherini. Volumi che contengono Saggi molto utili per inquadrare l’universo cinematografico degli Autori in oggetto . L’ultimo è appunto dedicato a Giuseppe Tornatore, prestigioso autore di origine siciliana. Ad iniziare da un’intervista di Laura Delli Colli che ripercorre “La leggenda del regista nell’Oceano del Cinema” seguito da Orio Caldiron che evidenzia la natura affabulatoria del regista, l’immaginativa della memoria che è al centro di alcuni suoi film. Paolo D’Agostini, dal canto suo, evidenzia come il tema dell’ambizione riveste un ruolo importante nell’opera di Tornatore accompagnandone la storia artistica e contribuendo a definirne lo stile, mentre Ernesto G.Laura ne sottolinea l’amore per il cinema e Paolo Mereghetti si sofferma sulla sua recensione veneziana di “Baaria” dove aveva evidenziato come fosse un trascinante affresco di vita siciliana. Steve Della Casa si sofferma poi sulla cinefilia di Tornatore, mentre Vito Attolini analizza il suo  cinema che si svolge sotto il segno della Sicilia, tema ripreso poi da altri critici: Jean Gili, Maria Lombardo, Emiliano Morreale, Franco Cicero. Altri critici si soffermano poi sui film di Tornatore e su alcuni aspetti del suo cinema.

Ombre sul soleOmbre sul sole. Storie di uomini-contro
di Enzo Natta (Tabula  fati 2013-pagg.123,Euro 11,00)

Un libro che accomuna vicende di tre personaggi differenti per il ruolo ricoperto e per la loro vita, ma che hanno vissuto, come precisa l’autore, esperienze avventurose mantenute sempre in ostinato riserbo. Tre personaggi che hanno incuriosito l’autore perché queste loro storie non sono mai state raccontate in quanto scomode e che adesso lui rivela come se fossero storie rubate. Si tratta del ministro fascista Giuseppe Bottai, del documentarista  e regista francese Frédéric Rossif e dell’attore Folco Lulli. Personaggi con “un passato che era meglio dimenticare e che li ha resi prigionieri di un volontario silenzio nel quale si erano chiusi”. Costituiscono, secondo Enzo Natta, le “ombre del sole” mitizzate dai poemi giapponesi, tre “ronin” abbandonati al proprio destino. Sono tre personaggi antagonisti, uomini-contro ( come recita il sottotitolo del libro) che si sono ribellati al padre: Bottai a Mussolini, Rossif alla zia Elena diventata regina d’Italia, Lulli a un’identità perduta dopo aver preso parte alla campagna d’Etiopia. Esperienze di vita che l’autore del libro ha avuto modo di conoscere  attraverso i suoi protagonisti incontrati per motivi di lavoro: Rossif a Cinecittà dove era andato per realizzare uno special sul pittore Morandi e che in quell’occasione gli raccontò anche un episodio legato alla figura di Bottai, con il quale aveva militato nella Legione Straniera, che riguardava il tentativo di sventare il rapimento di Pio XII da parte dei nazisti: fece scaturire a Rossif e Natta  l’idea di realizzare insieme (ma il progetto non fu portato a termine) una fiction su questo fatto storico quasi del tutto ignorato. Per Folco Lulli lo interessava il suo passato di partigiano che lui ricavò dal racconto delle mogli dei figli, diventate ormai vedove. Storie di persone “bisognose di un riscatto morale in grado di poter loro restituire una nuova identità recuperabile soltanto attraverso una testimonianza di fede e di eroismo”. Storie che si leggono d’un fiato perché sempre più appassionanti.

Cine coccodrilliCine Coccodrilli
di  Alberto Pesce
(liberedizioni,2014-pagg.195,Euro 18,00)
Il “coccodrillo” in gergo giornalistico  è la biografia di una  personalità vivente che viene conservata in archivio per essere pubblicata in caso di morte. Ma sono anche “pezzi” già composti e tenuti pronti per la pubblicazione, in caso di necessità. Il critico del “Giornale di Brescia” Alberto Pesce in questo libro ne pubblica oltre un centinaio che riguardano attori, attrici, registi, italiani e stranieri, che hanno dominato la scena cinematografica mondiale,  scritti, annota l’autore, “facendo sempre memore segno di una mia cinepassione-vita ammaliata da un ideomitico passato di valori forti o effimeri, ma dallo schermo sentiti anche più ‘veri’ del reale quotidiano”. Coccodrilli che ripercorrono la carriera e la vita dei personaggi in oggetto, accompagnate da considerazioni personali dovute alla lunga frequentazione cinematografica dell’autore. Un volume che diventa memoria storica. Coccodrilli pubblicati in ordine di data a partire da Clark Gable (18 novembre 1960) e terminare con Richard Attemborough (26 agosto 2014). Una carrellata di nomi celebri e meno famosi della Storia del cinema.

Credits n.5

Carte di Cinema

Sede c/o FEDIC dott.ssa Antonella Citi, Via E.Toti, 7 – Montecatini Terme (PT)
E-mail: cartedicinema@hotmail.com

Carte di Cinema è edito dalla FEDIC -Federazione Italiana dei Cineclub
Direttore responsabile: Paolo Micalizzi
Direttore editoriale: Roberto Merlino
Redazione: Maurizio Villani

Progetto grafico e impaginazione: Lorenzo Bianchi Ballano

Hanno collaborato al numero 5 dalla rivista online: Marco Asunis, Luisa Ceretto, Giulio D’Amicone, Elio Girlanda, Roberto Lasagna, Paolo Mameli, Francesco Saverio Marzaduri, Roberto Merlino, Paolo Micalizzi, Giorgio Sabbatini, Andreina Sirena, Vivian Tullio, Maurizio Villani, Giancarlo Zappoli, Guido Zauli.